«Benedetto sia il Signore, che ha fatto di me un padre di chiese. E mi ha dato il discernimento e il senso delle tre dimensioni, e come lebbroso mi ha interdetto e liberato da ogni cura temporale, perché dalla terra di Francia suscitassi i templi della preghiera. Dieci Vergini Sagge (le cattedrali da lui costruite) di cui la lampada non si estingue mai. Che è l’anima del liutaio inserita nel suo strumento, in confronto della grande lira racchiusa e delle potenze incolonnate nell’ombra di cui io ho calcolato il numero e la distanza? Io non intaglio dall’esterno un simulacro. Ma come il patriarca Noè, nel mezzo della mia Arca enorme, lavoro dall’interno, e vedo come tutto, intorno, in un tempo s’innalza. E che è un corpo da scolpire a paragone d’un’anima da infondere e di quel vuoto arcano che lascia il cuore riverente che si ritira dinanzi al suo Dio? Nulla è troppo profondo per me: i miei pozzi attingono le acque della Vena-madre» (Paul Claudel, “Annuncio a Maria”).
Queste parole, pronunciate da Pietro di Craon, costruttore di cattedrali, esprimono molto bene il pensiero e la sensibilità di chi, dall’XI secolo a tutto il Medioevo, si accingeva ad edificare una chiesa: dalla scelta del sito, all’aratura del terreno, alla sua messa in opera.
Continua Pietro di Craon: «O agricoltore, la tua opera è finita. Vedi ch’è vuota la campagna, spoglia la terra di messi, e già l’aratro affonda tra le stoppie. Quel che tu hai cominciato, a me tocca finire. Tu hai aperto il solco, io scavo la creta, io preparo il tabernacolo. E come il sole, non tu, matura la messe, così fa la Grazia».
Gli architetti, almeno due, che guidarono altrettante maestranze nella costruzione del San Nicola ad Ottana (1160), avrebbero potuto dire le stesse parole, perché lo stesso spirito le dettava e lo dimostra la simbologia che s’in dalla gradinata era evidente allo sguardo di chi si accingeva a percorrerla. In quel tempo le pietre avevano il loro linguaggio e chi non sapeva leggere un libro, lo conosceva e poteva capirlo.
L’abitante del piccolo paese che ogni giorno, alle prime luci dell’alba, si recava in chiesa prima di intraprendere il duro lavoro dei campi o prima di andare all’ovile o prima di sfaccendare per casa, stando ai piedi della lunga scalinata non poteva non considerare la fatica del salire, che la sua condizione umana gli imponeva, per accedere al luogo dove ogni fatica fisica e spirituale avrebbe trovato ristoro.
Ciascun gradino percorso era occasione per meditare le parole del Salmo 23 (24), 3-4, che ricordava a memoria: «Quis ascendet in montem Domini, / aut quis stabit in loco sancto eius? / Innocens manibus et mundo corde…» (Chi salirà il monte del Signore? / Chi starà nel suo luogo santo? / Chi ha mani innocenti e cuore puro…).
Rifletteva sulla sua umanità, fragile e incline al male e, giunto davanti alla porta, riconosceva, nel quadrato della porta stessa, il suo stato d’uomo peccatore. Avrebbe voluto, sconsolato, piegarsi su se stesso, ma i piedritti monolitici lo invitavano a sollevare lo sguardo e considerare che colui che lo aveva chiamato all’esistenza, il suo Dio (la tripartizione orizzontale della facciata: il numero tre, simbolo della Trinità) non poteva abbandonarlo e l’arco della lunetta gli indicava la possibilità della redenzione. Vedeva la lotta tra la staticità della sua condizione (i rombi, di gusto pisano, ad incasso, incorniciati di trachite rosa) e la possibilità di riscatto (le arcatelle centinate: più alta e più larga quella centrale, poggiante su capitelli di alte lesene, le altre più piccole, poggianti all’esterno su altri capitelli, più stretti, posti su larghe paraste d’angolo).
