Gianni Avorio, già fondatore e componente della Compagnia Teatro Sassari, insieme a Giampiero Cubeddu ci propone una rivisitazione del libro Cuore, che pubblicheremo a puntate. Gianni, de ratza osilesa, fizu de sa recramadora Pitzentina Maronzu, ha un curricum recitativo di grande rispetto, Ha infatti recitato in un film premiato a Venezia con il Leone d’ argento e in uno sceneggiato RAI tratto da un’opera di Michelangelo Pira.
Questo libro è particolarmente dedicato ai ragazzi delle scuole elementari, i quali sono tra i nove e i tredici anni, e si potrebbe intitolare: Storia d’un anno scolastico, scritta da un alunno di quarta d’una scuolaprimaria d’Italia.
Va da sé che un alunno di una quarta classe della scuola primaria non può assolutamente aver neanche pensato una simile porcata, ma fa gioco fingere di crederci. E poi ricamare di fino con i buoni sentimenti rende digeribile qualsiasi stupidaggine, soprattutto se riferita all’innocenza di un tenero virgulto. Il nostro, come Gramsci, annotava in quadernetti quanto andava osservando sui comportamenti di quell’eterogeneo mondo di personaggi che circolava intorno a una scuola: genitori, parenti fino al quarto grado, rappresentanti delle case editrici, medici, singoli o in équipe, esponenti di società sportive, intermediari culturali, gestori di macchinette di bibite, addetti comunali alle mense, organizzatori di mostre, autisti e assistenti di scuolabus, personale coinvolto a vario titolo nelle gite scolastiche, assessori alla pubblica istruzione o loro emissari, personale addetto alle manutenzioni, venditori di materiale informatico, sedicenti esperti misti e vari, venditori di chincaglieria, pittori future promesse, l’immancabile caso pietoso “che non ha neanche i soldi per mangiare”, responsabili di ditte di materiale di cancelleria, alunni, insegnanti, personale di segreteria, dirigenti…
Il padre del frugoletto per puro caso trovò in fondo allo zaino, fra i residui di svariate merende lasciate lì a figliare, quel tesoro d’informazioni e decise di trascrivere in belle lettere quanto con diligenza il suo discolo figliolo aveva coscienziosamente registrato giorno per giorno.
A distanza di anni l’ex frugoletto, oggi punk convinto e osservante, rilesse il tutto e apportò qua e là qualche insignificante correzione. Per rendere evidenti le modifiche l’autore ha lasciato le parti originali in corsivo.
«Ora leggete questo libro, ragazzi: io spero che ne sarete contenti e che vi farà del bene.»
Settembre
Il primo giorno di scuola
15, lunedì
Primo giorno di scuola. Passò come un incubo quel mese di vacanza nella colonia estiva organizzata dall’Inpdap in quel di Monteluco in Umbria. Non vedevo l’ora di rivedere i miei compagni di scuola, soprattutto quelli con i quali più spesso ero solito organizzare meeting nei bagni, dove si decidevano le strategie per rendere il meno noiosa possibile la giornata scolastica.
Accompagnato da mia madre feci il mio ingresso trionfale nella scuola Edmondo de Amicis e notai in Posapiano, il bidello, uno sguardo disperato che era di contorno alle parole di apparente rassegnazione: «Ricominciamo?»
Io sorrisi educatamente e con la testa annuii, lasciando intuire un nuovo anno scolastico simile a quello precedente, e che tanto aveva spossato bidelli e insegnanti. Si sa: il lavoro stanca!
Con la mamma mi feci strada tra bambini piangenti della prima classe e ingombranti zaini, quando incontrai il viso sorridente di uno dei miei ex insegnanti che, senza troppo fingere e mostrando una felicità per me esagerata mi disse:
«Dunque, Enrico, siamo separati per sempre?» Non poté fare a meno di concludere con un: «Buona fortuna… (e sottovoce) ai tuoi futuri insegnanti!»
Io lo sapevo bene; eppure mi fecero rabbia quelle parole. Sapevo che quel maestro non mi aveva mai potuto soffrire e che fin dal primo giorno della mia avventura scolastica aveva deciso di riversare su di me tutto il suo astio e la sua frustrazione. Che colpa potevo avere io se la moglie, mentre lui correggeva i compiti, intratteneva, tramite alcuni siti di chat, diverse relazioni con persone differenti. Il maestro lo era venuto a sapere e aveva intrapreso, per la disperazione, una china etilica alla quale sembrava non trovare vie d’uscita. Ma noi bambini che colpa avevamo se la moglie del maestro non era propriamente un’orsolina? Che colpa potevamo avere noi piccole e innocenti creature se il mondo era a volte crudele? E poi quelle corna alla lavagna mica le avevo disegnate da solo! Gli altri, vigliacchi, si erano tutti tirati indietro, lasciandomi solo di fronte al maestro, al dirigente e a mia madre. Ripensandoci, quelle corna erano un vero capolavoro leonardesco! Ma questo era il passato. Dovevo organizzarmi per passare un altro anno in serenità con i nuovi maestri che ancora non conoscevo.
Incontrammo la mia maestra della prima classe che mi salutò di sulla porta della classe e mi disse: «Enrico, tu vai al piano di sopra, quest’anno; non ti vedrò nemmen più passare!»e mi guardòcon gioia infinita.
La ressa era indescrivibile: bambini delle prime classi urlanti e disperati aggrappati alle gonne delle mamme, genitori alla ricerca della classe di destinazione dei propri figliuoli, bidelli scocciati per il vociare dei presenti, maestri promossi bidelli per dirimere il flusso ininterrotto di bambini e adulti, dirigente confuso che cercava di organizzare l’afflusso, personale di segreteria che consegnava ai titolari delle classi l’elenco degli iscritti facendosi largo in mezzo a quella marea umana che pretendeva attenzione senza minimamente farsi capire. Le voci, mescolate al pianto dei neofiti, riuscivano a creare un effetto stadio straordinario, tanto che il movimento degli astanti ricordava molto da vicino una stupenda ola messicana.
Il dirigente, travolto dagli avvenimenti, sembrava gridare tutta la sua disperazione e il pentimento per non avere scelto la meritata pensione, e aver ceduto alle pressioni non disinteressate di qualche insegnante che preconizzava l’arrivo del dirigente Altero Severi, noto fra gli addetti come Caligola. Per fortuna del personale la natura, qualche volta benigna, aveva allontanato questa possibilità anche per gli anni a seguire perché il Severi si era spezzato in modo molto serio le gambe cercando di tinteggiare la casa al mare, cosa che l’aveva costretto ad anticipare di qualche anno la pensione.
Mi guardai attorno per ritrovare facce conosciute e per soppesare i nuovi innesti: trovai dei ragazzi cresciuti, ingrassati. Certo era colpa dei panini con Nutella o delle scorpacciate sponsorizzate da mamme e zie che vedevano sempre i loro pargoli magri o denutriti. Sbirciai nelle prime classi e notai scene al limite della sopportazione umana: bambini delle prime inferiori che non volevano entrare nella classe e s’impuntavano come somarelli, bisognava che li tirassero dentro a forza; e alcuni scappavano dai banchi; altri, al veder andar via i parenti, si mettevano a piangere, e questi dovevan tornare indietro a consolarli o a ripigliarseli, e le maestre si disperavano; altri, e non erano certo un numero esiguo, si muovevano come pesci nell’acqua, correndo, urlando, picchiandosi con sadico piacere (e forse era solo quella la vera motivazione dei pianti accorati che pervadevano l’ambiente, dando agli adulti quasi un senso di disperata impotenza di fronte a quei discolacci, per nulla intimoriti dal nuovo ambiente, e convinti dalla copertura educativa e dall’impunità, figlia della totale intolleranza ai diritti degli altri e particolarmente sensibile ai propri).
«Su, tesoruccio, non fare così!», sussurravacomesafare solo una mamma innamorata della sua creaturina che aveva appena infilato una matita nell’orecchio di una compagnetta. Questa urlava a sfondatimpano indicando il reo che, incurante dei pianti e del rimprovero della mamma,aveva iniziato a dedicare le sue attenzioni al grembiule candido di un’altra bambina tentando, con un pennarello rosso, di mettere in pratica i corsi di pittura sapientemente organizzati dalla scuola dell’infanzia,anche per il bisogno irrefrenabile del bambino di lasciare un segno della propria personalità. Altri ancora cercavano di trasformare l’aula in un campo di calcio, dove al posto del pallone si utilizzavano gli zaini lasciati incautamente incustoditi. Le mamme, oh le mamme, guardavano quella Hiroshima con sorriso benevolo, e indicavano agli insegnanti quel genio del loro figlio: «Non trovate che abbia una spiccata propensione per la logica e per il disegno?»; «Mi creda, signora, mio figlio ha un’intelligenza straordinaria. Non lo dico solo io che sono la mamma, ma lo dicono tutti.»; «Non faccio per vantarmi, ma il mio Alvin è considerato fin d’ora una promessa del calcio.»; «Vede quello con gli occhiali… Miope? O mio Dio, No! Sono occhiali da sole che lui ha fortemente voluto perché li porta Maximilien del Grande Fratello. È così precoce che riesce sempre a indovinare chi saranno gli esclusi dalla trasmissione. E poi balla il latino/americano in modo splendido. Ne sentiremo parlare del mio Jonathan.»; «La mia Deborah, ovviamente con la h, sogna di fare la velina e io non voglio ostacolare il suo legittimo desiderio di sfondare nel mondo dello spettacolo. Conosce a memoria, stenterete a crederlo, i nomi di tutti i concorrenti della trasmissione Amici fin da quando si chiamava Saranno famosi. Come fa così piccina? Semplice: le ho fatto vedere decine di volte tutte le trasmissioni registrate nel corso degli anni. Sono stata previdente anche perché per i miei futuri figli avevo già tracciato un percorso ideale: se femmina sarebbe diventata una velina, se maschio un calciatore o un tronista.»
Lasciai quella bolgia della prima e mi diressi verso la mia classe, non prima di aver depositato il mio piccolo fratello che fu messo nella classe delle maestre Delicati/Ruvidi/Risciacqui. Posapiano, l’infaticabile bidello, stranamente non ancora imboscato nel laboratorio d’informatica, mi indicò un’aula e con un ghigno diabolico m’informò: «Quest’anno avrai a che fare con il maestro Percattivi, cintura nera di karate e campione circoscrizionale di king boxing. Attento a quello che fai perché quello non perdona, lo chiamano ‘Artiglio d’acciaio’ perché al posto delle mani ha due morse.» Dal tono della voce sibilante sembrava volesse pregustare chissà quali punizioni nei miei confronti; ma, forse, era solo un’impressione perché in fondo ero benvoluto da tutti per il mio carattere estroverso ed espansivo.
C’infilammo in un’aula dove scorsi subito i miei amici più fidati: Carlo, con il quale ero solito allagare la scuola otturando con la carta igienica i lavandini; Lorenzo, detto la peste, con il quale frugavo nei giubbotti dei compagni per arricchire la nostra collezione di figurine di calciatori; Matteo che aiutavo a esplicare le sue indubbie doti pittoriche decorando con pastelli le pareti dei corridoi. Tutti e quattro insieme, sicuri dell’impunità, perché i bidelli scomparivano immediatamente dopo il suono della campanella, ci dedicavamo anche a delicate e strepitose opere di cesello sulle porte dei bagni.
Certo Percattivi non era il solo insegnante della classe, ma sembrava che gli altri fossero solo degli attori di sfondo, come nel teatro greco. Non era sufficiente, ovviamente, un solo giorno di scuola per conoscere i miei insegnanti. Appresi dal maestro Percattivi che si sarebbero alternate nella classe, oltre a lui, l’insegnante di matematica Cifra Quadrata, Walter Britannia, docente di lingua albionica e l’insegnante di religione Rosario Fiorito che, mentre camminava, era solito inondarecon una scia di profumo al crisantemo i corridoi, sollecitando tutti i maschi presenti a gesti al limite del galateo. I nuovi insegnanti sembravano delle brave persone e ci guardavano sorridenti, probabilmente per metterci a nostro agio e non farci pesare eccessivamente il cambio del corpo docente. Il maestro espose alle mamme l’indirizzo didattico e le norme che avrebbero regolato la vita quotidiana della classe. Quando affrontò il discorso sul comportamento da tenere in classe, ebbi l’impressione che mi guardasse in modo interrogativo. Più tardi scoprii che nella scuola circolava un dossier con le mie caratteristiche comportamentali e con brevi sintesi delle mie gesta. Insomma: maestro avvisato, maestro salvato! Dopo solo un quarto d’ora la classe era al completo: 25 discoli di cui le mamme si erano liberate con gioia, ringraziando santa Scolastica per la meravigliosa istituzione di “ritenzione coatta” chiamata scuola.
Mi parve così piccola e triste la scuola pensando ai boschi, alle montagne che circondano la colonia dell’Inpdap dove passai l’estate! Non avevo grandi rimpianti per il maestro dell’anno precedente e, viste le larvate insinuazioni, probabilmente neanche lui per me. Del resto bisognava guardare avanti e non lasciarsi coinvolgere dalla nostalgia per il passato. Certo, mi mancavano le scorribande in solitaria e le fantastiche avventure con Carlo, Lorenzo e Matteo, per merito delle quali eravamo diventati il gruppo stupor mundi o, come qualcuno era solito storpiare con cattiveria invidiosa, stupid mundi. Noi, fieri della nostra notorietà, non davamo grande importanza alle maldicenze e alle ignobili allusioni alla scorrettezza del nostro comportamento.
Il nostro maestro è alto, senza barba coi capelli grigi e lunghi, e ha una ruga diritta sulla fronte; ha la voce grossa, e ci guarda tutti fisso, l’un dopo l’altro, come per leggerci dentro; e non ride mai.
Io dico tra me: «Ecco il primo giorno. Ancora nove mesi. Quanti lavori, quanti esami mensili, quante fatiche!Se pensava di spuntarla con me, si sbagliava di grosso.»
Il nostro maestro
Settembre18, martedì
Ero, probabilmente, molto prevenuto nei confronti del maestro Percattivi e, senza dubbio, esageravo nell’incollare l’etichetta di cattivo a quella voce grossa e a quello sguardo indagatore e intimidatorio. Certo non avevo, allora, elementi per valutarlo serenamente ma, dopo il primo contatto/impatto, le idee mi si sarebbero schiarite definitivamente: sarebbe stato un altro anno di sofferenza per me e per la mia repressa intelligenza creativa. I primi segnali venivano dall’atteggiamento degli scolari che l’anno precedente avevano avuto il piacere di saggiare la bontà e la pazienza del maestro: mentre di tanto in tanto passavano vicino alla porta della classe scivolavano via con il terrore dipinto negli occhi e la paura di essere visti. Sentì quel fuggevole scalpiccio oltre la porta e forse intuì la verità, ma rimaneva serio, con la sua ruga diritta sulla fronte, voltato verso la finestra, e guardava il tetto della casa di faccia, e pareva che ne soffrisse. Poi guardava noi, l’uno dopo l’altro, attento, minaccioso, quasi pregustando il suo operare sadico nei confronti della scolaresca inerme. Con un sorriso demoniaco (Così allora mi parve.Oggi, al pensiero, un rivolo di sudore freddo mi ghiaccia la schiena.) aprì un libro ingiallito dal tempo, documento inoppugnabile della sua ferocia didattica, dal quale traeva i testi che sottoponeva a noi poveri agnelli teneri per mettere alla prova le nostre abilità ortografiche. I più grandicelli ci informarono che il libro era una riedizione aggiornata del decalogo del maestro secondo il Savonarola, filtrato e migliorato, con aggiunte esplicative, da Ignazio di Loyola e Torquemada con l’ausilio della Santa Inquisizione. Con un sorriso a labbra serrate ci comunicò: «Oggi, per ben cominciar l’anno, ci diletteremo con un dettatino. Una cosuccia, tanto per scaldare i motori e iniziare nel migliore dei modi. Per i nuovi e per quelli che non mi conoscono comunico quanto segue: ogni errore sarà punito con un voto in meno; tenendo conto che io parto dall’otto perché la perfezione non è di questa terra, con quattro errori c’è l’insufficienza, dai cinque ai sette errori ci si merita una nota sul quaderno e una sul registro, oltre i sette errori convocazione della famiglia e passeggiata nelle altre classi a mostrare il quaderno sbarrato e uno zero in didascalia. La procedura di dettatura e semplice e pratica: non si chiede di ripetere la parola, pena l’annullamento della prova con tutte le conseguenze di cui sopra; fra una parola e l’altra la pausa non sarà mai più di cinque secondi, tempo sufficiente per scrivere anche le parole più lunghe; sul pianale del banco devono trovare posto solo il quaderno e la penna; lo sguardo di ciascuno di voi deve essere indirizzato solo verso il proprio quaderno: ogni movimento strano sarà punito come un errore. Per garantirvi equità e giustizia ho qui un cronometro che scandirà il tempo della dettatura.»
Non conoscendo ancora la persona con la quale avevo a che fare, ridendo aggiunsi: «E il gatto a nove code dove lo tiene?»Fu il primo tragico errore di un anno che sarebbe diventato un calvario!
Il maestro sorrise e la cosa mi rinfrancò. Raggiunse il mio posto, afferrò il mio orecchio sinistro e mi costrinse ad alzarmi. Non appena in piedi, mi trascinò fino alla porta e chiamò Posapiano che stava, come al solito, per dileguarsi: «Accompagni questo giovanotto molto spiritoso in tutte le classi e dica che lo spiritosone merita di essere compatito.Aggiunga che il maestro Percattivi chiede a tutti la cortesia di asciugare le lacrime che stanno rigando le gote arroventate del bricconcello con i loro fazzoletti.»
A Posapiano non sfuggì il risvolto vendicativo dell’operazione: con poco rischio partecipava all’umiliazione globale e collettiva della piccola peste che lo teneva in scacco da anni, mettendo in essere scherzi e beffe sostanzialmente impuniti. Che delizia la vendetta! Era un viaggio all’inferno che solo una grande penna avrebbe potuto raccontare. Al confronto l’Odissea era un piccolo viaggio di piacere. E che umiliazione quei fazzoletti sul mio viso ad asciugare lacrime sempre più copiose, anche perché non tutti erano freschi di bucato. Dopo il tour, rientrai in classe e colsi negli sguardi dei miei compagni un sorriso divertito, un fugace, ma chiaramente percepibile, “meglio a te che a me!”
Il maestro ringraziò Posapiano e riprese esattamente nel punto in cui, sconsiderato, l’avevo interrotto: il dettato.
Dettando, discese a passeggiare in mezzo ai banchi, e visto un ragazzo che aveva il viso tutto rosso di bollicine, smise di dettare, gli prese il viso fra le mani e lo guardò; poi gli domandò che cos’aveva e gli pone una mano sulla fronte per sentir s’era calda. In quel mentre, un ragazzo dietro di lui si rizzò sul banco e si mise a fare la marionetta. Egli si voltò tutt’a un tratto; il ragazzo risedette d’un colpo, e restò lì, col capo basso, ad aspettare il castigo. Il maestro gli pose una mano sul capo e gli disse:«Questa è l’ultima che mi combini, piccolo scriteriato! Prima terminiamo il dettato, poi penserò per te una punizione esemplare, che sia di monito e di esempio per tutta la classe.»Nient’altro. Tornò al tavolino e finì di dettare. Finito di dettare, ci guardò un momento in silenzio; poi disse adagio adagio, con la sua voce sibilante e minacciosa: «Sentite. Abbiamo un anno da passare insieme. Vediamo di passarlo bene. Studiate e siate buoni. Io non ho famiglia e non penso tuttavia di adottare voi come famiglia d’elezione: toglietevelo dalla testa! Lo Stato mi paga troppo poco per mantenere una famiglia così numerosa. Poco m’importa che siate d’accordo o no; in questa classe io sono la legge e tutto si deve svolgere secondo i miei desideri. Ripeto: sarà un anno lungo, molto lungo, ma per voi sarà un inferno.» In quel punto entrò il bidello a dare il finis. Uscimmo tutti dai banchi zitti zitti. Il ragazzo che s’era rizzato sul banco s’accostò al maestro, e gli disse con voce tremante: «Signor maestro, mi perdoni.» Il maestro lo guardò gelido e gli disse: «Va’ e ricordati che nel mio vocabolario non esiste la parola perdono. Ti sia di consolazione durante il sonno: io non dimentico e domani riprenderemo esattamente dal punto in cui ci ha interrotto il bidello.»
Una disgrazia
Ottobre21, venerdì
L’anno cominciò con una disgrazia. Non sempre la scuola è un luogo sicuro! Quando si dice la sfortuna! Mentre, recandomi alla scuola di buonora, raccontavoal papi le mie istintive antipatie per il corpo insegnante e le difficoltà a inserirmi nel nuovo gruppo classe, nelle vicinanze dell’edificio scolastico scorgemmo un capannello di persone e una moto di grossa cilindrata riversa sull’asfalto. Mio padre disse: «I soliti teppistelli! Speriamo che nessuno si sia fatto male. Di sicuro è successa una disgrazia! L’anno comincia male!»
Entrammo a gran fatica. Il grande camerone era affollato di parenti e di ragazzi. Papi si avvicinò al gruppo e chiese a Posapiano, che era caratterizzato da una forte componente presenzialista: «Che cosa è stato?»
Il bidello, con l’aria da giudice di corte suprema, sentenziò: «Un idiota della vicina scuola superiore è sfrecciato come un missile, senza preoccuparsi minimamente dei piccoli alunni della scuola primaria. Nel tentativo di eseguire una serie di acrobazie con il motoveicolo, è scivolato sull’asfalto e, ricamando con il manubrio il marciapiede, stava per travolgere il povero Francesco Beverino, alunno della I B, quando, con un gesto tra l’eroico e l’insensato, Tony Sbrindellato si slanciò e con un gesto circense spinse il piccolo lontano dalla traiettoria del mezzo impazzito, frapponendo stupidamente il proprio corpo. E gli è andata anche di lusso, ci ha rimesso solo un piede: frattura scomposta di una mezza dozzina di ossa.» E sorrise soddisfatto del suo puntuale ed eloquente resoconto. I maestri non riescivano a tirar nelle classi(i ragazzi), e tutti eran rivolti verso la stanza del Direttore, e s’udiva dire: «Povero ragazzo! Povero Sbrindellato!»
Mentre ci raccontavano questo, una signora entrò nel camerone come una pazza, rompendo la folla: erala madre di Sbrindellato, che avevan mandato a chiamare; un’altra signora le corse incontro, e le gettò le braccia al collo, singhiozzando: era la madre del bambino salvato. Tutt’e due si slanciarono nella stanza, e si sentì gridare: «Ah, ma non finisce qui! Mio marito è capitano della polizia urbana e saprà ben lui farsi valere. Sono mesi che il Consiglio di Circolo sollecita interventi adeguati davanti all’ingresso della scuola e nulla finora è stato fatto! Qui ci vorrebbe una passata di chi so io!»
Il Dirigente cercò di calmare quel fiume in piena, facendole notare che il suo figliuolo aveva salvato un bambino da conseguenze probabilmente letali, era insomma un eroe. La signora Sbrindellato urlò con veemenza: «Questi sono i risultati di una scuola buonista e tollerante! E poi, se non ho capito male, questo fanciullo salvato è anche un meridionale! Quante volte gli ho ripetuto che farsi i fatti propri garantisce una vita serena e lontana dai guai!»
In quel mentre fece irruzione nella stanza del Dirigente unasignora di mezza età con borsone di pelle molto professional che si presentò agli astanti, ancora sotto choc per le violenze verbali della Sbrindellato: «Sono il legale della famiglia Berlasca!»
Quelle parole vennero accolte da un silenzio interrogativo, finché il Dirigente esclamò perplesso: «Non capisco! Berlasca chi?»
L’avvocato, in un crescendo rossiniano: «Facciamo finta di non capire, cerchiamo di eludere la questione? Rappresento la famiglia del ragazzo danneggiato dall’insipienza di un vostro alunno, che nel tentativo sciocco di far l’eroe ha causato la caduta del mio assistito, procurandogli una frattura al mignolo e danneggiando seriamente la sua Yamaha Fiat YZR-M1, con motore a quattro cilindri, quattro tempi, raffreddato a liquido, 20 valvole DOHC, cilindrata 990 cm³, accensione Yamaha CDI con mappature variabili, candele NGK. alimentazione a iniezione elettronica. La potenza massima è di oltre 240 cavalli, velocità massima oltre 320 km/h. Trasmissione tipo cambio estraibile a sei marce. Frizione multidisco a secco con slipper system e Catena DID. Per non parlare del telaio doppio, trave in alluminio con geometria, altezza da terra e distribuzione dei pesi variabili. Sospensione anteriore con forcella rovesciata Ohlins, sospensione posteriore con forcellone a doppio braccio con monoamortizzatoreOhlins. La ruota anteriore è Marchesini 17″, la posteriore Marchesini da 16,5″ con varie configurazioni di canale disponibile. Non so se mi spiego! È stato causato a un primo veloce esame un danno materiale di non meno di 10.000 euro. Per non parlare dei danni morali causati dal gesto insulso e imprudente del vostro alunno.»
Mio padre, un po’ stordito da quella straordinaria profusione di dettagli tecnici, sorridendo amaro, chiese: «Ma lei lavora per un’officina meccanica o fa l’avvocato?»
L’osservazione cadde nel silenzio, perché in quel preciso istante si sentì l’ululato della sirena e il Dirigente col ragazzo in braccio, che appoggiava il capo sulla sua spalla, col viso bianco e gli occhi chiusi, la raggiunse ad ampie falcate, fendendo la folla che gremiva l’ingresso della scuola. Tutti stettero zitti: si sentivano i singhiozzi della madre. Il Direttore si arrestò un momento, pallido, e sollevò un poco il ragazzo con tutt’e due le braccia per mostrarlo alla gente. E allora maestri, maestre, parenti, ragazzi, mormorarono tutti insieme: «Bravo, Sbrindellato! Bravo, povero bambino!» e gli mandavano dei baci; le maestre e i ragazzi che gli erano intorno, gli baciaron le mani e le braccia. Egli aperse gli occhi, e disse: «La mia cartella! Dov’è la mia cartella? Mamma, mi raccomando, dentro c’è il mio Nintendo DS!»La madre del piccino salvato gliela mostrò piangendo e gli disse: «Te la porto io, caro angiolo, te la porto io.» E intanto sorreggeva la madre del ferito(si era saputo nel frattempo che la famiglia del piccolo Beverino aveva antiche origini padane), che si copriva il viso con le mani. Escirono, adagiarono il ragazzo nell’ambulanza, chepartì. E allora rientrammo tutti nella scuola, in silenzio. L’avvocatessa guardò tutti un po’ stupita e li apostrofò: «Queste sono le conseguenze di una pedagogia abborracciata e falsamente morale. Quando i genitori saranno chiamati a rifondere al mio cliente i danni subiti, vedremo quanti di voi avranno ancora il coraggio di chiamarlo eroe, e, soprattutto, chi di voi contribuirà in solido!»
Il ragazzo calabrese
Ottobre22, sabato
Ieri sera, mentre il maestro ci dava notizie del povero Sbrindellato, che dovràcamminare un pezzo con le stampelle, entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte, tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il Direttore, dopo aver parlato nell’orecchio al maestro, se ne uscì, lasciandogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito. Tutti si chiedevano che cosa avesse raccontato il Direttore a Percattivi, ma solo io ero riuscito a cogliere il senso delle parole pronunciate in stretto dialetto badano, che suonavano più o meno così: «Questo terrone è capitato in mezzo a noi senza che io potessi fare alcunché. Caro maestro, conto su di lei per cercare di limitare il danno e impedire a questo calabrese di inquinare le nostre tradizioni celtiche. Purtroppo non possiamo farci niente, almeno per il momento, perché anche questi figli di Terronia pare che abbiano i nostri stessi diritti. Me lo tampini, me lo sprema come un limone, gli renda la vita impossibile, gli faccia toccare con mano la sua diversità. Mi affido a lei perché conosco la sua fede badana e il suo blasonato passato di camicia verde.»
«Non si preoccupi, Direttore, saprò creare intorno al meridionale una cintura sanitaria tale che supplicherà i suoi genitori perché lo portino in un’altra scuola.»
Rimasto solo con la classe Percattivi presentò il nuovo venuto: «Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Anche se sembra diverso provate a volergli bene, fate questo sforzo anche se dentro di voi pensate che ciascuno deve stare nel suo luogo d’origine e non deve rubare il lavoro di chi al Nord è nato e ci vive.»Poi chiamò forte: «ErnestoDebossi!», quello che ha sempre il primo premio. Debossi s’alzò. «Vieni qua», disse il maestro.Debossiuscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia al calabrese. «Come primo della scuola», gli disse il maestro, «guarda da vicino il bambino calabrese. Come puoi notare il colore della sua pelle olivastro è più vicino a quello di un nativo del nord Africa che a quello di un badano doc. Guarda i suoi occhi scuri e il suo aspetto selvatico che indicano quanto differenti siano gli esseri umani fra di loro. Debossi, prendi un righello e misura nella carta geografica sulla parete la distanza fra la Calabria e l’Africa, e fra la Calabria e il nord Italia. Bambini, come potete notare, anche con esame sommario fatto a braccio, si può ben arguire che la Calabria è molto più vicina all’Africa che al Piemonte o al Veneto; nel primo caso si può parlare di 1370 chilometri, nel secondo sono poco meno di 500. Ringraziate il compagno proveniente dalla terra calabrese, grande terra di lavoratori della terra, per la possibilità che ci ha dato e che ci darà in futuro di studiare le differenti razze umane e di come, spostandoci verso nord, possiamo vedere i caratteri somatici ingentilirsi e assumere colorazioni sempre più tendenti al bianco.»
Debossi ringraziò il piccolo calabrese e gli diede il benvenuto. Dopo questa splendida e improvvisata lezione del maestro Percattivitutti batterono le mani«Silenzio! gridò il maestro, non si batton le mani in iscuola!» Ma si vedeva che era contento.Anche il calabrese era contento per quella cordiale e solidale accoglienza. Il maestro gli assegnò il posto in fondo all’aulae lo accompagnò al banco. Poi disse ancora: «Essere italiani non significa necessariamente essere tutti uguali. Il bello, anzi, è riconoscere e apprezzare la diversità come fattore genetico e sociale.»
Appena il calabrese fu seduto al posto, i suoi vicini lo guardarono indagatori, confrontando le mani, il viso, il colore della pelle per cogliere in cosa potevano essere diversi o, come diceva il maestro, appartenenti a una razza differente.
I miei compagni
Ottobre25, martedì
Il ragazzo che mandò il francobollo al calabrese era quello che mi piaceva più di tutti, si chiamavaSgarrone, o almeno così lo chiamavano i compagni, perché poco sopportava chi tendeva a ‘sgarrare’, con lui o con i suoi protetti; era il più grande della classe, aveva quasi quattordici anni, la sua pluriripetenza ne faceva, agli occhi dei compagni, un eroe; la testa grossa, le spalle larghe; sembrava buono, ma si intuiva, quando sorridevaa denti stretti, la carica di cattiveria che era in grado di sprigionare; e pare che pensasse sempre a metter su qualche malefatta. Un altro mi piaceva pure, che aveva nome Scorretti, e portava una maglia una volta bianca, oggi color cioccolata e un berretto di pelo di gatto: sempre allegro, figliuolo d’un rivenditore di prodotti made in China, che era stato protagonista della guerriglia urbana, quando fu squalificato il campo di calcio per cori razzisti e vagamente filonazisti, nel quadrato del principe Umberto, e dicevano che fra gli ultras venisse considerato un leader incontrastato e godesse di stima incondizionata. C’era il piccolo Snelli, un poverogobbino, gracile e col viso smunto, che era riuscito a trar profitto dalla disgrazia, stazionando davanti alle ricevitorie del lotto e facendosi pagare un euro per una toccatina e due euro per una sfregata completa.C’era uno molto ben vestito, che per un capo firmato sarebbe stato disposto a qualsiasi nefandezza; adorava il Grande fratello e l’Isola dei famosi: il suo idolo eraGafone, un bellimbusto che scorreggiava a ritmo di samba e di limbo, riuscendoa intonare, quando l’alimentazione era particolarmente mirata (fagioli del Tanganica o messicani, ceci del Salento con peperoncino a folate, ecc.), come un basso della Scala l’aria di Sparafucile del Rigoletto. L’elegantone si chiamavaStirato. Nel banco davanti al mio c’era un ragazzo che chiamavano ilPapaverino, perché suo padre pare fosse stato condannato perché sul terrazzo coltivava, con molta nonchalance, il papavero dell’oppio e la cannabis; una faccia tonda come una mela con un naso a pallottola: egli aveva un’abilità particolare, sapeva far sparire monete e oggetti di valore che i compagni mettevano a disposizione per i suoi spettacolari giochi di prestigio, e tutti ridevano; la cosa divertiva meno i compagni quando i giochini funzionavano a metà: le monete sparivano, ma il prestigiatore non sempre riusciva a farle riapparire (si sa: ci vuole tempo e impegno per diventare bravi; ma quei discoli non avevano la pazienza di aspettare e lo pestavano finché le monete, come per incanto, non si rimaterializzavano); portava un piccolo cappello a cencio che tenevaappallottolato in tasca come un fazzoletto, dentro il quale nascondeva il frutto delle sue magie. Accanto alPapaverinoc’eraGaruffa, un coso lungo e magro col naso a becco di civetta e gli occhi molto piccoli, che trafficava sempre con panini, merendine e stupefacenti scherzi da portuale, che vendeva ai compagni durante la ricreazione; il giovane poteva vantare nel suo albero genealogico fior di campioni di biliardo. Si narrava che il fratello del padre fosse stato campione di goriziana della Valtellina e che si aggiudicasse regolarmente il campionato di quartiere delle Molinette utilizzando una stecca assolutamente illegale e truccata, preparatagli dal mago Magnetic di Gallarate. C’era poi un signorino, Carlo Pronobis, che sembrava molto superbo, perché si diceva fosse figlio… nipote di un cardinale, ed era in mezzo a due ragazzi che mi erano simpatici: il figliuolo d’un meccanico di Lambrate, aduso, con notevole guadagno, a rigenerare auto di grossa cilindrata e moto con oltre 200 CV, rivendute con grande facilità nel mercato mediorientale (i maligni ipotizzavano scarsa chiarezza sulle fonti di provenienza dei mezzi rigenerati, perché cambiavano il colore della carrozzeria e modificavano i numeri delle targhe), insaccato in una giacchetta che gli arrivava al ginocchio, nelle cui tasche inabissavatappini di pneumatici, fregi d’auto, e quanto poteva rapidamente essere smontato dalle auto in sosta e occultato, col solo scopo di dare un colpo di mano all’azienda familiare, per la gioia del padre che vedeva nel figlio il suo successore naturale che avrebbe mantenuta viva la tradizione; e uno coi capelli rossi, che ha un braccio morto, e lo porta appeso al collo, mentre col braccio vero ripuliva le tasche di chi gli stava vicino: suo padre era andato in America per conto di una multinazionale siciliana con interessi nel campo delle assicurazioni alle attività commerciali, perché, come ciascuno sapeva, potevano esplodere per i più diversi motivi e abbisognavano di una sorta di protezione, e sua madre andava attorno a vendere erba all’ingrosso a dei piccoli venditori ambulanti anche di colore, perché aveva una visione altamente interrazziale della società, e poi l’erba poteva servire a tutti. Era anche un tipo curioso il mio vicino di sinistra, Bastardi, piccolo e tozzo, senza collo, un grugnone che non parlava con nessuno,e pare che capisse poco, ma stava attento al maestro senza batter palpebra, con la fronte corrugata e coi denti stretti: e se lo interrogavano si faceva un vanto del fatto che mai aveva risposto ad alcuna domanda, tacendo sempre e dichiarando che una persona d’onore non parlava dei fatti propri con gli altri; lo zio, chiamato “u silenziusu” perché da giovane gli avevano tagliato la lingua dopo una vivace lite con dei signori di Palermo che sostenevano che chiacchierava troppo, apprezzava questo suo modo di essere riservato e gli aveva regalato per il compleanno una scacciacani che riproduceva fin nei più minuti particolari una beretta 92FS e un coltello a serramanico. E aveva daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiamava Affranti, che fu già espulso da un’altra scuola, noto nell’ambiente per la capacità straordinaria di far crescere il panico fra i compagni e gli adulti con i suoi scherzi un po’ pesantucci. Era noto lo scherzetto fatto all’insegnante di religione Rosario Fiorito, e che il personale tutto ricordava come un incubo: durante la giornata dedicata alle Ceneri aveva riempito un secchio di cemento a presa rapida e l’aveva sistemato sopra lo stipite della porta prima dell’ingresso dell’inconsapevole insegnante. Inutile descrivere le scene tragicomiche che si erano susseguite, vi basti sapere che per il taglio di quelli che prima erano capelli c’era voluta l’opera di uno scalpellino.
C’eranoanche due fratelli, vestiti eguali, che si somigliano a pennello, e portavano tutti e due un cappello alla calabrese, con una penna di fagiano, e, all’insaputa degli insegnanti, studiavano metà programma ciascuno e alle interrogazioni andava chi dei due conosceva meglio l’argomento, cambiando identità alla bisogna.
Ma il più bello di tutti, il più badano, quello che aveva più ingegno, che sarebbe statoil primo di sicuro anche nell’anno in corso, eraDebossi;e il maestro, chel’avevagià capito lo interrogava sempre perché sapeva che tra le tante cose stipate in quella testa ricciuta profonda era la sua competenzasulla storia dei Celti: conosceva per nome tutti i comandanti della Lega Lombarda presenti alla battaglia di Legnano. Io però volevo bene a Cilindri, il figliuolo del meccanico di Lambrate, quello delle automobili rigenerate, che fingeva continui malesseri per essere compatito e distrarre l’attenzione quando staccava i copriruota dalle auto in sosta.Dicono che suo padre lo batteva, ma lo faceva solo per il suo bene, perché si applicasse maggiormente nel lavoro e si dedicasse a qualcosa di più consistente dei tappi coprivalvola dei pneumatici e degli stemmi. Al padre sarebbe piaciuto vederlo alle prese con una portiera o un sistema d’allarme (i padri desiderano sempre il meglio per i propri figli). MaSgarroneera il migliore! Quando si andava nel laboratorio di chimica, tutto era possibile: si poteva assistere a un banale spettacolo pirotecnico o alla possibilità di sanzioni internazionali per l’utilizzo irresponsabile dell’energia atomica.
Un tratto generoso
Ottobre26, mercoledì
E si diede a conoscere appunto questa mattina, Sgarrone. Quando entrai nella scuola, – un poco tardi, ché m’avea fermato la maestra, quella che già lo scorso anno aveva chiesto a mio padre una spintarella per sistemare la figlia presso l’azienda sanitaria locale, per domandarmi a che ora poteva venir a casa a trovarci;il maestro non c’era ancora, e tre o quattro ragazzi tormentavano il poveroVurazzu u russu, quello coi capelli rossi, che ha un braccio morto, e sua madre vende erba. Lo stuzzicavano colle righe, gli buttavano in faccia delle scorze di castagne, e gli davan dello storpio e del mostro, contraffacendolo, col suo braccio al collo. La reazione fu terribile: estrasse, con una velocità insospettabile un coltello a serramanico e lo avvicinò alla gola di uno dei più grandicelli, e sorridendo lo apostrofò: «E allora, sacco di vento, non ridi più? Come vedi mi basta una mano sola per sistemare tipetti come te. Nel quartiere Cep tutti mi conoscono e sanno come regolarsi; solo un imbecille come te poteva pensare di offendermi e farla franca. E adesso smamma, pusillanime e insignificante nullità, vai a svernare con quelle sottospecie di molluschi dei tuoi amici.» A un tratto Affranti, quella brutta faccia, salì sur un banco, e facendo mostra di portar due cesti sulle braccia, scimmiottò la mamma di Vurazzu, quando veniva a aspettare il figliuolo alla porta. Molti si misero a ridere forte. U russu allungò la gamba sinistra e stese uno dei facinorosi colpendolo al basso ventre, poi, con mossa repentina, colpì Affranti allo sterno, facendolo rinculare violentemente e mandandolo a colpire nel petto il maestro che entrava. Tutti scapparono al posto, e fecero silenzio, impauriti.Percattivi percorse l’aula con uno sguardo feroce e penetrante, soffermandosi sui volti terrorizzati degli alunni. Il maestro, pallido, salì al tavolino, e con voce alterata domandò: «Chi è stato?» Nessuno rispose. Il maestro gridò un’altra volta, alzando ancora la voce: «Chi è?» Tutti guardarono Vurazzu, ma non ebbero il coraggio di parlare: sapevano, per averlo sperimentato, quanto era vendicativo quel piccoletto e, soprattutto, sapevano quanti amici aveva nella malavita cittadina, per via delle entrature della mamma venditrice d’erba. Sgarrone prese allora una decisione che forse gli avrebbe garantito un qualche guadagno futuro: salvare il rosso, in fondo, era una sorta di assicurazione per il futuro. Si alzò di scatto, e disse risolutamente: «Son io.»
Il maestro lo guardò, guardò gli scolari stupiti; poi disse con voce apparentemente tranquilla:«Non sei tu.» E dopo un momento: «Vuoi fare l’eroe? Bene, sarai accontentato, piccolo bugiardo sfrontato!Ora siedi; studierò per te una punizione esemplare che ti sconsiglierà in futuro di accollarti colpe non tue.» Si volse e percorse lentamente e con passi misurati lo spazio fra i banchi, scrutando uno per uno i piccoli alunni. «Non m’interessa sapere chi è il colpevole,» aggiunse Percattivi, «perché la punizione che subirà Sgarrone sarà tale da dissuadere tutti dall’imboccare la strada dell’eroismo. Come diceva il mio vecchio maestro Colpo Basso: colpirne uno per educarne trenta!» Senza frappor tempo in mezzo, con abilità manuale straordinaria, ricavò da due buste delle meravigliose orecchie d’asino che delicatamente pose sulla testa dello sbalordito Sgarrone e gli impose una salutare passeggiata nei severi corridoi della scuola: un bel tuffo nel passato, quel passato tanto esaltato nei suoi discorsi didattici e pedagogici. Le risate delle scolaresche decretarono il successo dell’operazione e il rientro di Sgarrone in classe fu salutato da un silenzio gelido e timoroso. E non era che l’inizio di tutta una serie di fantasiose e creative punizione che avrebbero costellato l’intero arco dell’anno scolastico. Qualcuno con ironia e amarezza avrebbe ribattezzato quell’anno come l’anno dell’espiazione.