Lo sguardo superava la cornice per posarsi sul secondo specchio della facciata e se lateralmente incontrava rombi e arcatelle centinate, simili non uguali, a quelli appena descritti, nell’arcatella centrale era colpito dalla bifora, con archi posti sul capitello della colonnina divisoria, che all’uomo peccatore indicava da chi avrebbe potuto ottenere il riscatto e la pace: Gesù Cristo, luce che vince le tenebre, nella sua natura umana e divina.
Il desiderio di redenzione trovava il suo compimento nello specchio più alto della facciata, limitato rispetto agli altri, perché ristretto tra la cornice del secondo spazio ed il frontone con modanatura aggettante, ma tale da contenere cinque arcatelle centinate: più grande quella centrale con capitelli posti su lesene che nascono da plinti messi sulla cornice divisoria, più piccole e digradanti le due laterali, che poggiano, all’interno, sulla stessa parasta e, all’esterno, sul primo dei tre conci che chiudono la facciata.
Sapeva che il numero cinque era sacro perché il numero della croce (quattro bracci che s’intersecano nel punto più importante, dove sta Gesù e il suo cuore ricco d’infinita misericordia). Proprio di essa aveva bisogno per raggiungere la pace che viene dall’Eterno, che la semisfera dei bacini ceramici posti sotto le arcatelle ricorda: due in quella centrale, messi uno sopra l’altro, tutti di colore verde, perché la speranza si alimentasse e, passando attraverso l’ultimo dei tre bacini in verticale (fede, speranza e carità) arrivasse alla croce, nel punto in cui le due cornici del frontone s’incontrano e così giungere alla liberazione: il cielo.
L’uomo di Ottana del XII secolo, davanti alla porta della sua chiesa, era ben consapevole che una linea immaginaria legava i vertici del rombo centrale alla colonnina della bifora, al centro dei tre bacini ceramici posti in verticale, per arrivare prima alla croce e poi al cielo. La liberazione dall’angustia del peccato era possibile, bastava realizzarla, varcando la soglia.
L’aula mononavata che lo accoglieva, stretta e lunga, lo invitava a procedere: lo sguardo incrociava dapprima il pulpito sulla destra, poi l’altare, al centro dell’incrocio dell’aula col transetto. Il pulpito, retto da due colonne, grosse, corte e lisce sormontate da capitelli con teste gotoniche (la mostruosità della condizione umana resa tale dal peccato) e quattro foglie d’acqua (l’umiltà): l’uomo peccatore, nel guardarlo, piegava la testa, come le foglie e pensava alle tante parole che da quel pulpito aveva sentito, non come condanna, ma come invito a meditare su di sé per essere pronto al riscatto. Sull’altare tra poco si sarebbe ripetuto il sacrificio della croce: Cristo aveva dato la vita anche per la sua redenzione.
La prima luce del sole, simbolo di Gesù risorto, entrando dalla monofora dell’abside, finiva sull’altare e l’uomo, commosso, constatava che non era solo, in preda al panico o alla disperazione, sapeva che un Altro era con Lui, che la semisfera dell’abside, simbolo dell’Eterno, immaginariamente si allungava nei bracci del transetto, quasi a stringerlo a sé per consolarlo e per farlo sentire importante, unico. Gli ritornavano alla memoria i versetti di un inno in latino, che aveva ascoltato molto tempo prima dai monaci di un vicino monastero, che spesso a Lodi lo cantavano: «Nox et tenebrae et nubila, / confusa mundi et turbida, / lux intrat, albescit polus / Christus venit: discédite» (Notte, tenebre e nebbia / fuggite: entra la luce / Viene Cristo Signore).
La pace di quel mattino lo avrebbe accompagnato per tutta la giornata e anche se le occupazioni quotidiane lo avessero stancato, non gli avrebbero tolto la leggerezza del cuore e la serenità, che la visita alla chiesa di San Nicola ogni giorno gli comunicava.