La mia maestra di prima
Ottobre27, giovedì
La mia maestra mantenne la promessa, vennea casa, nel momento che stavo per uscire con mia madre, per portar biancheria a una donna povera. Era curioso come una donnetta dall’aspetto insignificante ma sontuosamente vestita, piccola e magra,vagamente démodé, potesse aver lasciato un sia pur piccolo ricordo nella mente dei suoi piccoli ex alunni. Era un anno che non l’avevamo più vista in casa nostra. Però che eleganza! Vestiva capi made in Italy, tutti rigorosamente firmati dai più grandi stilisti, sia pure di collezioni degli anni precedenti. Sul capo veleggiava un cappellino di straordinaria fattura, che ricordava la Coppa America di vela, forse firmato da Prada. Su un tailleur Coco Chanel di un riposante beige scivolava morbida l’ultima Vuitton in pelle di pantera nera, dichiarata ormai in via di estinzione da tutti gli ambientalisti e dai professionisti del circo. Zampettava su due trampoli Ferragamo da evoluzione acrobatica controfirmati dal mago Otelma. I fori che ospitavano i bulbi oculari, leggermente semiaperti, ondeggiano fumosi dietro due spesse lenti marchiate Cartier. La guardammo con perplessità, anche se eravamo abituati alle sue stranezze. È sempre quella, un poco più colorita che l’anno passato, con i capelli bianchi sepolti sotto un colore rosso vinaccia partorito nel laboratorio alchemicodell’Istituto di scienze improvvisate dalla coiffeuse Marie Antoinette la Parisienne, e tossiva sempre.Mia madre glielo disse:«Troppe sigarette, cara maestra!»
«Che ci vuole fare», rispose, col suo sorriso allegro e insieme malinconico, «purtroppo quando si diventa schiavi della nicotina è difficile la strada della liberazione dalla dipendenza. Ci ho provato varie volte, anche con il famoso orecchino dissuasore o con la sigaretta elettronica, senza grandi risultati. A dire il vero un risultato l’ho ottenuto: ho dato una bella botta al mio conto in banca.»«Diletta maestra,»soggiunse mia madre, «si affanna troppo coi suoi ragazzi.»
N’ero ben sicuro che sarebbe venuta, perché non si scordava mai dei suoi scolari, e, specialmente, dei genitori dai quali poteva ottenere qualche favore. Pochi sapevano il vero motivo di tante energie spese dietro a quei discolacci, e noi, allora piccole anime innocenti, minimamente potevamo sospettare che quel suo interessamento fosse legato a secondi fini, neanche troppo nascosti. Il do ut des del caro latinorum con lei aveva trovato la sintesi perfetta. Didascalico ricordarne alcuni episodi in qualche modo indicativi del disinteressato interesse della cara maestra per gli alunni, ma soprattutto per le disponibilità economiche dei loro genitori. Le sue preferenze andavano ai commercianti che, grazie alla loro attività, erano in grado di ringraziare quotidianamente. Il Natale era la ricorrenza tanto attesa da tutti i bambini e dalla maestra Lucia Idrovora (non ricordo più se quello fosse il suo vero cognome o una sorta di nomignolo attribuitole dalla comunità scolastica). Con gli auguri ci si scambiava qualche dono; anzi, per dire il vero, i regali erano i bambini, finanziati dai rispettivi genitori, a offrirli a quel fiore di educatrice. Mi ricordo, e fa ormai parte della memoria storica della scuola, di quando aveva preparato una lista capolavoro, accompagnata da alti lai sulle disgrazie che funestavano i suoi elettrodomestici: un televisore che l’aveva abbandonata proprio mentre seguiva il suo programma preferito: “Spremere i polli è un dovere!”; un frigo sbadigliante, incapace di contenere la quantità industriale di prodotti che i pizzicagnoli generosamente le omaggiavano in cambio di qualche dieci ai loro cari figlioli; un aspirapolvere ormai rantolante; un forno a fiamma alterna: il lunedì, il mercoledì e il venerdì cucinava solo lasagne, negli altri giorni ricordava una riffa paesana, non sempre ciò che s’infornava corrispondeva a ciò che finiva poi in tavola; e infine quella stramaledetta stufa che si rifiutava di scaldare a comando e funzionava solo in assenza di persone, sembra che soffrisse di timidezza congenita. Fu un Natale veramente indimenticabile!
Sistemato il suo parco macchine si pensava che la sua voracità si placasse. Purtroppo il suo motto era: meglio un regalo oggi e uno domani. Fu l’anno terribilis che riuscì a mettere in difficoltà anche il generosissimo pizzicagnolo,di lontane origini scozzesi, Genovese Mac Arraff.
La sua visita mi lasciò stupito: non aveva armi per ricattarmi e mi sfuggiva il senso della sua presenza.
Prima di accomiatarsi, si rivolse alla mamma con un sorriso sacerdotale: «Mi scusi se l’importuno per una piccola cosa che mi riguarda e che solo lei può risolvere. Ho una nipotina, figlia di uno dei miei fratelli, che ha presentato la domanda per essere assunta nella banca dove lavora suo marito. Ho saputo per caso che è stato recentemente nominato direttore. È una famiglia che ha tanto bisogno di aiuto: mio fratello è stato da poco licenziato e sua moglie si dedica alle pulizie del condominio per raggranellare qualche spicciolo. Sarebbe veramente un’opera buona e altamente meritoria.»
Mia madre promise il suo interessamento. Ne avrebbe parlato con il babbo al suo ritorno dall’ufficio. La giovane qualche settimana dopo venne assunta.
«Ebbene, Enrico, m’ha detto, andandosene, vuoi ancora bene alla tua maestra ora che risolvi i problemi difficili e fai le composizioni lunghe?»
Mi baciò, mi disse ancora in fondo alla scala: «Non mi scordare, sai, Enrico!»
«O mia buona maestra, mai, mai non ti scorderò. Anche quando sarò grande, mi ricorderò ancora di te!»
E, infatti, non l’ho dimenticata, soprattutto dopo aver scoperto che la mia cara maestrina aveva intrapreso una seconda e lucrosa attività, ovviamente in nero: procacciava posti di lavoro a pagamento, sfruttando le conoscenze accumulate in lunghi anni d’insegnamento, e si diceva fosse un tantino esosa. Ai nipoti, tra i quali non annoverava di certo la nipotina figlia del fratello disoccupato sistemata in banca da mio padre, lasciò, il giorno della sua dipartita, un patrimonio valutabile in decine di milioni di euro. Si racconta che fosse solita arrotondare il magro stipendio statale con il prestito a strozzo, con tassi da far impallidire Totò Riina.
In una soffitta
Ottobre28, venerdì
Ieri sera con mia madre e con mia sorella Silvia andammo a portar la biancheria alla donna povera raccomandata dal giornale: io portai il pacco, Silvia aveva il giornale, con le iniziali del nome e l’indirizzo.Salimmo fin sotto il tetto d’una casa alta, in un corridoio lungo, dov’erano molti usci.Mia madre picchiò all’ultimo: ci aperse una donna ancora giovane, bionda e macilenta, che subito mi parve d’aver già visto altre volte, con quel medesimo fazzoletto turchino che aveva in capo. «Siete voi quella del giornale, così e così?», domandò mia madre.
«Sì, signora, son io.»
«Ebbene, v’abbiamo portato un poco di biancheria.» E quella a ringraziare e a benedire, che non finiva più.Nell’angolo di una stanza la cui porta aperta mostrava un arredamento nascosto sotto ampi lenzuoli candidi, s’intravedeva una testa rossa china su dei libri e dei quaderni nei quali scriveva fitto, e pareva non aver sentito la presenza degli estranei con i quali sua madre s’intratteneva.Ebbi l’impressione di conoscere quella testa rossa: mi sembrava di riconoscere il mio compagno di classe Vurazzu u russsu. Cercai di defilarmi con un qualche disagio, pensando alla vergogna che avrebbe provato il mio compagno nel vedermi.
Eravamo capitati nella casa dell’erbivendola. La stanza che ci ospitava era quanto mai disadorna: pochi mobili che mostravano gli acciacchi degli anni, due sedie malamente impagliate, una delle quali fungeva da scrivania per Vurazzu, e, verso il fondo, assolutamente al buio, una porta che doveva sicuramente condurre nella zona notte. Mi vide, quel discolo, e mi corse incontro, salutandomi caramente. Mia madre mi diede una spinta perché corressi a abbracciarlo. Io l’abbracciai, egli s’alzò e mi prese per mano.
Mentre la mamma del mio compagno raccontava le sue vicissitudini e le sue difficoltà a tirar su il suo ragazzo con il marito in America per conto di una ditta siciliana, quella testa rossa mi prese per mano e mi condusse al di là della porta in fondo alla stanza. Rimasi sconcertato quando mi fece entrare in quello che era un armadio a muro, che nascondeva al suo interno, ben mimetizzata, una porta blindata che permetteva di accedere a un locale ampio e ben illuminato. Rimessomi dallo stupore, mi resi conto di trovarmi in un locale degno delle case dei divi di Hollywood: pavimenti di alabastro, pareti costellate di lapislazzuli, mobili con le maniglie in oro zecchino, un lampadario di pietre preziose miste, alle pareti, sparsi con molta nonchalance, quadri di Picasso, Van Gogh, Fontana, Matisse, Cezanne, Caravaggio e svariati altri; al centro di una delle pareti una bellissima imitazione della Gioconda di Leonardo. U russu notò il mio stupore e chiarì che si trattava dell’originale, perché quella del Louvre era solo una copia anche se straordinaria, perché fatta eseguire dal padrino del padre da un famoso pittore francese nel 1930. «Sono, per lo più, doni dei vari padrini a mio padre per ringraziarlo per l’efficienza dimostrata nel risolvere questioni delicate e spinose. Quelli di maggior valore non sono nostri, si trovano qui perché noi ne garantiamo la custodia. Nessuno immaginerebbe che questa casa apparentemente fatiscente nasconda simili tesori. Fingiamo povertà per allontanare ogni sospetto, e poi riusciamo anche a ricavare dell’utile dagli abiti usati che ci regalano, rivendendoli agli ambulanti del mercatino delle pulci. Ti vedo stupito e ti capisco; sicuramente ti starai chiedendo perché ti ho mostrato tutto questo, rischiando di essere denunciato alla polizia con la mia famiglia. Sappi che se tu dovessi spifferare tutto alle autorità correresti il rischio di non essere creduto. Chi può, sano di mente, pensare che una famiglia di disgraziati come la nostra possa avere in casa quadri di gran valore e la Gioconda autentica? Nella migliore delle ipotesi passeresti per un ragazzo con troppa fantasia. Ma la cosa che mi lascia assolutamente certo che non parlerai mi viene dalla convinzione che nessuno della tua famiglia potrebbe sopravvivere alla spiata. E poi te lo dico perché sei l’unico di quella classe di leghisti xenofobi che merita la mia stima e il mio rispetto. Sei uno che sa mantenere un segreto e magari, un domani, quando rileverò l’attività di mio padre, potrei aver bisogno di te. Voglio farti un regalo per sancire questo nostro sodalizio.» E mi regalò un anello con un diamante spudorato, che io mentendo, ma facilmente creduto per l’assurdo valore venale, dichiarai trattarsi di banale bigiotteria teatrale alla quale mi ero affezionato per motivi puramente scaramantici.
Uscimmo dalla porta armadio e raggiunsi la mamma con le gambe tremolanti per l’emozione e la preoccupazione.
Per fortuna Vurazzu u russu non ebbe mai bisogno di me, neanche quando divenne presidente del consiglio dei ministri.
La scuola
Ottobre28, venerdì
Sì, caro Enrico, lo studio ti è duro, come ti dice tua madre: non ti vedo ancora andare alla scuola con quell’animo risoluto e con quel viso ridente, ch’io vorrei. Tu fai ancora il restio. Ma senti: pensa un po’ che misera, spregevole cosa sarebbe la tua giornata se tu non andassi a scuola!Guardati intorno, studia la società, analizza i comportamenti dei tuoi simili, scandaglia i risvolti economici, controlla le emozioni, studia, studia, studia senza stancarti mai, non lasciarti superare dagli altri, anticipali sempre, non lasciarti condizionare dagli eventi, tira dritto per la tua strada. Tutti, tutti studiano ora, Enrico mio. Guarda quanta banalità negli operai che sognano il posto fisso e frequentano le centocinquanta ore solo nella speranza di poter ottenere una qualifica superiore: da ingranaggi umani della catena di montaggio a kapò di reparto. E le ragazze del popolo che cercano un’impossibile emancipazione sociale studiando come bestie da soma e finendo per fare le commesse nei supermercati?La tua strada è irta di pericoli per l’eccessiva concorrenza, per la propensione naturale dell’uomo a scendere a compromessi per ottenere vantaggi e prebende. Non ti lasciare mai condizionare e sappi che solo chi lo vuole più fortemente può raggiungere davvero l’obiettivo. Lo studio deve diventare lo strumento per conquistare una posizione economica di peso, e nulla si deve frapporre fra te e il successo. Studia, figlio mio, e lotta senza esclusione di colpi per tracciare il tuo futuro nella società. Pensa, la mattinaquando esci, che in quello stesso momento, nella tua stessa città, altritrentamila ragazzi vanno come te a chiudersi per cinque ore in una stanza per studiare.Pensa agli innumerevoli ragazzi che presso a poco a quell’ora vanno a scuola in tutti i paesi, vedili con l’immaginazione, che vanno, vanno, per i vicoli dei villaggi quieti, per le strade delle città rumorose, lungo le rive dei mari e dei laghi, dove sotto un sole ardente, dove tra le nebbie, in barca nei paesi intersecati da canali, a cavallo per le grandi pianure, in slitta sopra le nevi, per valli e per colline, a traverso a boschi e a torrenti, su per sentier solitari delle montagne, soli, a coppie, a gruppi, a lunghe file, tutti coi libri sotto il braccio, vestiti in mille modi, parlanti in mille lingue, dalle ultime scuole della Russia quasi perdute fra i ghiacci alle ultime scuole dell’Arabia ombreggiate dalle palme, milioni e milioni, tutti a imparare in cento forme diverse le medesime cose, immagina questo vastissimo formicolio di ragazzi di cento popoli, questo movimento immenso di cui fai parte, e pensa: “La concorrenza non mi fa paura! Saprò farmi strada fra le difficoltà e metterò in campo tutti i trucchi che la mia intelligenza saprà suggerirmi. Non rinculerò davanti ad alcun sotterfugio per puntare dritto alla meta; non mi farò intimorire dalla folla dei miei concorrenti e saprò sgambettarli in modo bieco e anonimo.”
Ti chiedo uno sforzo notevole, ma il risultato merita il tuo impegno. Sappi, inoltre, che il compito ti sarà facilitato dalla scrematura che il ministro dell’istruzione dell’attuale Maggioranza Unica attuerà con la nuova riforma scolastica che prevede ben tre diversi percorsi scolastici: il primo si basa sulla formazione professionale dopo la quinta classe elementare, destinato alle classi meno abbienti; il secondo consentirà alla classe media di ottenere titoli di studio tali da consentirgli di occupare posizioni intermedie nella scala sociale; il terzo livello, e ultimo, è riservato ai bimbi come te, figli delle classi dirigenti, che studieranno per occupare i posti di comando. Guarda fiducioso al futuro che sarà tuo per censo ed ereditarietà, Enrico mio.
Tuo padre
Il piccolo trafficantepadovano
Racconto mensile
Ottobre29, sabato
Non sarei stato un soldato codardo, no; ma sarei andatomolto più volentieri alla scuola, se il maestro ci avesse fatto ogni giorno un racconto come quello di quellamattina. Ogni mese, disse, ce ne avrebbe fatto uno, ce lo avrebbe scritto, e sarebbe sempre il racconto d’un attoesemplare, che ci avrebbe aiutato a capire gli uomini e la vita. Il “Piccolo trafficante padovano” s’intitolavaquello del 29 ottobre. Ecco il fatto.
I controlli si erano fatti sempre più asfissianti sia sulle navi sia negli aeroporti. Ramon, così era conosciuto nell’ambiente, doveva cambiare in continuazione sistema di trasporto per evitare finanzieri, cani da fiuto, agenti della Dea, UNODC, operatori della GuójiāJìndúWĕiyuánhuì (Fondazione Cinese per il Controllo dei Narcotici), Interpol,spie della concorrenza. Il mondo era spietato, si sapeva, e non pochi avrebbero fatto carte false per controllare il giro che il Piccolo padovano aveva ereditato dal padre, prematuramente scomparso dopo una cena nel casale di campagna di don Vito Cannamozza, in seguito a un banale diverbio sulla spartizione del territorio. Il mercato, pur florido e in espansione, aveva bisogno di nuovi territori da conquistare, di clienti in grado di assorbire l’aumento dell’offerta. Don Vito, visti inutili i tentativi di accordo, chiuse la questione e offrì al padre del piccolo padovano un caffè corretto. Forse la correzione era stata eccessiva, tant’è che l’uomo si accasciò rantolando. Il caso fu archiviato dalla questura come infarto del miocardio e il medico della famiglia, Ciccio Apoplettico Coppola, stilò un certificato di morte minuzioso che allontanava ogni dubbio dal trapasso naturale; sorte che toccò allo stesso medico della famiglia di lì a qualche mese, quando tentò di utilizzare lo stesso tipo di caffè con Don Vito. Purtroppo nessun altro medico poté redigere il certificato perché il corpo era scomparso senza lasciare tracce. Nello stesso periodo Don Vito stava costruendo un centro commerciale, solidamente ancorato a giganteschi pilastri di cemento armato.
Il Piccolo padovano, in quella torrida estate, aveva scelto di utilizzare per il trasporto della sua merce un piroscafo franceseche partì da Barcellona, città della Spagna, per Genova, e c’erano a bordo francesi, italiani, spagnuoli, svizzerie colombiani.Ramon stava in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. L’ambiente non era dei migliori, e del resto il commercio era sempre più una giungla dove l’unica legge che contavaera quella del denaro. Non che lui non guadagnasse, ma ancora portava i segni delle difficoltà immani che aveva dovuto affrontare. Quante privazioni, quanti scontri, prima col padre, poi con il padrino dal quale lo dividevano personali visioni sulla spartizione del mercato che tanto aveva angustiato la famiglia. Don Mimì Passamontagna, questo era il nome del padre del giovane padovano, quando aveva undici anni, secondo la tradizione della famiglia, lo aveva affidato, per una corretta e proficua formazione, a don Vito Cannamozza.Il giovane si affezionò al suo mentore in modo quasi ossessivo, fino al punto da diventarne un fedele epigono: si poteva dire che l’allievo aveva superato il maestro. Dopo la scomparsa brusca e imprevista di don Vito, il giovane si assunse la responsabilità della gestione delle cose di famiglia con senso pratico e piglio decisionale. Ci fu, è vero, un aumento quasi epidemico di precoci dipartite le cui cause sono ancora, a distanza di anni, in fase di studio. Psicanalisti junghiani, freudiani e reichiani ipotizzavano una forte pulsione di morte figliata da nevrosi legate alla crisi esistenziale per il forte inquinamento ambientale dovuto all’uso smodato di psicofarmaci mal tagliati, mentre esperti criminologi sostenevano con qualche ragione che troppo spesso i neodefunti frequentavano a cuor leggero luoghi come poligoni di tiro o zone utilizzate dalle forze armate per sperimentare diversi tipi di esplosivo come il C4. Se si sfida la sorte, può capitare d’incorrere in qualche disgrazia. Si favoleggiava di incidenti stradali al limite dell’impossibile: don Ninì Kalasnikov perì colpito da una raffica di pallettoni che viaggiava contromano sul viadotto Corvo 1 nei pressi di San Giuseppe Jato. Ma erano storie lontane.
Il nostro giovane, spinto da un grande senso del dovere, si applicava senza risparmiarsi nel cercare di ampliare i mercati. In questo meritorio tentativo stava cercando di piazzare una partita di farina sudamericana di primissima qualità. Trattava la vendita, su quella straordinaria nave che batteva bandiera delle Cayman, con i rappresentanti delle famiglie colombiane, spagnole, francesi, svizzere. I compratori pagarono in dollari e consegnarono a Ramon la cifra pattuita dopo estenuanti trattative nel salone della nave, che aveva un nome beneaugurate: Polvere di stelle. Ramon lo Sparviero, ad affare concluso, si ritirò nella sua suite sul ponte B, dopo aver sistemato una pulce sotto il divano del salone dove aveva lasciato i compratori. Entrato nella suite, si mise subito in ascolto per cogliere il senso delle conversazioni fra francesi, svizzeri, spagnoli e colombiani. Il gruppo bevve smodatamente e si lasciò andare a commenti al vetriolo sul giovane Ramon, e sulla sua strana scalata all’interno della famiglia. Uno dei colombiani ricordò agli altri che il giovane aveva le ore contate e non avrebbe potuto essere presente all’attracco al molo di Genova.Guardò la valigetta stracolma di dollari e pensò a come rispondere alle calunnie di quel gruppetto eterogeneo che si lasciava andare a disquisizioni poco condivisibile e a velati avvertimenti sul funzionamento delle navi e sulla loro sicurezza, con il rischio di cadere in mare durante il tragitto. Chiamò Ciccio Lupara e SantuzzoEternoriposo, e diede loro chiare disposizioni su come agire nei confronti dei voltagabbana. Riguardò la valigetta e considerò che sono una piccola fortuna per lui quei denari. E a questo egli pensò, racconsolato, quando suggerì ai due bravi figliocci di sistemare i complottisti e cospargerli, dopo il servizio, con una manciata di dollari, per dimostrare che i soldi non sono importanti se si cerca di danneggiare la famiglia.
Questo attaccamento quasi morboso alla famiglia sarebbe stato sempre citato come modello di rispetto degno di essere tramandato alle future generazioni.
Lo spazzacamino
1, novembre
Andai alla Sezione femminile, accanto alla nostra, per dare il racconto del ragazzo padovano alla maestra di Silvia, che lo voleva leggere. Settecento ragazze c’erano! Quando arrivai cominciavano a uscire, tutte allegre per le vacanze d’Ognissanti e dei morti; ed ecco una bella cosa che vidi. Di fronte alla porta della scuola, dall’altra parte della via, stava con un braccio appoggiato al muro e colla fronte contro il braccio, uno spazzacamino, molto piccolo, tutto nero in viso, col suo sacco e il suo raschiatoio. Restava tranquillo, in disparte, cercando di non dare nell’occhio. Guardandosi intorno con aria diffidente, si avvicinarono alcune fanciulle fra le più grandicelle. Dopo aver ruotato la testa per essere sicura di non essere vista, una giovane con i capelli a ciocche pendenti rossi e blu, rinforzati da extension carnascialeschi, si avvicinò al ragazzo e chiese in un sussurro: «Hai portato la roba?»
Il piccolo spazzacamino infilò la mano nella tasca e mostrò una bustina bianca, e sventolandola sotto il naso delle ragazze: «Solo trenta euro. Un prezzo da liquidazione. È pura e bianca come la neve, e vi trasporterà dolcemente fra le onde dei mari tropicali.»
Le bambine stettero a guardarlo, tutte serie. Intanto s’erano avvicinate altre ragazze grandi e piccole, povere e signorine, con le loro cartelle sotto il braccio, e una grande, che aveva una penna azzurra sul cappello, cavò di tasca due euro, e disse: «Io non ho che due euro: facciamo la colletta.»
«Anch’io ho due euro, disse un’altra vestita di rosso; ne troveremo ben trenta fra tutte.»
E allora cominciarono a chiamarsi: «Amalia!…Luigia!…Annina!..Un euro…Chi ha dei soldi? Qua i soldi!»Parecchie avevan dei soldi per comprarsi fiori o quaderni, e li portarono, alcune più piccole diedero dei centesimi; quella della penna azzurra raccoglieva tutto, e contava a voce alta: «Otto, dieci, quindici!» Ma ci voleva altro. Allora comparve una più grande di tutte, che pareva quasi una maestrina, e diede venti euro, e tutte a farle festa, pregustando la serata con la polvere bianca smerciata dallo spazzacamino. Ed era bello a vedere quel povero spazzacamino in mezzo a tutte quelle vestine di tanti colori, a tutto quel rigirìo di penne, di nastrini, di riccioli.
Tutt’a un tratto arrivò la portinaia gridando:«La polizia!»
Le ragazze scapparono da tutte le parti come uno stormo di passeri. E allora si vide il piccolo spazzacamino, solo in mezzo alla via, che si sfregava le mani piene di denari. Era stata una giornata splendida per il piccolo pusher, che aveva rifornito l’intera scuola femminile, avviando alla dipendenza un bel nugolo di giovani fanciulle. Il suo fornitore l’avrebbe premiato per la dedizione al lavoro e per gli splendidi risultati raggiunti.
Il giorno dei morti
2 novembre
Questo giorno è consacrato alla commemorazione dei morti. Sai, Enrico, aquali morti dovreste tutti dedicare un pensiero in questo giorno, voi altri ragazzi? A quelli che morirono per voi, per i ragazzi, per i bambini. Quanti ne morirono, e quanti ne muoiono di continuo!È difficile per voi che pensate alla morte con poca attenzione, soprattutto per la convinzione che muoiono solo gli altri, mentre a noi è dato il dono dell’eternità. Ma ti pregherei, Enrico, di soffermarti un attimo sulle figure di quei padri, spesso misconosciuti in questo mondo cinico e crudele, quei padri che hanno sacrificato la loro vita per consegnare agli eredi un patrimonio in grado di consentirgli una vita agiata per tante e tante generazioni a venire. Corre il mio pensiero a quegli imprenditori che per creare un’adeguata ricchezza ai familiari non hanno esitato ad assumere personale in nero, spesso privilegiando manodopera straniera, ospitata in capannoni abbandonati nelle zone industrialirisalenti agli anni ‘30/’40, frequentati assiduamente da pipistrelli e roditori vari. Le difficoltà di questi capitani d’industria coraggiosi nel fronteggiare l’assalto scorretto e repressivo della guardia di finanza alla ricerca di fondi neri, la lotta estenuante contro le forze sindacali che pretenderebbero giusti salari per i dipendenti, la pressione debilitante dell’opinione pubblica e delle forze sociali per una presunta più equa divisione dei profitti, le petulanti giaculatorie delle forze politiche democratiche e non, che pretendono di discutere gli investimenti, i noiosi interventi degli ambientalisti che si oppongono a uno sfruttamento totalizzante della natura sono solo alcuni piccoli esempi dello stress che accompagna chi vuole creare ricchezza per sé e per la propria famiglia.
Pensasti mai a quanti padri si logoraron la vita al lavoro in questo mondo di spregiudicati nemici del progresso e del giusto arricchimento, a quante madrilottarono strenuamente per mantenere il loro ruolo sociale e il loro diritto a esibire il frutto di una ricchezza tanto faticosamente cercata e ottenuta dai mariti. Queste madri, degne della grande Agrippina, mostravano i loro gioielli di Bulgari o Cartier nelle serate di gala per rendere orgogliosi i propri figli. Quante privazioni per il bene dei propri figli! E che dire di quei folli che vorrebbero dividere i sacrifici, quando è impossibile dividere i privilegi. Ricordati, figlio mio, che l’umanità è composta da persone cattive che non hanno rispetto per la genialità di chi riesce ad arricchirsi grazie alla sua furbizia e alle sue idee. Quante lotte, Enrico, per mantenere il proprio patrimonio lontano dalle altrui mire e quante vittime nel corso della storia fra i ricchi, causati da folle di questuanti miserabili, come durante la Rivoluzione francese che tante vittime fra i nobili ha causato. Pensa a tutti quei morti, in questo giorno, Enrico. Pensa ai tanti insegnanti che dalle cattedre hanno cercato di far capire al volgo e all’inclito quanto debba essere riconoscente ai padroni che magnanimamente gli concedono il diritto al lavoro e a uno stipendio, quasi sempre immeritato. Quei poveri insegnanti, riconoscenti ai governi, sempre dalla parte della proprietà perché formati da gente proveniente dal suo interno, insegnano l’ubbidienza al potere e il rifiuto dell’insensata follia della protesta per il solo piacere di essere utili, a volte fino al sacrificio estremo. Sono innumerevoli, Enrico, questi morti; ogni cimitero ne racchiude centinaia di queste sante creature. Pensa alle forze di polizia che, soprattutto nei paesi che maggiormente proteggono, e giustamente, le ricchezze dei singoli, subiscono l’assalto di turbe scontente e affamate, talvolta pagando, legittimamente, con percosse e mutilazioni. A queste forze dell’ordine deve andare il plauso delle società migliori, che si deve esprimere pubblicamente,come fra i romani che tributavano il trionfo ai loro eroi.
Pensa oggi a quei morti con gratitudine,perché se tu oggi puoi vivere senza preoccuparti del tuo futuro, è a loro che lo devi, a loro che vigilano sul tuo esagerato tenore di vita, e sarai più buono e più affettuoso con tutti quelli che ti voglion bene e che fatican per te.
Tua madre
Il mio amico Sgarrone
Novembre 4, venerdì
Non furon che due giorni di vacanza e mi parve di star tanto tempo senza rivedere Sgarrone. Quanto più lo conoscevo, tanto più gli volevo bene, e così seguì a tutti gli altri, fuorché ai prepotenti, che con lui non se la dicevano, perché egli non lasciava far prepotenze.Si può dire che fosse una sorta di padrino al quale tutti si rivolgevano per vedere riparare un torto subito. Ogni volta che uno grande alzava la mano su di uno piccolo, il piccolo gridava: “Sgarrone!”e il grande non picchiava più. Certo poi ciascuno si doveva sdebitare per queste sue gentilezze, chi con offerte di denaro, chi con regali, chi con favori. Suo padre era macchinista della strada ferrata, trasferito a Torino dalla lontana Casal di Principe, dove aveva lasciato numerosissimi parenti che sempre gli scrivevano e gli chiedevano notizie del figliuolo; egli cominciò tardi le scuole perché fu malato due anni. Era il più alto e il più forte della classe, alzava un banco con una mano, mangiava sempre, era buono. Qualunque cosa gli domandassero, matita, gomma, carta, temperino, imprestava o dava tutto, anche perché, come diceva lui, tutto aveva un prezzo;e non parlava e non rideva in iscuola: perché una persona di rispetto non doveva mai essere sguaiata e doveva soprattutto saper ascoltare. Aveva un modo di vestire un po’ demodégrande e grosso com’era, che aveva giacchetta, calzoni, maniche, tutto troppo stretto e troppo corto, un cappello che non gli stava in capo, il capo rapato, le scarpe grosse, e una cravatta sempre attorcigliata come una corda, che spesso utilizzava come un ninja.CaroSgarrone, bastava guardarlo in viso una volta per prendergli affetto. Possedeva un coltello a serramanico del grande maestro pattadese Antonio Fogarizzu, dono di un suo lontano zio di Orgosolo nella ricorrenza della sua prima comunione, col manico di muflone con le sue iniziali incise nella lama. Qualunque cosa si lasciava dire per celia e mai non se n’aveva per male; ma guai se gli dicevano: “Non è vero”, quando affermava una cosa: gettavafuoco dagli occhi allora, e martellavapugni da spaccare il banco.Sabato mattina diede un soldo a uno della prima superiore, che piangeva in mezzo alla strada, perché gli avevan preso il suo, e non poteva più comprare il quaderno.Gli bastò una semplice descrizione per individuare il colpevole che venne rimproverato vibratamente da Sgarroneche gli fece pagare dieci volte il maltolto. Passava il tempo a scrivere piccoli messaggi in pezzetti di carta dove annotava ciò che voleva venisse fatto in iscuola. Il maestro lo guardava sempre, e ogni volta che gli passava accanto gli batteva la mano sul collo, guardandosi bene dal rimproverarlo per questa sua estemporanea attività di scrivano.Sono così certo che rischierebbe la vita per salvare un amico fedele, che si farebbe anche ammazzare per difenderlo. Era rispettato da tutti: dai compagni per la sua capacità di fare offerte che non si potevano rifiutare, dagli adulti per le sue particolari e convincenti parentele.
Il macellaio e il signore
Novembre 7, lunedì
Non l’avrebbe mai dettaSgarrone, sicuramente, quella parola che disse Carlo Pronobis a Peti. Carlo Pronobis erasuperbo perché suo padre eraun politico potente, facente parte dell’entourage del Megapresidente Bonsai I: era un gran signore,alto, con la barba nera, molto serio, che accompagnava quasi ogni giorno il figliuolo. Pronobissi bisticciò con Peti, uno dei più piccoli, figliuolo d’unmacellaio, e non sapendo più che rispondergli, perché aveva torto, gli disse forte: «Tuo padre è un volgare scortichino da mattatoio»
Peti arrossì fino ai capelli, e non disse nulla, ma gli vennero le lacrime agli occhi, e tornato a casa ripeté la parola a suo padre; ed ecco ilmacellaio, un omone rubizzo, che si recava a scuola col ragazzo per mano, a fare le lagnanze al maestro.Il padre di Pronobis incrociò il signor Peti davanti alla porta dell’aula e lo scambio di sguardi sembrò il preludio a qualcosa di molto importante. «Mi scusi, signore», disse Crocifisso Pronobis, «ma credo di capire che suo figlio in qualche modo si ritenga offeso dal mio figliuolo, anche se la cosa mi sembra un tantino esagerata. Noi facciamo parte dell’élite sociale e ritengo che nessuno ci possa accusare di alcunché.» Il maestro con non poco sussiego, tenendo conto dell’alta figura politica e religiosa dell’uomo, parlamentare, anche se chiacchierato, e grande cerimoniere di sua Santità Vatican Director XXXIII, cercò di spiegare cosa era avvenuto e come il giovane Carlo avesse offeso il giovane Peti. Il signor Pronobis stava per rispondere con la solita alterigia, quando il macellaio, guardandolo dritto negli occhi, gli sibilò, senza farsi sentire dall’insegnante: «Onorevole, non mi riconosce? Sono l’uomo di fiducia del Gran Maestro Tartuffon de Magnon della loggia CA (Commercianti Arraffoni: n. d. r.), quello che le ha pagato il mutuo della sua casa in cambio di qualche leggina tesa a ridurre la tassazione dal 30 al 5 per cento per una parte limitata dei contribuenti della quale io facevo parte, per rilanciare e corroborare il commercio delle carni importate dai paesi in via di sviluppo e venduta come Made in Italy, purché l’involucro venisse prodotto in Italia.»Pronobis ammutolì.
Il maestro avvertì che qualcosa di strano stava succedendo tra i due ma non voleva in alcun modo intromettersi, secondo una legge che da sempre l’aveva guidato con successo: mai turbare il corso degli eventi con inutili osservazioni, soprattutto quando sono coinvolti i potenti. Dopo qualche attimo di turbamento, l’onorevole si riprese e farfugliò un «Mi scusi, non l’avevo riconosciuta!»
Il macellaio sorrise compiaciuto della evidente difficoltà dell’onorevole, e bonariamente e ad alta voce aggiunse: «Nessun problema, è sufficiente che suo figlio si scusi con il mio e l’incidente è chiuso.»
Allora il padre prese per un braccioil giovane Pronobise lo spinse più avanti in faccia a Peti, che quasi si toccavano, e gli disse: «Domandagli scusa!»
Carlo, stupito perché era la prima volta che il padre gli imponeva di chiedere scusa a qualcuno, rimase di stucco.
Il maestrovolle interporsi, dicendo: «No, no.»
Ma il signore non gli badò, e ripetéal figliuolo: «Domandagli scusa. Ripeti le mie parole. Io ti domando scusa della parola ingiuriosa, insensata, ignobile che dissi contro tuo padre, al quale il mio si tiene onorato di stringere la mano.»
Il macellaiofece un gesto di grande magnanimità, proprio dei potenti, come a dire: non voglio. Il signore non gli diè retta, e il suo figliuolo disse lentamente, con un fil di voce, senza alzar gli occhi da terra: «Io ti domando scusa… della parola ingiuriosa… insensata… ignobile, che dissi contro tuo padre, al quale il mio… si tiene onorato di stringer la mano.»
Alloral’onorevole porse la mano al macellaio, il quale gliela strinse con forza, e poi subito con una spinta gettò il suo ragazzo fra le braccia di Carlo Pronobis. «Mi faccia il favore di metterli vicini»,disse l’onorevole.
Il maestro mise Peti nel banco diPronobis. Quando furono al posto, il padre diPronobisfece un salutoal maestro e un inchino deferente al macellaio, ed uscì. Il macellaiorimase qualche momento soprapensiero, guardando i due ragazzi vicini; poi s’avvicinò al banco, fissò Pronobis con espressione gelida e arrogante e gli disse, sibilando: «In futuro evita di offendere chi non conosci perché c’è sempre la possibilità che si tratti di qualcuno più potente di tuo padre!»Poi s’avviò all’uscio, e voltatosi ancora una volta a guardarlo, sparì.
«Ricordatevi bene di quel che avete visto, ragazzi», disse il maestro, «questa è la più bella lezione dell’anno. Nessuno sa chi può essere il nostro interlocutore. Per evitare guai, volate basso, siate ben sicuri di potervi permettere ogni forma di alterigia per non andare a sbattere su un muro più robusto di voi.»
La maestra di mio fratello
Novembre 10, giovedì
Il figliuolo del macellaiofu scolaro della maestra Delicati che è venuta a trovar mio fratello malaticcio, e ci ha fatto ridere a raccontarci che la mamma di quel ragazzo, due anni fa, le portò a casa un gran pacco di carne, per ringraziarla, che aveva dato la medaglia al figliuolo; e s’ostinava, povera donna, non voleva riportarsi lacarne a casa. Per cortesia, ma solo per cortesia, la maestra fu costretta ad accettare il dono. Del resto tutti sanno che qualche anno prima una mamma le aveva regalato un gran mazzo di fiori, che solo più tardi si era resa conto che fra le rose e le viole c’era una busta con su scritto grazie e all’interno una discreta somma di denaro. Nell’ascoltare la maestra c’eravamo molto divertiti, e così mio fratello trangugiò la medicina, che prima non voleva. Quanta pazienza debbono avere con quei ragazzi della prima inferiore.
Certo le famiglie, almeno quelle più abbienti, sapevano ben ricompensare le fatiche dei maestri, ma a volte questi erano troppo esigenti, arrivando a stilare un preciso e circostanziato listino regali strettamente connessi con le manchevolezze di ciascun pargoletto. Era una fatica immane combattere con uno sciame disordinato e poco educato di frugoli particolarmente turbolenti: “Mi scappa la pipì” era il minimo sindacale di partecipazione alla vita scolastica; e a poco era servita la gita dimostrativa nei corridoi del caseggiato scolastico per rendere edotti i nuovi adepti sull’utilizzo dei servizi e sulla loro dislocazione: vagavano persi nei corridoi finché qualche insegnante di passaggio, intenerito da quel correre claudicante con la mano poggiata sul basso ventre, non indirizzava l’ossesso nella giusta direzione. Talvolta, perché, come ben si sa, tutte le ciambelle non vengono col buco, dopo alcuni insistenti e irrefrenabili ‘mi scappa, mi scappa’, si vedeva il viso del bimbo distendersi placato e lo si sentiva mormorare: «Grazie, non serve più!», e un rivolo impetuoso segnava il suo incedere. Allora, solo allora, si materializzava la figura di Posapiano che con le mani sulla testa commentava sconsolato: «E adesso? Adesso chi pulisce?» Si voltava disperato e speranzoso alla ricerca di qualcuno che svolgesse per lui quella mansione per la quale lo Stato lo pagava così poco. Il più delle volte riusciva nell’impresa di scaricare l’incombenza sulla povera signora Maria, ormai vicina alla pensione e recordman cittadina di acciacchi fantastici e bizzarri, o sulle insegnanti utilizzando una straordinaria tecnica dilatoria che portava le poverette allo sfinimento e alla resa: «Va bene, lasci perdere, lo faccio io. Mi dica almeno dove posso trovare il bastone, il secchio e lo strofinaccio!» E li emergeva la grande gentilezza di Posapiano che solerte forniva gli strumenti atti alla bisogna e si dileguava rapidamente. Era diventata ormai legenda metropolitana l’ipotesi sui luoghi dove il bidello poteva cercare rifugio. Alcuni sostenevano che fosse un iscritto alla loggia massonica P17Plus e che le sue sparizioni non fossero altro che esercitazioni per difendere il suolo patrio, altri giuravano di averlo visto gestire un banco di frutta e verdura nella piazza utilizzata per il mercatino rionale, altri ancora affermavano con certezza che praticasse l’agopuntura nella bottega di un tatuatore tailandese. La verità rimase per lungo tempo uno dei segreti meglio custoditi della storia della scuola.
La pipì era solo uno dei problemi che una classe prima rovesciava sui poveri maestri: diversi e impellenti, a detta dei dolci bimbi, erano i casi di mobbing a cui tutti erano soggetti da parte di tutti. Per esempio, Maria riteneva che Francesco la guardasse con occhio malefico e la facesse inciampare con le sue imprecazioni imparate da uno zio camallo nel porto di Genova e da una zia fattucchiera abruzzese; Francesco si lamentava del fatto che Maria riempiva le tasche del suo cappotto con dell’erba viscida e urticante. «Serve per annullare l’effetto delle magie che gli ha insegnato la zia», rispondeva piccata la piccola e dolce Maria.
Era il suono del gong, era l’inizio delle ostilità: tutti si lamentavano di tutti e imbastivano le storie più vessatorie che bambino avesse mai elucubrato. Antonio era riuscito ad accusare Deborah (tassativamente con la h) di aver praticato un foro nel suo zaino per trafugargli il NintendoDS che lui, ma questo per il bambino era un particolare irrilevante, non aveva mai posseduto. E Deborah incolpava del furto del NintendoDS inesistente Samantha (chi di h colpisce, di h perisce).
E così scivolava via la prima ora di lezione, con l’insegnante impegnata a riportare la calma là dove non c’era mai stata: è risaputo che i maestri sperano sempre nel miracolo pedagogico/didattico, in quel famoso interruttore che si accende prima o poi senza una vera e propria spiegazione, anche se in quella classe sembrava che gli impianti cerebrali degli alunni fossero gestiti da un elettricista impazzito. E la ricreazione? Dio, la ricreazione! Quella campanella era figlia di qualche torturatore medioevale. Squillava, squillava e lo sguardo di quelle birbe s’illuminava e preannunciava niente di buono.Loro malgrado i maestri dovevano interrompere le lezioni e consentire una pausa per misurare la quale il concetto di relatività einsteiniano era l’unico metodo per stabilirne la durata: interminabile per il corpo docente, troppo breve per la chiassosa ciurmaglia. Gli zaini sputavano inverosimili e variegati spuntini che si riversavano sui banchi in modo disordinato su tovagliette variopinte: panini ridotti a sandwich, merendine sbriciolate che anticipavano la neve natalizia nel disperdersi per l’aere, bottigliette d’acqua che spesso disperdevano il prezioso liquido negli zaini coinvolgendo quaderni e libri, patatine ai mille gusti, biscotti cosparsi di creme al cioccolato che tentavano improbabili composizioni astratte sui grembiuli dei compagni, cracker al sale, all’origano, al mirtillo, allo zabaione (invenzione delle nonne per tenere su quei 50 chilogrammi in un metro e venti di creaturina debilitata), e un caleidoscopio di bibite gassate che stimolavano i desideri repressi dei piccoli Grisou (il draghetto che sogna di fare il pompiere e regolarmente distrugge col fuoco ciò che deve salvare). Questo solo per limitarci alla quotidianità! Si ricordava ancora, e veniva tramandato di padre in figlio, il caso del piccolo Antoneddu Nieddu, di chiare origini altoatesine, che sulla tovaglietta in cotone tessuta dalla nonna di Mamoiada aveva disposto mezzo porcetto arrosto residuo del matrimonio della cugina Forica, e al banchetto scolastico inevitabile aveva partecipato il bidello Posapiano e il dirigente La Baracca, che per la bisogna aveva sturato una bottiglia di cannonau tenuta in serbo per le occasioni.
Ma la cosa peggiore era la processione delle mamme che di buonora facevano la fila dai maestri per lamentarsi di torti subiti dai loro angioletti, come quando la signora Perfetti rese edotta la maestra di prima del fatto che: “Francesco ha spintonato mia figlia e l’ha fatta cadere: per fortuna non si è fatta niente, altrimenti… Ma lei dov’era?”
“Ero lì che cercavo di calmare Francesco che urlava per il dolore provocatogli dalla punta del compasso che la sua cara figliuola gli aveva piantato nella mano e che il povero bambino aveva spintonato per impedirle di completare l’opera con un secondo fendente.”, rintuzzò feroce la maestra.
La donna, impreparata alla verità, farfugliò qualche scusa difensiva e cercò di riportarsi in vantaggio: “Sicuramente sarà stata provocata! Mia figlia non fa queste cose.”
“Ma questa volta l’ha fatto, e non è la prima volta. Dobbiamo accettare il fatto che i bambini sono tutti uguali e commettono marachelle perché è nella loro natura. I genitori dovrebbero dare meno credito alle bugie dei bambini e collaborare con gli insegnanti con spirito costruttivo e collaborativo.”
“Ha ragione, maestra, ha ragione. La saluto e la ringrazio per la sua professionalità.”; e nel congedarsi: “Ma sicuramente la mia piccola Brittany è stata provocata!”.
E poi i giochi! Dalle tasche e dagli zaini sbucava l’interaproduzione della Giochi Preziosi: bambole semoventi e deboli di vescica, videogiochi spaziali con la quinta di Beethoven a 5000 decibel di sottofondo, pistole lancia razzi, freccette con relativo bersaglio, fionde, trenini con stazione di sosta, autopompe dei vigili del fuoco con acqua a getto e sirena sfondatimpani, transformer dagli imprevedibili sviluppi. La maestra doveva far la mamma con loro, aiutarli a vestirsi, fasciare le dita punte, raccattare i berretti che cascavano, badare che non si scambiassero i cappotti, se no poi gnaulavano e strillavano. Povere maestre!Dopo la ricreazione, che era cadenzata da straordinarie ugole al tungsteno wolframio, i 100 decibel successivi sembravano la pace di una giornata serena in aperta campagna. Lentamente la classe riprendeva il suo ritmo di apprendimento e qua e là si levavano, lievi come un’onda di tsunami, le proteste più diverse: “Maestra, non trovo più la gomma!”; “Maestra, Maria ha la mia matita!”; “Maestra, qualcuno ha nascosto il mio quaderno sottoil banco prima della ricreazione!”. L’insegnante dipanava lentamente le controversie e recuperava il materiale scolastico che si ostinava a cambiare proprietario. E volava nella bisogna una mezz’ora! Finalmente tutto si risistemava e il lavoro scolastico poteva procedere fino al termine delle lezioni.
La mano puntuale di Posapiano, degna di un lancio dello shuttle a Cape Kennedy, annunciava la fine della giornata scolastica e riempieva i corridoi e le aule con un liberatorio scampanellio. Nonostante il severo atteggiamento degli insegnanti, i bimbi si precipitavano verso gli attaccapanni dove erano riposti giubbotti, sciarpe, cuffie cappellini, guanti e organizzavano una vera e propria caccia al tesoro; alla fine della caccia ben pochi indossano i propri capi di abbigliamento. I primi mesi dell’anno scolastico erano i più difficili da gestire e le iperfirmate mise dei bimbi offrivano allo sguardo infinite combinazioni. Ai primi freddi, quando il vento di tramontana soffiava gelido, i bimbi, nella fretta di raggiungere l’agognata libertà e di ricongiungersi con gli amati genitori, infilavano il primo capo di vestiario che si trovavano davanti purché ricordasse vagamente nel colore i propri. Si vide quel settedi novembre Mario, immagine e testimonial dei grassi e dei lipidi elevati a nutrimento, taglia XXXL, tentare di violentare il giubbino di Francesco che recitava al suo interno “da 20 a 25 chili”; nell’occorrenza era aiutato da due compagnetti che utilizzavano i righelli come calzascarpe per consentirgli d’infilare le braccia che proprio non ne volevano sapere d’infilarsi in quegli stretti cunicoli chiamati maniche. Francesco dal canto suo aveva fatto proprio il giubbino di Mario scomparendo letteralmente alla vista dei compagni. Maria osservava quel giubbotto camminare da solo e come colta da improvvisa illuminazione corse verso la maestra urlando: «Maestra, maestra, il giubbotto ha ingoiato Francesco!» Tutti si girarono seguendo il dito puntato della bambina e sentirono la voce di Francesco emergere dalla pelliccia del colletto: «Maestra, che cosa è successo al mio giubbino?» La maestra, sorridente e bonaria, si avvicinò al piccolo, ma proprio piccolo, e gli sfilò l’indumento, poi raggiunse Mario e l’aiutò a uscire da quello strumento di tortura che i compagni con grande volontà e dedizione erano riusciti parzialmente a infilargli, preparandolo per una circolazione extracorporea.
Dopo qualche altra scaramuccia tutto si sistemò, e tra uno sgambetto e qualche pizzico si raggiunse la porta d’ingresso; e la ciurma poté finalmente ricongiungersi all’amata parentela.
I maestri distrutti si guardarono in viso: erafinita una giornata infinita.
Mia madre
Novembre 10, giovedì
“In presenza della maestra di tuo fratello tu mancasti di rispetto a tua madre! Che questo non avvenga mai più, Enrico, mai più!È da allora che soffro per la tua irriconoscenza e per la tua malvagità. Tua madre che, quando da piccolo stesti male, rinunciò (e solo Iddio sa quanto le costò) a una serata con le amiche in pizzeria e alla puntata decisiva del Grande Fratello, fondamentale perché si discuteva e si votava l’esclusione di Cafone o di Zotico. Tu non puoi capire, Enrico, quanto sacrificio questo le è costato.La tua parola irriverente m’è entrata nel cuore come una punta d’acciaio.E che dire di quando, povera donna, ha dovuto rinunciare a una seduta presso l’estetista prenotata una settimana prima perché tu, senza curarti delle difficoltà che creavi, ti eri beccato la varicella. Ricordati, ingrato, la sua abnegazione nel partecipare alle serate di gala, anche quando non ne aveva alcuna voglia; solo per te si sacrificava, per cercare e intrecciare amicizie potenti che potessero nel futuro, per mezzo d’intrallazzi e corruttele varie, garantire al suo pargolo un futuro sereno e ben remunerato.
Tu, offender tua madre! Tua madre che rinuncerebbe a un pomeriggio di shopping perrisparmiartiun’oradidolore.Senti, Enrico, fissati bene in mente questo pensiero.Immagina pure che ti siano destinati nella vita molti giorni terribili; il più terribile di tutti sarà il giorno in cui perderai tua madre e dovrai litigare con tua sorella e tuo fratello per la divisione dell’eredità, senza più i saggi consigli materni. Mille volte, Enrico, quando già sarai uomo, forte, provato a tutte le lotte, tu la invocherai, oppresso da un desiderio immenso di risentire un momento la sua voce e poterle comunicare tutta la tua rabbia per non aver diviso l’eredità quando ancora poteva farlo, evitandoti tutti i contenziosi giudiziari che i tuoi parenti metteranno in piedi per impedirti di accaparrarti tutto il patrimonio, lasciando agli altri solo le briciole e giustificandoti col fatto che la mamma aveva promesso a te l’intera eredità. La famiglia, figlio mio, è un luogo sicuro se sai tutelare i tuoi interessi e non ti lasci travolgere dai sentimenti. Ricordati che tua madre ha sempre pensato che una vita vale se è ricca di soddisfazioni e di denaro; per realizzare entrambe le aspettative è necessario essere sempre presenti nei luoghi ove si puote, dimenticando spesso quell’orpello inutile che taluni chiamano coscienza.
Non sperar serenità nella tua vita, se avrai contristato tua madre.
O Enrico, bada: questo è il più sacro degli affetti umani, disgraziato chi lo calpesta.
Che non t’esca mai più dalla bocca una dura parola per colei che ti diede la vita. Il suo sacrificio merita il tuo rispetto e la tua riconoscenza. Ringrazia la mamma per i suoi sacrifici che ti permetteranno di vivere sereno in un futuro di agi e di piacevolezze. Io t’amo, figliuol mio, tu sei la speranza più cara della mia vita; ma vorrei piuttosto vederti morto che vittima dell’altrui cupidigia e furbizia; devi cercare di stare sempre avanti a tutti. Va’, e per un po’ di tempo non portarmi più la tua carezza se prima non avrai dimostrato di avere capito quale dev’essere il tuo rapporto con tua madre e con gli altri, da cui dovrai cercare di ottenere il massimo. E questo sarebbe un modo onesto per ripagare i suoi sacrifici.
Tuo padre
Il mio compagno Scorretti
Novembre 13, domenica
Mio padre mi perdonò; ma io rimasi un poco triste, e allora mia madre mimandò col figliuolo grande del portinaio a fare una passeggiata sul corso. A metà circa del corso, passando vicino a una grande RollaRocce, davanti alla gioielleria di Cartier, mi sentii chiamare per nome, mi voltai: eraScorretti, il mio compagno di scuola, con la sua impeccabile mise di alta sartoria e le sue fiammanti Tod’s ai piedi.Portava con sé uno scatolone con su stampigliati i simboli della Strawberry e se lo coccolava felice,riuscendo a comunicare questa sua sensazione di benessere a chiunque l’osservasse. L’autista voleva liberarlo dal peso, ma lui, sudato e allegro, rifiutò recisamente l’aiuto e strinse più forte il pacco.
«Che fai, Scorretti?», gli domandai.
«Non vedi?»rispose, mostrandomi lo scatolone.«Ho acquistato l’ultimo computer della Strawberry con installato un software in grado di risolvere qualunque problema o eseguire ogni tipo di analisi grammaticale o logica. È il massimo nel campo dell’informatica per lo studente che non ha tempo da perdere con i compiti: lui lavora per me e io posso dedicarmi all’equitazione, al nuoto e a qualsiasi altro trastullo.»
Io risi. Ma egli parlava sul serio. Aprì la confezione e mi mostrò quella mirabilia tecnologica: solo nei film di fantascienza avevo visto un oggetto tanto avveniristico. Gli mancava, come si dice, solo la parola.
«Ora ti do un saggio delle sue potenzialità.»
Aprì il pacco, poggiò il computer sul sedile posteriore della Rolls e accese quellosplendore dell’ingegno umano. Lo schermo SuperLcd s’illuminò in un fantasmagorico sfavillio di colori. Pochi nanosecondi per completare il caricamento del sistema operativo e una legione di programmi educational, letteralmente frullati da una memoria ram da 50 gigabyte e stipati in un hard disk da 100 terabyte raffreddato con elio liquidoa 5,3 kelvin. Il tempo di staccare il dito indice dall’accensione e una voce femminile calda e suadente salutò: «Sono a tua completa disposizione. I miei circuiti fremono nell’attesa di esserti utile; risolvo problemi, eseguo equazione fino al ventesimo grado, testi, riassunti e analisi logiche e grammaticali, sono in grado di trasferire dati oltre la velocità della luce perché lavoro conqubit (quantum bit) che rappresentano uno e zero simultaneamente. Nulla, nel campo dell’apprendimento, mi è precluso. Ho in memoria tutte le enciclopedie del mondo in lingua originale, dalla Encyclopédie di Diderot e D’Alembert fino alla Encyclopedia Britannica; ovviamente tutte nella versione estesa. Ho la soluzione ditutti i segreti che angustiano l’umanità, da Stonehenge a Roswell; conosco il vero segreto di Fatimae sono in grado di prevedere il futuro con la mia ram ai taroccattivi subliminali. Chiedi, padrone, e sarò ben felice di accontentarti.»
«Sentito? Che bisogno ho di perdere tempo per i compiti se c’è qualcuno che li fa per me, e senza commettere errori? Se ti fa piacere puoi utilizzare questa meraviglia di computer per eseguire i compiti a casa.»
Ero strabiliato dal potenziale di quella Fragola e quasi quasi… Alla fine rifiutai la sua offerta, e per questioni di onestà e per questioni meramente casalinghe (se scoperto, il mio dolce papino mi avrebbe gonfiato come una zampogna).
«Del resto», continuò Scorretti, «non posso contare sull’aiuto di alcun familiare. Mia madre spende il suo tempo fra un vernissage e una sfilata di moda. È presidentessa di svariate organizzazioni benefiche che utilizzano i fondi raccolti fino all’ultimo centesimo.Al ultimo raduno delle “Cugine dell’amore”, come si sono autodefinite, la cena di ringraziamento è costata quasi l’intera raccolta di fondi di un anno a favore delle persone affette da calli incazzati e virulenti, e con gli spiccioli residui si sono potute acquistare le medaglie d’oro con coroncina di diamanti angolani (Ovviamente per fare del bene a quel popolo affamato. E poco importava se i proventi delle miniere andavano ai pescecani della finanza mondiale.) per premiare l’impegno di tutti i membri del direttivo. Alla sera, quando rientra, in genere dopo la mezzanotte, c’inonda con il racconto della sua faticosissima giornata. Raramente riesco a scamparla, e se fingo di dormire aumenta il volume del suo vocione gracchiante finché non apro gli occhi e mi dispongo ad ascoltarla. Mio padre è più furbo di me: inserisce nelle orecchie due tappi con radio incorporata e gesticola seguendo il movimento delle sue labbra, annuendo di tanto in tanto in modo asettico.
Mio padre, industriale leader del mondo degli idrocarburi, ha pochissimo tempo da dedicare a noi perché vola da un consiglio di amministrazione all’altro senza sosta, e raramente, solo raramente, si dedica al rito della cena con la famiglia. Mi devo insomma arrangiare in mancanza di sostegno parentale, utilizzando nel modo più proficuo (per esempio pagando altri perché facciano i compiti al posto mio) il lauto mensile che mi passano per tacitare la loro coscienza e il mio ipotetico bisogno dei genitori.»
“Felice te!”, egli mi disse, “Perché hai vicini i tuoi cari”. “Ah no, Scorretti, no: sei tu il più felice, tu perché riesci a non studiare e ottenere ugualmente buoni risultati scolastici, un po’ perché altri eseguono i compiti per te, un po’ perché sai far valere il peso politico ed economico dei tuoi genitori.”
Il Direttore
Novembre 18, venerdì
Scorretti è contento questa mattina perché è venuto ad assistere al lavoro d’esame mensile il suo maestro di seconda, Ercoatto, un omone con una grande capigliatura crespa, una gran barba nera, due grandi occhi scuri, e una voce da bombarda, romano di nascita e d’educazione; il quale minacciava sempre i ragazzi di farli a pezzi e di portarli per il collo in Questura, e faceva ogni specie di facce spaventevoli. Era solito riprendere i suoi alunni con motti mutuati dal bellissimo e simpatico dizionario di Trilussa. Vivevanella cittàdel nord malvolentieri e mal digeriva le battutine sarcastiche su ‘Roma ladrona’ e sull’indolenza di quelli di giù, e sfogava questa sua insofferenza per una terra che non lo apprezzava e che lui cordialmente detestava con epigrammatici rimproveri dialettali; si passava da un «Sei tarmente deficiente che se scoppiasse ‘naguera de cervelli te troveresti disarmato» a un «Esse stupidi è ‘n diritto, ma certo che tu te n’approfitti!»
Rideva sguaiato per le sue battute sciocche e pesanti. E aggiungeva ilare: «Voi padani non sapete ridere, siete tristi come il vostro Po e grigi come le vostre città.» E la voce sembrava un rutto, sia per la raucedine, sia perché tentava di modulare la voce in modo da incutere terrore nei piccoli scolari.
Non era il solo maestro, Ercoatto, ma ne era lo spirito guida, quello che al mattino arrivava trafelato, spesso dopo il suono della campana, e cercava di inchiodare i colleghi nei corridoi con l’ultima barzelletta o con i commenti grevi sulle colleghe, infiorettando con molta fantasia le poche notizie autentiche in suo possesso. Il suo preferito era il maestro Mario Lazzaretto che anche nelle tiepide giornate primaverili era solito adornare il collo con un’ispida sciarpa di lana amerinda, avuta in eredità da una nonna argentina: «Per difendermi dall’artrosi cervicale che mi perseguita da quando, giovane supplente di belle speranze, giravo di scuola in scuola nel Polesine.», soleva rimarcare cercando compassione e solidarietà.
Ercoatto, con la simpatia e la signorilità che sempre lo contraddistingueva, gli affibbiò un ceffone sul collo e ridendo commentò: «Hai visto, ti è già passato tutto, e senza andare dal chiropratico.» Il povero Lazzaretto barcollò sotto la tranvata simpatica del romano e si appoggiò alla parete per non cadere. «La natura, caro mio, difficilmente sbaglia», incalzò il ‘trucido’, «e con te c’ha preso in pieno. Aò, t’ha battezzato Lazzaretto!»
Certo non era così tutti i giorni, ma solo quelli in cui Ercoatto riusciva ad arrivare prima del suono della campanella, e, per fortuna di Lazzaretto, erano molto rari.
Questi teneva nell’armadietto insieme al registro e ai quaderni degli alunni un fornitissimo bazar di medicine, metà per curare le affezioni croniche di cui soffriva e metà per depotenziare gli effetti negativi (le controindicazioni) che le stesse potevano creare alla sua fragile salute. Era un ometto di poco conto, squassato da una tosse persistente e da un raffreddore ‘che non passava mai’, con il viso incorniciato da una rada barbetta fulva che accarezzava con gesto ritmico e nervoso, nel vano tentativo di nascondere i non pochi tic che gli contraevano il volto.
Oltre ai due insegnavano nella scuola altri quattro maestri, con una percentuale, rispetto alle donne, superiore alla media delle scuole cittadine.
Rosario Fiorito era maestro di religione, che, nomenomen, utilizzava camicie hawaiane, stile giardino dell’Eden, sotto giacche straordinariamente barocche, adornate con cravatte multicolori e spillina sul bavero con l’immagine del Cristo di Salvador Dalì.
In quarta insegnava il maestro Felice Crudele, un omaccione dall’aspetto inquietante per quegli innocenti alunni, anche se, come spesso accade, l’aspetto fisico non è mai lo specchio vero dell’animo umano, alla faccia dei lombrosiani. È stato maestro dei ciechi. Era solito mettere di buon’umore i suoi alunni ‘diversamente vedenti’ scombinando l’arredo della classe per vedere quei piccoli andare a urtare nei banchi o nella cattedra laddove supponevano non ci fosse alcunché. Sai le risate! A volte, per rendere la lezione più divertente soleva cospargere il pavimento con gli ostacoli più disparati: palline, sedie, secchi colmi d’acqua, puntine da disegno, scope, e tutto quanto la sua fervida e giocosa immaginazione gli suggeriva. «Così imparano a difendersi dalle difficoltà della vita», era solito rispondere a chi sollevava qualche perplessità su questa pedagogia del ‘lazzo’. Gli ispettori ministeriali, chiamati da alcuni genitori preoccupati per l’eccesso di lividi che decoravano il corpo dei loro figliuoli, avevano tentato di licenziare il maestro, ritenendo la sua pedagogia poco adatta all’insegnamento in classi con alunni non vedenti, ma l’intervento di un potente zio cardinale aveva bloccato la richiesta degli ispettori.Erano riusciti soltanto a trasferire il maestro in una classe di bambini vedenti, ma non esenti dagli scherzi grevi che, sempre nel tentativo di divertire i piccoli, era solito inventare e, purtroppo, mettere in pratica.
Ce n’era uno ben vestito, con gli occhiali, e due baffetti biondi, che chiamavano l’avvocatino, perché facendo il maestro studiò da avvocato e prese la laurea. Ovviamente gli studi in leggi non erano rimasti un puro esercizio culturale: aveva aperto uno studio legale utilizzando il nome di un suo lontano cugino avvocato e arrotondava il magro stipendio di dipendente dello stato con qualche consulenza. Il maestro/avvocato Massimo Della Pena era conosciuto nell’ambiente scolastico perché riuscì a salvare un bidello dal licenziamento sostenendo che svolgeva la professione di tatuatore nelle ore di servizio e dimostrando che ciò era utile alla scuola, alle attività didattiche e al lustro che la l’istituzione scolastica riceveva dall’avere fra i suoi dipendenti un artista di così chiara fama; riuscì in soprammercato a fargli consegnare una menzione al merito dal Ministro della Cultura Felice Disbosco. Nessuno seppe mai che era stato utile anche al giudice con il quale Massimo Della Pena divideva le parcelle.
In quinta propagandava il maestro Vota Emilio, preoccupato più dalla necessità di farsi eleggere a qualche carica amministrativa che dal dovere di insegnare al volgo i contenuti della programmazione, che, frutto di un feroce copia e incolla su internet, era oscura allo stesso estensore. Poco gli importava delle discipline, ma sapeva essere gentile con tutti e in particolare con chi avrebbe potuto votarlo. Le sue promesse erano tante e così varie che sarebbe stato utile un verbalizzante della memoria collettiva di almeno quattro generazioni di alunni per ricordarle tutte. Era riuscito a promettere l’istituzione dello scuolabus polivalente, in grado di accompagnare gli alunni a scuola e i genitori al lavoro, colazione a bordo per tutti e assistenza agli alunni fino all’ingresso nell’edificio scolastico. Nel viaggio di ritorno il mezzo sarebbe diventato una ludoteca ambulante con gli assistenti trasformati in animatori modello ‘Club Mediterranée’. Le sue promesse avevano il dono di sollecitare le fantasie più sfrenate, tanto da trovare credito soprattutto nei bambini e nei semplici di spirito. Quando ancora era un supplente, sia scolastico sia politico, tentò di convincere i suoi concittadini che, se eletto al Consiglio comunale, avrebbe eliminato ogni forma di tassazione locale, sostituita dalla schedina collettiva preparata con l’aiuto del ragioniere capo dell’ufficio imposte Numero Esatto, e che, per ripianare le vuote casse municipali, avrebbe aperto dei casinò in varie parti della città. Si raccontava che avrebbe addirittura assicurato un premio sugli incassi dei casinò ai soli residenti.
Le figure maschili non si esaurivano con i maestri. Oltre al direttore Guido La Baracca, a rappresentare magnificamente il sesso forte c’era il medico scolastico Maisano Felice, uomo di indubbie qualità umane e intellettuali. I suoi occhi azzurri, sfumati dietro degli occhiali rosso sangue, facevano sognare le maestre e le mamme, che si accalcavano nell’ambulatorio per i più futili motivi.
«Dottore, mio figlio Kevin sembra digerisca male la mensa scolastica, a casa rientra sempre nauseato dal cibo.», informava la signora Bianca Farina, scuotendo civettuola i capelli freschi di parrucchiera e sbattendo le ciglia protesizzate.
«Non potrebbe consigliarmi qualche rimedio o intervenire personalmente presso la ditta che fornisce i pasti per vedere come rendere migliore e più digeribile il cibo?», incalzava mielosa la signora.
Le conversazioni fra mamme e medico erano spesso interrotte dalle maestre che strabordavanocon i loro quesiti spesso di poco spessore medico o pedagogico: «Dottore, mi scusi se la disturbo, ma in classe c’è un problema che richiede la sua presenza.»; «Mi scusi l’interruzione, dottore, ma avrei una comunicazione urgente da parte dell’équipe psico/socio/pedagogica della ASL sull’alunno di cui lei è a conoscenza.»; «Perdoni l’intrusione, pensavo fosse solo; volevo informarla sugli sviluppi del caso di pediculosi che le avevo segnalato e sul quale lei tanto bene aveva fatto, coinvolgendo famiglie e autorità.»
Le motivazioni, per lo più banali e pretestuose, permettevano al medico di non essere assillato, proprio grazie alle sovrapposizioni di sollecitazioni, da richieste troppo personali. Ma era anche un intellettuale raffinato, oltre che un bell’uomo, che aveva partecipato al famosissimo e colto programma televisivo “Prova a indovinare”, incentrato su domande inerenti il mondo del gossip, mostrando una conoscenza enciclopedica della materia. Nel suo studio, a ulteriore riprova della sua erudizione, facevano bella mostra le riviste ‘Donna e gioielli’, ‘La vita sotto l’ombrellone’, ‘Dalla Costa Smeralda a Cortina: vite da nababbi’.
Poi c’era il Direttore, alto, calvo con gli occhiali, con la barba grigia (…), tutto vestito di nero. Ricordava l’immagine popolare dello iettatore con quel suo cappellaccio nero calcato sugli occhi che sembrava formare una coppia inscindibile con gli occhiali dalla pesante montatura nera e quel suo pastrano sempre abbottonato fin sotto il mento, e il bastone da passeggio con incastonato nel pomello un teschio d’argento. Quando varcava il portone d’ingresso alunni e insegnanti ammutolivano. L’unicoimmune sembrava esserePosapiano perché dicevano avesse l’antidoto giusto: era rappresentante d’istituto del sindacato più rappresentativo e più potente, nonché segretario di quartiere del Partito. Insomma, sopra Guido La Baracca incombeva Posapiano. In quella scuola vigeva la regola del poker: scala minima batte scala massima.
Il direttore erasempre il primo al suo posto, la mattina, a aspettare gli scolari e a dar retta ai parenti con pedigree, e quando i maestri eran già avviati verso casa, girava ancora intorno alla scuola a vedere che i ragazzi non si scambiassero giornaletti osé, o non si trattengan per le strade a fare brancoper molestare le vecchiette, o a empir gli zaini dipolvere bianca per consegnarla a dei signori seduti nei bar della zona; e ogni volta che appariva a una cantonata, così alto e nero, stormi di ragazzi scappavano da tutte le parti, ed egli li minacciava con l’indice da lontano, con la sua ariaminacciosae triste. Nessuno l’aveva più visto ridere,dissemia madre, dopo che gli era morto il figliuolo ch’era impelagato in loschi affari con la banda del Brenta; ed egliavevasempre il suo ritratto davanti agli occhi, sul tavolino della Direzione. Stava pensando di chiuderla lì, con quella vita di merda al servizio della collettività che non sapeva dirgli neanche grazie per la sua abnegazione e per il suo attaccamento al lavoro. Aveva già fatto la sua domanda di riposo, e la teneva sempre sul tavolino, aspettando di giorno in giorno a mandarla, perché gli rincresceva di lasciare il posto di comando. Ma l’altro giorno pareva deciso, e mio padre ch’era con lui nella Direzione, gli diceva: «Che peccato che se ne vada, signor Direttore!» quando entrò il bidello per consegnare il modulo d’iscrizione di un ragazzo, che passava da un’altra scuola alla nostra perché aveva cambiato di casa.In un primo momento il Direttore non ci fece molto caso, finché non lesse il nome nella scheda d’iscrizione sulla sua scrivania: “Arraffador Giovanni di Arrogante e Trapasso Crocefissa.” Guido la Baracca guardò mio padre interrogativo: «È quell’Arraffador leader politico iscritto al Partito? E la signora appartiene al casato dei Fratelli Trapasso, boss monopolisti nazionali dell’industria del caro estinto?»
Mio padre annuì e non proferì verbo per cotanto lignaggio. Il direttore infilò la richiesta di pensionamento nel suo distruggi documenti, accarezzò la foto del figlio sulla scrivania e, guardando mio padre, dichiarò: «Non è ancora tempo di deporre le mie ambizioni. Se gioco bene le mie carte qualcosa posso ancora realizzare. La scuola, in fondo, è il luogo privilegiato per l’affermazione di ogni individuo e per la realizzazione delle sue legittime aspettative. La fortuna bussa solo una volta: rimango!»
I soldati
Novembre 22, martedì
Il suo figliuolo era volontario nella protezione civile e sperava vivamente di entrare a far partedell’esercito, per meglio tutelare i suoi affari,quando morì durante un conflitto a fuoco nel tentativo di espandere la propria influenza sul territorio: per questo il Direttore andava sempre sul corso a veder passare i soldati, quando uscivamo dalla scuola. Ieri passava un reggimento diparacadutisti diretti in Afghanistan in missione armata di pace. A vedere quella sfilata di marcantoni in tuta mimetica, più somiglianti a dei rambo che a dei soldati, c’era tutta la classe che cercava di creare una sorta di sottofondo marziale con il battito delle mani cadenzato, con la regia di quella birba di Affrantiche dirigeva l’orchestra con una riga e organizzava la sua truppa pronta a marciare di fianco agli arditi parà della Folgore lungo il Corso. Cercò d’imitare, marciandogli a fianco, il passo del soldato più scalcinato della compagnia, ma venne bloccato da una poderosa trattenuta: qualcuno lo acchiappò per il bavero e gli impedì di continuare nel suo stupido gioco. Erail Direttore. «Giovanotto, ti sembra bello schernire chi in questo momento non può reagire?»
Il giovane tentò di giustificarsi: «Ma io volevo solo scherzare, non era mia intenzione offendere chicchessia.»
Il direttore lo guardò benevolo: «Il mio appunto non era legato al tuo atteggiamento canzonatorio, che ci può anche stare inserito in un puro spirito di caserma, ma alla reazione che quel soldato avrà fra cento metri quando, raggiunta la piazza, la compagnia verrà sciolta e tu non avrai la copertura della sfilata. Caro il mio giovanotto, il mio compito è anche quello d’insegnare agli allievi il modo per evitare i guai, di far loro capire quando rischiano di essere perdenti. Prima di agire devi riflettere e valutare se gli sviluppi ti saranno favorevoli, solo allora ti potrai permettere di schernire chi vuoi.» Il ragazzo rimase pensieroso, guardò quell’armadio che sfilava sulla strada con il mitra a tracolla e lo sguardo feroce, vide le dita stringere spasmodicamente la canna dell’arma quasi piegandola e capì quanto aveva rischiato.
Il direttore impartì a quei suoi ragazzi una lezione di educazione civica, sottolineando il ruolo positivo e civico dell’esercito: «Voi dovete voler bene ai soldati, ragazzi. Pensate: sono riusciti a liberarci dalla guerra in casa esportandola in altri paesi. Sono dei veri professionisti della guerra, straordinari nel combattere le battaglie più feroci in terra straniera, evitando sacrifici ai propri concittadini. Non so se questi soldatiandrebbero a farsi uccidere per noi, se domani un esercito straniero minacciasse il nostro paese, ma di sicuro evitano di insultare il suolo patrio con sconvenienti, per l’economia e per la sicurezza nazionale, azioni di guerra.
Se fate attenzione, con visione lombrosiana, si posson quasi riconoscere al viso: passano dei Siciliani, dei Sardi, dei Napoletani, dei Lombardi.Si tratta del glorioso reggimento utilizzato nella repressione delle lotte operaie del 1968, riuscendo a riportare l’ordine, rispettando la direttiva venuta dalle convention demosvasticane sponsorizzate dal Grande Uno della Confinmonopolglobale.
I soldati non son più quelli, ma la bandiera è sempre la stessa: un teschio su sfondo grigio smog su cui campeggia la scritta ‘Rubare è reato solo se rubi ai ricchi’.»
Sgarrone indicò il vessillo e il suo viso s’illuminò. Aveva sempre sognato di vedere sfilare il reggimento che si era ricoperto di gloria nel reprimere le lotte operaie e studentesche. Insieme a Sgarrone tutti i bimbi salutarono festosamente quei gloriosi soldati e quel vessillo che garriva al vento.
Il protettore di Snelli
Novembre 23, mercoledì
AncheSnelli, ieri, guardava i soldati, povero gobbino, ma con un’aria così, come se pensasse: “Io non potrò esser mai un soldato!”; ma non se ne cruciava più di tanto, perché era riuscito a massimizzare economicamente la sua menomazione. Certo, i primi giorni di scuola erano stati terribili per gli ovvi sfottò dei compagni di classe, ma con il passare dei giorni e con l’intervento decisivo di Sgarrone, spinto psicologicamente all’ingerenza fisica da un autoritarioVurazzu u Russu, quello il cui padre lavorava negli Usa per conto di una potente azienda siculo/newyorkese.
L’unico che aveva provato a importunare il gobbinoera stato l’imprudente e arrogante Affranti. La reazione rabbiosa di Sgarrone si era conclusa con due manrovesci carichi d’odio, che avevano mandato lungo disteso sul pavimento lo scocciatore molesto. Mentre volavano gli schiaffi, Vurazzu u Russu tolse dalla tasca la sua inseparabile e affilatissimaBirritedda e squarciòlo zaino di Affranti, creando un sorriso straordinario all’altezza del pomposo nome della marca. Sembrava una riedizione di una delle famose tele del pittore Lucio Fontana.
Il piccolo Snelli guardò con devoto ringraziamento i due salvatori e attraversò tronfio l’aula, quasi a sfidare qualche altro sconsiderato che avesse deciso di affrontare l’ira del duo Sgarrone/Vurazzu.
Il maestro gli mise Sgarrone vicino, nello stesso banco. Si fecero amici. Snelli s’eraaffezionato molto a Sgarrone. Appena entrò nella scuola, cercò subito se c’eraSgarrone.
La madre del piccolo Snelli seppe dell’accaduto dai racconti saltuari e smozzicati del ragazzo e volle rendere omaggio al coraggio dei due ragazzi che tanto avevano preso a cuore la sorte del suo piccolo. Si recò nella scuola per chiedere al dirigente di poter esternare i suoi ringraziamenti ai due angeli che proteggevano suo figlio: «Signor Direttore, nella classe del mio figliuolo ci sono due ragazzi che si chiamanoSgarrone e Vurazzu?»
«Ci sono», rispose il Direttore.
«Vuol aver la bontà di farli venire un momento qui, che gli ho da dire una parola?»
Il Direttore chiamò il bidello e lo mandò in iscuola, e dopo un minuto ecco lì Sgarronee Vurazzusull’uscio. Appena livide, la signora gli corse incontro, gli gettò le mani sulle spalle e gli diede tanti baci sulla testa dicendo:«Vi sarò sempre riconoscente per quello che avete fatto per il mio bambino.» Si avvicinò a Vurazzu e gli sussurrò all’orecchio: «Dì ai tuoi che sono a loro disposizione per qualunque incombenza. Dispongano pure della mia persona.»
La donna ringraziò il dirigente per la disponibilità, e salutò con una carezza i due paladini.
In classe il maestro, come era solito fare dopo avvenimenti degni di nota, non perse l’occasione per elargire ai suoi adorati pargoli la dose quotidiana di buoni insegnamenti, come deve fare un educatore cresciuto a pane e Montessori. Assunse una posizione…magistrale, inforcò gli occhiali e percorse con occhi serrati, per dare tono e spessore al suo sguardo notoriamente spento, i volti degli alunni.
Dopo due colpi di tosse di circostanza, iniziò a sermonare: «Cari ragazzi, oggi avete assistito a una doppia lezione che, spero, vi abbia consentito di trarne il giusto e opportunoinsegnamento: mai provocare chi pensiamo sia più debole di noi, se prima non ne abbiamo scandagliato amicizie e capacità di reazione. Affranti ha provato a mobbizzare il povero Snelli e ne ha ricevuto la giusta punizione. Non sempre l’apparenza corrisponde alla realtà! Possiamo, da ciò, dedurne una regola generale da applicare in tutte quelle occasioni nelle quali agiamod’istinto e in modo improvvido. E, soprattutto, valutiamo correttamente la disponibilità della mamma di Snelli a ricambiare il favore, qualora se ne presentasse la necessità. Siate accorti e ricordate che nella vita la rete di amicizie conta quanto la famiglia, e talvolta può aiutarci a risolvere qualsiasi garbuglio. Chiunque sa trovare e gestire in modo accorto e profittevole le amicizie saprà collocarsi adeguatamente nella società.»
Sgarrone e Vurazzu si scambiarono un gesto d’intesa, soddisfatti per l’operazione solidale e congiunta, e si voltarono sorridenti e benevoli verso il povero Snelli.
Il primo della classe
Novembre 25, venerdì
Sgarrone s’attirava l’affetto di tutti; Debossi, l’ammirazione.Era un vero artista della simulazione, capovolgeva sempre a suo favore anche le situazioni più infauste. Otteneva con i mezzi più subdoli il massimo dei voti in tutte le discipline, arrivando a circuire maliziosamente il maestro e i compagni. Quando qualche compagno mostrava competenze superiori alle sue, innescava un processo di denigrazione progressivo che lo esautorava di ogni credibilità.Prese fin dall’inizio dell’anno scolastico la prima medaglia, e sarebbe stato sempre il primo anche nell’annoin corso, nessuno poteva competer con lui, tutti riconoscevano la sua superiorità in tutte le materie. Era il primo in aritmetica, in grammatica, in composizione, in disegno, in inglese, ecc.. Nessuno come lui massimizzava i risultati del suo cursus studiorum, che lo vedeva sempre primeggiare grazie a una scaltrezza che pochi potevano esibire. Lo aiutava una faccia tosta incredibile e una non meno efficace capacità affabulatoria che gli consentiva di spostare a suo piacimento, con l’assenso degli insegnanti, coinvolti e gabbati, l’argomento di discussione, lasciando negli astanti l’impressione di essere un grande conoscitore della materia. Quando l’effetto dell’affabulazione non sortiva gli effetti desiderati, faceva ampio riferimento a un repertorio di geremiadi degno di un don Abbondio qualsiasi. Aveva la fortuna di non avere un aspetto sgraziato e poteva contare su un discreto portafoglio familiare per indossare abiti costosi e grandi firme. Capiva ogni cosa al volo, aveva una memoria meravigliosa, riusciva in tutto senza sforzo, pareva che lo studio fosse un gioco per lui… Il maestro gli disse ieri: “Hai avuto dei grandi doni da Dio, non hai altro da fare che non sciuparli.”E per di più era grande, bello, lesto che saltava un banco appoggiandovi una mano su; e conosceva le arti marziali kick boxing e taekwondo.Sapeva sempre entrare nelle grazie di tutti, soprattutto di chi rappresentava l’autorità. E il maestro era fra questi! Percattivi, nonostante la sua pessima nomea, si lasciava abbindolare da quel pessimo soggetto in formato santino. Debossi, oltre la sua inossidabile fede leghista, sfoderava una chioma bionda degna d’un puto raffaellesco e due occhi verdi con ciglia lunghe e ricurve che sbatteva in modo quasi civettuolo. Pochi sapevano resistere alle sue melliflue ruffianerie, parte congenite, parte acquisite seguendo le orme di uno zio di Varese, oriundo sardo, di nome Bainzu Vuitton, portaborse astuto e sleale di vari onorevoli del Partito Nazionale del Potere Assoluto. Era famoso, questo zio, perché era passato indenne attraverso 20 crisi di governo e 6 elezioni politiche teleguidate con maestria dallo staff del Dirigente Assoluto, l’unico a mantenere la poltrona in tutte le traversie insieme al portaborse Vuitton.
Cercavo sempre d’imitarlo, anche per far contento il babbo che in quel concentrato di astuzia, cattiveria e intelligenza vedeva l’homo novus, paradigmatico della futura classe dirigente. L’invidiavo per quella sua capacità di calpestare la dignità altrui senza provare il minimo rimorso, e per l’ammirazione che suscitava in stuoli di adulatori servili. Tutti gli riconoscevano l’attitudine al comando, mai contestata dai compagni di classe. Aveva l’abitudine di umiliare i condiscepoli, dopo aver abilmente creato intorno a loro terra bruciata, portandoli a livelli parossistici di nervosismo. Nessunofra gli adulti, e il maestro meno degli altri, dubitava dell’onestà del suo operato, e neppure di fronte a prove inoppugnabili avrebbe ammesso che il giovane Debossi avrebbe copiato o frodato durante il lavoro scolastico. Semplicemente il suo attingere ai libri di testo durante un elaborato veniva attribuito al bisogno tutto intellettuale di confrontare le sue enciclopediche conoscenze con gli strumenti di studio quotidiani.
Lo scorso anno scolastico il povero Bastardi aveva accennato una larvale protesta sulla scorretezza del Debossi che aveva recitato la poesia, che tutti avevano dovuto mandar giù a memoria, utilizzando un gobbo improvvisato, infilando nell’orecchio un lettore mp3 su quale aveva precedentemente inciso i versi del divino Dante. Il maestro, dopo un attimo di perplessità (non si accusano gli dei!), aveva delicatamente sfilato dall’orecchio del giovane l’auricolare e si era messo in ascolto: riuscì a sentire la partefinaledel ‘Va Pensiero del Nabucco’, anche perché l’astuto alunno aveva, alle prime avvisaglie di controllo, premuto in rapida sequenza i tasti rewind/play. Percattivi, perplesso, guardò il giovane in modo interrogativo. Il virgulto nordista sorrise timido e chiosò: «Mi sembrava una buona idea accompagnare le parole del Divino con la musica di Giuseppe Verdi. Essendo entrambi fondatori della coesione nazionale, l’abbinamento mi sembrava corretto. Se però la cosa disturba, posso spegnere immediatamente l’emmepitre!»
Il maestro sorrise bonario e, commosso da tanto amor patrio, diede una carezza sui riccioli biondi del Debossi, poi con gli occhi iniettati di sangue fissò Bastardi con un disprezzo tale da farlo sentire un verme: «Hai cercato di macchiare l’onestà del tuo compagno soltanto per invidia! Hai voluto seminare dubbi e insinuazioni sulla correttezza del tuo amico, per questo sarai punito come meriti.»
Mentre il maestro parlava, alle sue spalle il disonesto putino sorrideva feroce, quasi pregustando la punizione per il delatore. La sua mente fantasmagorica riuscì a partorire una diabolica vendetta, degna d’un filosofo greco. Si avvicinò angelico e con un filo di voce al miele intrisa nel cianuro: «Signor maestro, so che le decisioni degli adulti e delle autorità non si devono discutere, però sarei felice se lei lo perdonasse, come l’ho perdonato io. Non gliene voglio per la cattiveria.»
«Hai sentito che nobiltà d’animo! Come hai potuto pensar male di un bambino che non farebbe mai del male agli altri e che è sempre disposto al perdono. Ringrazialo per la sua bontà e chiedigli scusa, e forse ti perdonerò.»
Bastardi arrossì per la rabbia di non poter replicare, per lo sfottò di cui era stato oggetto, per l’impossibilità di non poter stampare sul volto di quel miserabile disonesto un pugno ben assestato. Lo sguardo dell’ineffabile Debossi trasmetteva tutta la perfidia possibile e il sorriso ironico raccontava di pensieri vendicativi. Suo malgrado dovette chiedere scusa, chinando il capo, più per la rabbia di non poter reagire che per la contrizione.
Per me era un mito, un obiettivo da raggiungere per trovare la mia giusta collocazione nella società, che premiava i furbi e derideva gli onesti.
Con che piacere gli avrei detto sul viso, francamente: «Debossi, tu vali in tutto più di me! Tu sei un uomo a confronto mio! Io ti rispetto e ti ammiro!»
La piccola vedetta sarda
Racconto mensile
Novembre 26, sabato
Nel 1982, durante i campionati del mondo di calcio, in Spagna, pochi giorni dopo la battaglia fra Italia e Argentina, vinta dagli Italiani, in una bella mattinata del mese di giugno, un piccolo drappello di tifosi di Roma Trastevere, con le bandiere tricolori che sventolavano fiere e qualche striscione non proprio garbato nei confronti del Brasile, dei brasiliani, del presidente della repubblica brasiliana, delle mamme, delle consorti e dei familiari tutti dei Calciatori verde/oro, andava di lento passo, per un sentiero solitario, verso il nemico, esplorando attentamente il territorio per scovare eventuali gruppi di ultras nemici con i quali scambiare le cordialità di rito.
Il gruppo di tifosi azzurri, armato di mazze da baseball, tubi innocenti recuperati in un cantiere aperto nelle vicinanze della Sagrada Familia, tubi di gomma rinforzati all’interno con un’anima di piombo, geniale idea di un ex della terribile celere di Padova che tanta esperienza aveva fatto nel 1968 sulle teste e sulle schiene degli studenti e degli operai, e qua e là qualche poco organizzato strumento di offesa: si andava da una catena sradicata nelle vicinanze di qualche passo carraio ai segnali stradali utilizzati come scudi, da funi utilizzate a mo’ di frusta a cinture rinforzate con piastre di metallo. I ragazzi insomma erano adeguatamente equipaggiati per fare bella figura con avversari che non gli erano da meno.
Il gruppo era guidato con autorità e perizia da un capo ultras di lungo corso, conosciuto dai supporter della Nazionale come Pittbull per l’espressione del viso sempre disposta al sorriso, favorito da una cicatrice che gli percorreva il volto dalla tempia sinistra fino al labbro inferiore. E lo sguardo non era certo di minore incisività: due pupille fiammeggianti filtravano come dardi incendiari fra le palpebre socchiuse. Il rispetto che si era meritato nelle innumerevoli battaglie contro la curva laziale ne facevano un mito per quel popolo amante dello sport pedatorio di sponda romanista.
Tutti guardavano lontano, davanti a sé, con occhio fisso, muti, preparati a veder da un momento all’altro biancheggiare fra gli alberi i colori degli avamposti nemici.Arrivarono così a una villetta rustica, circondata di frassini, davanti alla quale se ne stava tutto solo un ragazzo d’una dozzina d’anni, che scortecciava un grosso ramo con una pattadese, che ne denunciava le origini sarde, per farsene un bastone; da una finestra della villetta spenzolava una larga bandiera tricolore; dentro non c’era nessuno: i pochi tifosi lì acquartierati, messa fuori la bandiera, erano scappati, per paura dei brasiliani. Appena visti gli ultras, il ragazzo agitò il bastonee si levò la maglietta a strisce bianche e nere, con sul lato posteriore un chiaro numero 10, e la roteò sulla testa come segno d’identificazione. Era un bel ragazzo, di viso ardito, con gli occhi grandi e celesti, coi capelli biondi e lunghi; e mostrava il petto nudo.
«Che fai qui?», gli domandò il capo ultras, fermando il drappello. «Perché non sei
fuggito con il tuo gruppo?»
«Il mio gruppo non è qui», rispose il ragazzo. «Sono scappato per vedere la partita e magari darmi un po’ daffare. Io amo il calcio estremo, quello che si esprime nelle gradinate e subito fuori dallo stadio. Son rimasto qui per veder la battaglia tra tifoserie e magari partecipare.»
«Hai visto passare dei brasiliani?»
«Non oggi.»
Il capo tifoso stette un poco pensando; poi, lasciati gli ultras di guardia, rivolti verso il nemico, entrò nella casa e salì sul tetto… La casa era bassa; dal tetto non si vedeva che un piccolo tratto di strada. «Bisogna salir sugli alberi del giardino», disse, e discese. Proprio davanti alla villetta si drizzava un frassino altissimo e sottile, che dondolava la vetta nell’azzurro. Il leader ultras rimase un po’ sopra pensiero, guardando ora l’albero ora i tifosi; poi tutt’a un tratto domandò al ragazzo:
«Hai buona vista, tu, monello?»
«Io?», rispose il ragazzo. «Io vedo un passerotto lontano un miglio.»
«Saresti buono a salire in cima a quell’albero?»
«In cima a quell’albero? Io? In mezzo minuto ci salgo.»
«E sapresti dirmi quello che vedi di lassù, se ci sono supporter brasiliani da quella
parte, costumi verde oro, bastoni e altre diavolerie offensive?»
«Sicuro che saprei.»
«Che cosa vuoi per farmi questo servizio?»
«Che cosa voglio?», disse il ragazzo sorridendo. «Niente. Bella cosa! E poi…
se fosse per i brasiliani, a nessun patto; ma per i nostri! Io sono juventino.»
«Bene. Va su dunque.»
«Un momento, che mi levi le scarpe.»
Si levò le scarpe,un meraviglioso paio di Adidas World Cup, (prima scelta di monsieur le roi Platini e del Pibe de Oro Maradona; pesavano solo 270 grammi, e erano di estrema duttilità grazie a suola e tacchetti in poliuretano), si strinse la cinghia dei calzoni, buttò nell’erba la magliettanumero 10 di Del Piero, per timore di rovinarla, e abbracciò il tronco del frassino.
In pochi momenti il ragazzo fu sulla cima dell’albero, avviticchiato al fusto, con le gambe fra le foglie, ma col busto scoperto, e il sole gli batteva sul capo biondo, che pareva d’oro. I tifosi lo vedevano appena, tanto era piccino lassù.
Il ragazzo, per veder meglio, staccò la mano destra dall’albero e se la mise alla fronte.
«Che cosa vedi?», domandòil boss.
Il ragazzo chinò il viso verso di lui, e facendosi portavoce della mano, rispose: «Due uomini in motocicletta con i colori del Brasileverso l’autostrada che porta allo stadio.»
«A che distanza di qui?»
«Un chilometro!»
«Che fanno?»
«Son fermi, pare che aspettino altri.»
Poi disse: «Vicino al chiosco delle bibite e al carretto del chorizoe delle tortillas de patatasc’è qualche cosa di strano. Mi sembra di vedere oggetti ammucchiati alla parete del chiosco.»
«Vedi gente?»
«No. Saran nascosti dietro il chiosco.»
In quel momento un botto acutissimo passò alto per l’aria e andò a morire lontano dietro alla casa.Era una bomba carta di notevole potenza lanciata sicuramente con una fionda o con una balestra.
«Scendi, ragazzo!», gridò. «T’han visto. Non voglio altro. Vien giù.»
«Io non ho paura.», rispose il ragazzo.
«Scendi…» ripeté, “che altro vedi, a sinistra?»
«A sinistra?»
«Sì, a sinistra.»
Il ragazzo sporse il capo a sinistra; in quel punto un altro botto più acuto e più basso del primo tagliò l’aria. Il ragazzo si riscosse tutto. «Accidenti!», esclamò. «L’hanno proprio con me!»
Un mega petardo del tipo ‘Maradona’ gli era passato poco lontano.
«Scendi!», gridò imperioso e irritato.
«Scendo subito!», rispose il ragazzo. «Ma l’albero mi ripara, non dubiti. A sinistra, vuole sapere?»
«A sinistra», rispose,«ma scendi.»
«A sinistra», gridò il ragazzo, sporgendo il busto da quella parte, «dove c’è la rosticceria ‘Il toro furioso’, mi par di veder…»
Un terzo fischio rabbioso passò in alto, e quasi ad un punto si vide il ragazzo venir giù, trattenendosi per un tratto al fusto ed ai rami, e poi precipitando a capo fitto colle braccia aperte.
«Maledizione!», gridò il capo del drappello azzurro, accorrendo.
Riuscì a prenderlo al volo, ma non poté evitare di ruzzolare con lui per terra. Il petardo era scoppiato nelle vicinanze del ragazzo facendolo cadere e creandogli una lieve ferita lacero contusa al petto. Sanguinava leggermente, ma non si lamentava; implorò soltanto con un filo di voce: «Fategliela pagare a quei vermi verdeoro, fategliela pagare!»
«Ah! povero ragazzo! bravo ragazzo!», gridò il capo.«Coraggio! Coraggio!»s’alzò, e stette a guardarlo; anche gli altri, immobili, lo guardarono: stavan rivolti verso il nemico.
«Povero ragazzo!» ripeterono tutti. «Povero e bravo ragazzo!»
Il giovane si scosse e con piglio garibaldino si rizzò in piedi, afferrò la bandiera che sventolava sulla finestra della villetta e si pose di fronte ai partigiani azzurri: «Vi vedo mollicci, troppo dimessi di fronte alla provocazione dei carioca. A guardarvi non mi pare che siate scarsi di mezzi. Credo che sia giunto il momento di calpestare quel loro vessillo meconico. Mostriamo i muscoli a quella ciurmaglia creola.»
Quelle parole infiammarono i presenti che si mostravano impazienti e sollecitavano un’adeguata azione di risposta alla provocazione del nemico.
Il capo, un tipo riflessivo e attento, capace di valutare il pro e il contro, tirò fuori dalla tasca un piccolo tesoro di gettoni telefonici, entrò in una cabina e chiamò i capi delle varie tifoserie presenti a Barcellona. In breve tempo raccolse decine di adesioni tanto da formare una vera e propria falange italica. Nel volgere di un’ora il potenziale offensivo degli ultras italici diventò devastante, anche perché ai supporter romanisti, milanisti, juventini e interisti si aggiunse il colorato mondo dei tifosi partenopei, geniali costruttori di petardi dall’effetto Hiroshima.
Al tramontar del sole, tutta la linea degli avamposti italiani s’avanzava verso il Nemico. Sulle ali si sistemarono le tifoserie cugine di Milano, al centro juventini e romanisti, in retroguardia i partenopei con un armamentario esplosivo degno di una battaglia napoleonica. Per l’occasione i napoletani misero a disposizione i trombettieri della banda musicale Giovanni Paisiello. Il cielo rossastro all’orizzonte sembrò voler dare solennità all’avvenimento e gli dei sembrava volessero dare la loro benedizione agli scontri che stavano per aver luogo. Alti squilli di tromba annunciarono l’inizio della tenzone.
Le diverse tifoserie si scontrarono nella piccola Plaça de Sarrià e nell’attiguo Passeig de la Reina Elisenda de Montcada, mettendo in fuga i pochi e spaventati venditori delle misere bancarelle di libri, usati come falò vista l’inutilità sportiva del prodotto tipografico. I gruppi si guardavano in cagnesco, alzando alti gridi che rimbombavano minacciosi nelle vie laterali, lanciando petardi con intenzione intimidatoria, passando dai botti da compleanno a esplosioni degne di un capodanno napoletano. Le bombe Bin Laden made in Fuorigrotta furono il preludio allo scontro fisico. I milanesi si lanciarono come un sol uomo sui sudamericani brandendo enormi bastoni nodosi, spalleggiati dagli interisti che lanciavano sui nemici una Kawasaki Ninja ZX-10R, sport in cui primeggiavano come nessun altro. Nell’impeto dell’assalto i verdeoro indietreggiarono, aprendosi a imbuto e convogliando gli assalitori verso una trappola a tenaglia. L’arrivo degli interisti fece vacillare l’ala sinistra dei brasiliani, annullando l’effetto tenaglia contro gli altri tifosi azzurri. Si materializzarono nelle mani italiche mazze da baseball rinforzate con piastre di metallo, fionde con biglie di ferro, qualche elmo domesticamente arrangiato e ricavato da qualsiasi strumento ne permettesse la modifica (si favoleggiava di elmetti degni di Don Quijote de la Mancha, anche per onorare la terra che ospitava i mondiali, recuperati in un polveroso negozio d’antiquariato). Il primo assalto si concluse con una sostanziale parità e, vista l’impossibilità di vincere, le due tifoserie stavano per abbandonare il campo, quando, guidati dalla Piccola vedetta sarda che aveva rindossato la gloriosa maglia di Del Piero, confluirono nella plaça le residue forze tricolori, rimaste occultate dietro il chiosco di chorizo e delle tortillas, brandendo le armi più strane, da improbabili lance decorative strappate a pareti pseudoafricane a staffili di nervi di bue ereditati da parenti cocchieri andini. Lo scontro divenne feroce e il risultato prese una svolta definitiva con l’arrivo degli ultimi romanisti, laziali, napoletani. La Piccola vedetta guidava l’inseguimento dei tifosi azzurri sventolando il tricolore con su dipinto un teschio che stringeva tra i denti un pugnale d’ardito dell’Impresa di Fiume. La giornata passò alla storia come la Tragedia del Sarrià per i sudamericani, ma sarà ricordata come una giornata gloriosa per la tifoseria italiana; e fulgida brillò l’immagine dell’eroica Piccola vedetta, esempio e modello per il tifoso di ogni squadra. Alla fine a lui fu consegnato lo stendardo strappato al nemico nell’assalto finale, che lasciò sul campo una scia indicibile di contusi e feriti.
Quelle birbe si sentirono commosse per quello sfavillante esempio di patriottismo calcistico e sognarono a lungo, nei loro campetti in terra battuta di periferia, di emularne le gesta. Qua e là sui visi di quei monelli, durante la lettura del racconto, si poteva scorgere qualche lacrima furtiva, subito asciugata con la manica del grembiule, perché un vero tifoso non piange mai. Se può, deve far piangere gli avversari!
I poveri
Novembre 29, martedì
Sacrificarsiper il proprio paeseè una grande virtù, ma tu non trascurare le virtù piccole, figliuolo. Questa mattina, camminando davanti a me quando tornavamo dalla scuola, passasti accanto a degli extracomunitari, che vendevano le loro cineserie e le loro paccottigliesimilafricane,e tu, nonostante la presenza di una folla numerosa e di molti tuoi compagni di classe, perdesti l’occasione per mostrarti generoso con gli inferiori. Tu li guardasti e non desti loronulla, e pure ci avevi dei soldi in tasca. Senti, figliuolo. Non abituarti a passare indifferente davanti alla miseria che tende la mano quando altri possono vederti. È la prima regola di chi aspira a scalare la piramide sociale: mai mostrarsi egoisti quando ci sono testimoni. Non sono più i tempi dei padroni delle ferriere, mai abbastanza rimpianti! Tutto ciò che tu doni agli altri alla luce del sole ti ritorna centuplicato. L’ingenuità della gente è tale che si beve qualunque fandonia, se propinata da persona stimata; e se è nota per le sue opere di bene, ciò che dice diventa oro colato. È la strada per un’appagante carriera politica. E quando dico appagante, intendo un sostanzioso rientro economico per l’impegno nel gestire la cosa pubblica. Una mamma che si preoccupa del domani dei propri figli non deve mai smettere di dare le giuste dritte per garantir loro un roseo futuro. Ogni mamma lo farebbe, e io non rifuggo le mie responsabilità. Tu che conosci le cose essenziali della storia per merito del maestro Percattivi, dovresti far tesoro degli insegnamenti dei romani, popolo all’avanguardia nel processo di dominio del mondo. “Panem et circenses” erano soliti ripetere gli imperatori, e mettevano in pratica questo semplice principio: soddisfare i bisogni essenziali e primitivi di un popolo permette al potere di dedicarsi con calma e scientificità alla spoliazione di nazioni nemiche, e, di tanto in tanto, idrovorare le casse pubbliche. La beneficenza è una prassi ormai consolidata per crearsi un’immagine pubblica attraente, e nell’occasione è fondamentale utilizzare gli strumenti più idonei ad amplificare ogni gesto di pilotata bontà: televisioni, radio e giornali devono diventare un’eco immediata di ogni azione finalizzata a farsi conoscere e apprezzare. Oh, che esempio è quello della piccola vedetta sarda! Ha sfruttato il momento favorevole per mettersi in mostra ed è intervenuto nella lotta quando le sorti della battaglia erano già decise a favore degli ultras italiani. È riuscito, inoltre, lui piccolo meridionale, a farsi accettare senza reazioni di tipo razziale o discriminazioni regionali, diventando un leader accettato dalle diverse tifoserie.
La selezione è un fatto naturale, splendidamente descritta da quel genio di Charles Darwin: solo i più forti sopravvivono, solo i migliori la spuntano. E nella lotta quotidiana l’uomo le deve studiare tutte per dominare gli altri, per scalare, in una competizione con vinti e vincitori, la piramide del potere.
Dei ragazzi come te, buoni come te, intelligenti come te, che in mezzo a una grande cittàcercano di fare altrettanto con te, come iene nella ricerca del cibo! Devi avere il giusto timore per le altrui reazioni. Non lasciarti mai sopravanzare dagli avversari, che tali sono quelli che ambiscono a ruoli da leader. Elabora sempre, utilizzando tutto il tuo ingegno, azioni adeguate per prevalere, senza preoccuparti se possono recare danno a qualcuno. Nelle guerre ci sono sempre effetti collaterali e qualche vittima innocente è una conseguenza inevitabile. La ricchezza è il bottino per i più scaltri. Oh mai più,Enrico, devi permettere a chicchessia di mettere in atto strategie per danneggiarti!
Tua madre
Il trafficante
Dicembre 1, giovedì
Mio padre voleva che ogni giorno di vacanza io mi facessi venire a casa uno de’ miei compagni, o che andassi a trovarlo, per farmi a poco a poco amico di tutti.
Era un padre previdente, che sapeva valutare il ritorno economico di una solida rete di amicizie. Non contava solo la ‘qualità’, aveva un certo peso anche la ‘quantità’, soprattutto se sul futuro c’era qualche prospettiva politico/elettorale (che straordinaria assonanza d’intenti fra genitori!).
L’agenda era colma d’impegni: domenica mi sarei visto con Giosuè Distinti Stirato, l’elegantone primatista di firme, che nutriva un sano odio, contraccambiato, per Debossi.
Per primo venne a casaGaruffa, noto in particolare per la sua capacità di comprare e vendere di tutto. Era nota la sua avarizia, tanto anomala in un bambino fino a fargli meritare il soprannome molieriano di Arpagone. La sua abilità, però, la sfoggiava nel gestire il suo eccezionale parco figurine: ne aveva di tutte le forme e colori, ma non si capiva come riuscisse ad avere con estrema facilità i pezzi più pregiati e rari. Il “ce l’ho, ce l’ho, non ce l’ho” era un esercizio che non lo riguardava, perché lui le aveva tutte, soprattutto le introvabili.
Le attività dei parenti, svolte prevalentemente nelle sale biliardo e nei bar, aiutavano il ragazzo a coltivare queste sue passioni volte alla raccolta di ogni sorta di oggetto, nell’attesa di venderlo o scambiarlo per ottenerne un vantaggio. Non conosceva il termine rottamazione e riteneva che ogni cosa poteva rivivere una seconda vita, new life come lui pomposamente diceva per darsi un tono, e per sentirsi al passo con i tempi, anche quando doveva riciclare oggetti retrò.A scuola vendeva qualsiasi oggetto gli sembrava potesse avere un qualche valore; e, quando nessuno avrebbe dato un cent per quella inutile chincaglieria che mostrava orgoglioso, si esibiva in tecniche di sopravvalutazione del prodotto degne di Tom Sawyer che si faceva pagare da chi gli dipingeva la staccionata.Funzionavano a meraviglia le sue millanterie commerciali e riusciva sempre a rifilare agli altri oggetti inguardabili e di nessun valore. Era nella memoria collettiva l’operazione che gli permise di ottenere un guadagno considerevole: convinse un alunno della VB che un’antenna appartenuta a un televisore di qualche decennio prima era una parte importante di un disco volante atterrato a Sestola sull’Appenninotosco-emiliano. La parte migliore Garuffa la fece emergere quando mostrò furtivamente l’oggetto all’interno di una borsa e si raccomandò, abbassando il tono della voce: «Ciò che stai vedendo è materiale segreto e riservato. L’ho avuto per vie traverse da uno zio che vive in Toscana, che a sua volta l’ha ricevuto in dono da un amico che lavora nei servizi segreti. Quello che stai vedendo deve restare fra te e me, nessuno ne deve venire a conoscenza. L’oggetto non è in vendita perché prezioso, unico e segreto. Te lo mostro perché sei un amico.»
Il giovane inconsapevole acquirente sgranò gli occhi e guardò quella vecchia antenna a telescopio come fosse il santo Graal. Le parole del Garuffa lo avevano impressionato e coinvolto: sentiva crescere il desiderio di averequell’oggetto proveniente da un altro sistema solare. Provò un’azione di convincimento nei confronti dell’apparentemente poco disponibile compagno: «Capisco che tu tenga in modo particolare alla tua antenna UFO, però se tu un domani dovessi venderla ti potrei fare una buona offerta.»
Garuffa si mostrò pensieroso, si grattò la testa, infilò l’indice nel naso, guardò dritto negli occhi l’amico e, lentamente, pesando le parole per mostrare il suo attaccamento all’antenna spaziale, sferrò l’attacco finale: «Certo, se un domani dovessi venderla… Ma oggi ci tengo troppo per potermene privare.» Si voltò e finse di andarsene, aspettando che le parole producessero il loro effetto ‘marketing’. Si rivoltò con posata lentezza, guardò la povera vittima negli occhi e lanciò l’esca da perfetto impostore: «Ci tengo, è vero, ma capisco anche che tu possa desiderarla. Finora non mi aveva neppure sfiorato l’idea di privarmene, ma per un amico come te… beh, potrei fare un’eccezione.»
Il piccione cadde nella trappola tesa da quel volpone con incredibile abilità. Si sentì autorizzato a proporre un’offerta d’acquisto, certo di fare un grande affare. «Potrei darti 50 euro per superare il tuo attaccamento all’oggetto.»
Garuffa vacillò immediatamente di fronte a quell’offerta per lui stratosferica e fece due passi all’indietro come fosse stato colpito da un uppercut di rara potenza. La mossa venne interpretata come un rifiuto e il compratore giocò l’ultima disperata carta prima che andasse via con la tanto bramata antenna stellare. «Posso aggiungere ai 50 euro il pallone di cuoio che ho ricevuto per il mio compleanno.»
Garuffa stavolta non esitò. Consegnò l’antenna al compagno prima che cambiasse idea, non senza chiudere l’operazione con un tocco di classe: «Mi raccomando il silenzio con tutti, è un pezzo che vorrebbero anche i servizi segreti.»
La cosa si seppe solo quando il compratore transitò alla scuola media e Garuffa non riuscì a tenere solo per sé quel capolavoro di compravendita. Ottenne da tutti un’ammirazione inusitata per quell’operazione, che passò alla storia come ‘operazione balla spaziale’, per l’argomento e per l’esagerazione delle argomentazioni usate.
Se ne parlava sempre come episodio didascalico del giusto operare per porre solide basi a una vita prosperosa ed economicamente solida.Mio padre aveva per la sua capacità commerciale una vera e propria ammirazione. «Seguilo e impara le sue tecniche di vendita: un domani potranno esserti utili.»Gli voglio bene, m’insegna molte cose, mi sembra un uomo.
Vanità
Dicembre5, lunedì
Ieri andai a far la passeggiata per il viale di Rivoli conStirato e suo padre.Passando per via Donna Grassa, vedemmoBastardi, quello chenon parla mai se non vi è costretto con la forza, e spesso reagiva con calci e pugni contro le persone troppo insistenti, fermo impalato davanti a una vetrinadiun armaiolo, cogli occhi fissi sopra una carta geografica che indicava i luoghi più adatti alla caccia grossa e le possibilità di partecipare a spedizioni modello safari, con gente armata fino ai denti alla ricerca di emozioni forti; e chi sa da quanto tempo era là, perchélui amava l’avventura, ma adorava, letteralmente, la possibilità di gestire un’arma altamente tecnologica che ti faceva sentire un dio, quando premevi il grilletto e potevicosì resettare una vita.Per questo era solito andare sulle Alpi piemontesi a caccia di cervi, ovviamente di frodo, con uno zio della Val di Susa che rivendeva gli animali uccisi al cuoco del vagone ristorante del treno ad alta velocità Torino-Lione. L’arma preferita, per la precisione e la capacità distruttiva, era il fucile Beretta 7981 a pompa con un mirino telescopicoSchmidt-Cassegrain catadiottrico di 279 mm di diametro con focale di 2800 mmm e un peso di circa 29 chilogrammi, che veniva fornito di carrello per il trasporto, a spinta autonoma fornita da un inesauribile motore all’uranio arricchito; l’aberrazione angolare era corretta con la configurazione ottica Ritchey-Chrétien, capace di diminuire notevolmente gli effetti dell’aberrazione per gli oggetti fuori asse.Un’elegante valigetta in cuoio, con accessori per la manutenzione, completava la dotazione del modello 7981 e comprendeva, fra gli innumerevoli attrezzi, un bazooka di ultima generazione per stermini di massa: un RPG-22 di 80 mm con capacità di forare l’armatura di un tank di 400 mm da circa 300 metri.
Il suo eroe era inevitabilmente Rambo 1, 2, 3, 4, 5; la sua stanza esibiva una tappezzeria di Sylvester Stallone armato fino ai denti che sterminava con un allegro ‘fuoco’ di sbarramento interi reggimenti di nemici, tassativamente di colore (Il diverso in fondo merita di sparire!).
Era talmente preso dalle sue fantasticherie ispirate alla caccia che ci rese a mala pena il saluto, quel rusticone.
Stirato era vestito bene, anche troppo: i suoi piedi erano fasciati da due morbidi mocassini Prada in pelle di coccodrillo dell’Orinoco (Crocodylusintermedius), specie a grande rischio di estinzione, sfoggiava uno splendido, e naturalmente costosissimo, abito di Alexander Amosu(circa 88000 euro), con qualche diamante sparso qua e là. Sul capo l’inavvicinabile cappello ‘The Hat’ tessuto dal grande SimònEspinalper la Panama Hat Company of the Pacific, (fra i suoi clienti poteva annoverare il fior fiore dello star system di Hollywood, come Harrison Ford, Anthony Hopkins e Arnold Schwarzenegger) e venduto per 100.000 $. Al polso un Vacheron Constantin OverseasCronografo Calendario Perpetuo,in oro rosa 18K e37 rubini.E si pavoneggiava. Ma la sua vanità, era l’esplosione del lusso allo stato puro,doveva capitar male questa volta.
Camminavamo allegri saltellando come bambini spensierati finché quel vanesio di Stirato non vide un bambino seduto su una panchina e cercò di ostentare le oscenità che gli rivestivano il corpo. Lentamente si diresse verso il ragazzo che sembrava osservare meditabondo le proprie scarpe e con un incedere con passo quasi chassé girò lentamente intorno alla panchina per risvegliare l’attenzione di quel distrattone che continuava imperterrito a guardarsi i piedi, incurante delle meraviglie da grande sartoria esibite. Sfilava tronfio quasi fosse a un defilé parigino, cercando di sfoggiare passamanerie e stoffe pregiate, figlie privilegiate di un sontuoso conto in banca della sua famiglia.Visti inutili i tentativi di scuotere l’attenzione del bambino, si lanciò con veemenza sulla panchina. Si mise tra me e il ragazzo, sussurrando: «Vediamo se anche adesso riesce a non vedermi, quando potrebbe farlo anche un cieco.»
Lo sconosciuto mosse leggermente il capo e continuò a osservare con estrema attenzione le proprie scarpe, ignorando bellamente le manovre di quell’esibizionista.
Al limite di un esaurimento nervoso diede fiato alle più spericolate vanterie sulle origini di stoffe e accessori. «Guarda questa stoffa di pura seta cinese, tessuta dagli eredi dei sarti dell’ultimo imperatore. E il mio golfino in puro cashmere himalaiano tessuto da straordinari tessitori parigini,che ricopre morbidamente la camicia in crêpe Georgette, non ti pare elegantissimo? Le scarpe, poi, me le fa su misura Adriano Stefanelli, il calzolaio dei potenti. Per non parlare degli accessori, tutti firmati, tutti di classe!»Parlava con un tono sempre più concitato, perché si rendeva conto che tutta la cartucciera di vanterie in libera uscita non suscitava nel vicino nessuna reazione particolare.
Provò con la provocazione plateale: «Purtroppo, caro Enrico, la gente non vuole ammettere, per pura invidia, la superiorità dell’altrui eleganza. Se poi la mettiamo sul piano della disponibilità economica, veniamo travolti da infamità di ogni genere sull’origine corsara delle nostre ricchezze.»
Neppurelo sproloquio torrentizio ebbe l’effetto desiderato: il ragazzo della panchina continuò a guardare la punta delle proprie scarpe. Ogni tentativo di esibire la sua scioccante eleganza cadde nel vuoto e si infranse sulla punta di un paio di scarponcini in pelle nera non particolarmente interessanti. Era frustante sapere di avere l’epidermide ricoperta dai migliori prodotti del made in Italy e verificare che a qualcuno la cosa non interessava minimamente.
Afferròil suo tablet Apple, carrozzato Pininfarina, e me lo mostrò orgoglioso: «Pensa, questo tipo di chassis lo possiede, oltre me, Lapo Elkam e lo sceicco AsaAfar dell’emirato di Arrafar. Sono orgogliosissimo di essere riuscito ad accaparrarmi uno dei dieci tablet con questa scocca del grandeMichicho, lospirit del design contemporaneo. Guarda non è meraviglioso?» E lo fece ruotare da me al ragazzo, cercando conferme.
Quei banali scarponcini continuavano a essere l’unico interesse del ragazzo sulla panchina.«Oh! oh!, esclamò Stirato, pien di rabbia, che superbia!»
Mentre diceva questo, sopraggiunse suo padre, che sentì: guardò un momento fisso quel ragazzo, poi disse bruscamente al figliuolo: «Taci», e chinatosi al suo orecchio soggiunse: «È cieco.»
Stirato balzò in piedi, con un fremito, e guardò il ragazzo nel viso. Aveva le pupille vitree, senza espressione, senza sguardo.
Si sentì sollevato nel constatare che il disinteresse del ragazzo per la sua smisurata eleganza era il frutto di una menomazione visiva. «In fondo», concluse Stirato, «non tutto il male viene per nuocere!»
E si compiacque per la sua saggia osservazione, sotto lo sguardo amorevole e ammirato del padre.
La prima nevicata
Dicembre 10, sabato
Addio passeggiate a Rivoli. Ecco la bella amica dei ragazzi! Ecco la prima neve! Veniva giù a fiocchi fitti e larghi come fiori di gelsomino. Era un piacere quella mattina alla scuola vederla venire contro le vetrate e ammontarsi sui davanzali; anche il maestro guardava e si fregava le mani, e tutti eran contenti pensando a fare alle palle, e al ghiaccio che sarebbe venuto dopo, e al focolino di casa.
Solo Bastardipareva non essere interessato alle conseguenze di quella prima nevicata. La sua mente correva sui monti e percorreva ogni sentiero conosciuto alla ricerca di possibili obiettivi di caccia. Qualcuno gli aveva parlato di lupi che stavano ripopolando le Prealpi, e qualcun altro gli aveva raccontato di avere visto nelle vallate più lontane perfino un orso bruno. La neve imbiancava le strade avvolgendo cose e passanti in un biancore ovattato, mentre la sua mente seguiva le orme del feroce plantigrado sperando di riuscire a usare la sua armeria da caccia grossa. Nessuno avrebbe indovinato i suoi pensieri e chiunque avrebbe scommesso sul suo grande desiderio di apprendere, tutto assorto nella lezione, coi pugni stretti alle tempie.
Gli altri alunni erano soltanto felici per quella prima neve e non andavano al di là di semplici gridolini di gioia, che trasformavano in fuochi pirotecnici quei morbidi fiocchi bianchi che lentamente ricoprivano le strade. Che bellezza, che festa fu all’uscita!Tutti si precipitarono fuori dalla scuola schiamazzando in modo poco ‘scolastico’, ciascuno liberando ilbirbante nascosto in sé. Le menti di quei discoli lavoravano rapidamente nel progettare scherzi da realizzare nel breve e nel lungo termine. I meno fantasiosi si limitarono a organizzare l’artiglieria pesante, confezionando palle compresse da lanciare su qualunque cosa si muovesse: umano o animale che fosse. Altri, più creativi, riuscirono a mettere su un caravanserraglio niente male. Fra tutti meritarono una menzione al merito Cilindri, il figlio del meccanico, l’ancórastampellato Tony Sbrindellato, quell’incosciente eroe che aveva salvato Francesco Beverino dall’impatto con la Yamaha FIAT YZR-M1, Vurazzu u russu, sempre spalleggiato dal simpatico Sgarrone con il quale faceva ormai sodalizio.
Gli ultimi utilizzarono una vecchia fontana di ghisa ricoverata nella cantina della scuola, frequentata ormai solo da topi e scarafaggi, per creare la struttura portante di un maestoso pupazzo di neve da sistemare al centro della carreggiata, sperando che qualche auto tentasse l’abbattimento del bianco fantoccio, andando a sbattere violentemente sull’anima metallica. Sai il divertimento!
Tony Sbrindellato sfruttò sfacciatamente la sua menomazione per colpire chiunque transitasse dalle sue parti. I passanti, non ritenendolo un pericolo per via delle stampelle efidando nell’impossibilità di quel povero invalido di creare nocumento a chicchessia,venivano colpiti con precisione e cattiveria con le palle di neve ghiacciata compressa intorno a piccoli sassolini prelevati nell’armadietto dei campioni minerali, amore e orgoglio del maestro Percattivi.
Cilindri aveva raggiunto vere punte di genialità, cospargendo l’asfalto con chiodi a tre punte che si mimetizzavano rapidamente con i fiocchi di neve e colpivano, con spirito democratico ed egualitario, le auto di tutti quelli che transitavano davanti alla scuola. Ovviamente il birbone riusciva, anche in quest’occasione di gioia e letizia, a unire l’utile al dilettevole. Le autovetture con le ruote ferite erano costrette ad arrestarsi e il giovane Cilindri tentava una prima rapida spoliazione di parti in movimento come copriruota o tappini, e si rendeva disponibile a contattare il meccanico più vicino per sistemare rapidamente il guaio. Il meccanico più vicino, manco a dirlo, era il padre, che, conoscendo il figlio, ai primi fiocchi di neve si era organizzato per la bisogna. Riuscì anche a peggiorare la situazione infilando palle di neve compressa in alcune marmitte di scarico, capaci di bloccare qualsiasi motore. E non finì lì il lavorìo del piccolo meccanico: negli attimi di distrazione e quando la nevicata si fece più intensa, con fare disinvolto riuscì a spezzare qualche tergicristallo delle automobili più costose; a un suv Bentley EXP 9 con un motore 6000 e 12 cilindri biturbo asportò l’antenna satellitare e dal bagagliaio estrasse, in men che non si dica, due contenitori con l’attrezzatura per il picnic. Il padre benedisse l’arrivo della neve e quel geniaccio del figliuolo che tanto bene veniva su, applicando gli insegnamenti paterni e inserendo varianti frutto della sua ancora acerba fantasia.
Anche le maestreuscivan dalla scuola di corsa, ridendo. Sapevano che quella nevicata era una benedizione: di sicuro avrebbero usufruito di qualche giorno di vacanza extra. E se la bassa pressione avesse dato una mano, si poteva sperare in una chiusura delle scuole che avrebbe consentito una sosta delle lezioni anche consistente. «Perché porre limiti alla Provvidenza?», disse, fra le risate complici delle colleghe, l’insegnante di matematica Cifra Quadrata.
E intanto centinaia di ragazze della sezione vicina passavano strillando e galoppando su quel tappeto candido, e i maestri e i bidelli e la guardia gridavano: “A casa! A casa!” ingoiando fiocchi di neve e imbiancandosi i baffi e la barba. Ma anch’essi ridevano di quella baldoria di scolari che festeggiavan l’inverno…
«Voi festeggiate l’inverno… Ma non vi rendete conto di quanto possa essere produttiva, in termini puramente economici, una bella nevicata. Conosco un marchese decaduto che è riuscito a costruirsi una solida posizione finanziaria durante una copiosa nevicata, mettendo su una onlus per aiutare i lupi dell’Appennino abruzzese. O quell’onorevole del Partito Assolutista che riuscì a far inserire nella legge di bilancio dello Stato una tassa di 1 centesimo per ogni biglietto d’ingresso nei teatri, nei cinema, nei musei e nelle discoteche, e in ogni altro luogo culturale o di spettacolo. L’esiguità della somma, e lì stava l’astuzia, non suscitò alcun sospetto nei parlamentari e nei cittadini. La tassa finiva sul conto della società benefica ‘Admaiora’,di cui, evidentemente, l’unico beneficiario era l’onorevole Lasagna Emiliano che l’aveva istituita.
Ci sono migliaia di persone che hanno difficoltà a riscaldarsi e qualcuno li deve pur rifornire. È un business da leccarsi le dita, e chi ha senso degli affari non può chiamarsi fuori. Non parliamo poi della necessità di pulire tetti, vialetti e strade cittadine. In questo ultimo caso è necessario, anzi obbligatorio, un solido ammanigliamento politico che garantisca l’appalto della pulizia al massimo rialzo, senza gara d’appalto, eliminando fraudolentemente ogni concorrenza.
La neve è un dono di Dio e l’uomo intelligente non deve voltare le spalle alla Provvidenza, ma assecondarla per non deluderla. Sappi, figlio mio, che la fortuna bacia solo chi la sa riconoscere; e non aiuta gli audaci, ma quelli che la sanno riconoscere e sfruttare.
Voi festeggiate l’inverno, ragazzi,senza cogliere tutte le opportunità che esso vi offre, scialacquando ghiotte occasioni. Anche se domani è un altro giorno, è dall’oggi che si pongono le basi per un futuro migliore.
Tuo Padre»
Il muratorino
Dicembre 11, domenica
Nel banco davanti al mio c’era un ragazzo che chiamavano ilPapaverino, perché suo padre pare fosse stato condannato perché sul terrazzo coltivava, con molta nonchalance, il papavero dell’oppio e la cannabis; un visetto tondo come una mela col suo naso a pallottola: egli aveva un’abilità particolare, sapeva far sparire monete e oggetti di valore che i compagni mettevano a disposizione per i suoi spettacolari giochi di prestigio, e tutti ridevano; la cosa divertiva un po’ meno i compagni quando i giochini funzionavano a metà: le monete sparivano, ma il prestigiatore non riusciva a farle riapparire (si sa: ci vuole tempo e impegno per diventare bravi; ma quei discoli non avevano la pazienza di aspettare e lo pestavano finché le monete, come per incanto, non si ri-materializzavano); portava un piccolo cappello a cencio che tieneappallottolato in tasca come un fazzoletto, dentro il quale nasconde il frutto delle sue magie.
Papaverinoè venuto oggi, in cacciatora, tutto vestito di roba smessa di suo padre, ricoperta di una strana polvere bianca. Lo faceva per sembrare più grande della sua età e per darsi un tono da persona vissuta. Ma quella cacciatora dall’aspetto dimesso era anche uno straordinario luogo per occultare il frutto delle sue mariolesche magie, sempre finalizzate a sfidare la fondamentale legge di Lavoisier: ‘nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma’. Si trattava di una semplificazione della legge di conservazione della massa, ma rendeva l’idea di ciò che riusciva a fare il nostro Papaverino: tutto spariva e, spesso, nulla tornava, alla faccia del buon Lavoisier. Come abbiamo visto con i compagni la cosa non sempre funzionava e il ‘mago’ doveva ridare ai proprietari il maltolto, rischiando di essere trasformato in un punching ball.
Mio padre, che aveva sempre avuto un debole per i mascalzoni, lo desiderava anche più di me che venisse. Come ci fece piacere! Appena entrato, si levò il cappello a cencio ch’era tutto bagnato di neve, e lofece scomparire in una delle tante tasche della sua vistosa ed enorme cacciatora. Non ci provò minimamente a tentare il giochino della scomparsa degli oggetti e tralasciò le sue arti di prestidigitatore, ben sapendo che non s’imbrogliava dove la papocchiaera di casa. Però il ragazzo, spirito vivace e intelligente, percorse con sguardo prima fugace poi sempre più interessato mobili e suppellettili che arredavano il salone. Studiare i luoghi era in fondo un modo efficace e produttivo per portarsi avanti con il lavoro, e magari (perché no?) portarsi a casa qualche ricordino senza l’autorizzazione dei padroni di casa. A mente fredda escluse quella possibilità (si trattava di persone amiche alle quali voleva bene), ma l’abitudine a finalizzare economicamente ogni visita in casa altrui era difficile da soffocare. Papaverino sapeva anche distrarre l’attenzione altrui con un vario e attoriale bagaglio d’imitazioni. Sapeva imitare con superba bravura le movenze della lepre e tutti si sentivano coinvolti nell’interpretazione degna di Marcel Marceau. È impossibile trattenersi dal ridere a vedergli fare il muso di lepre. Giocammo a lungo a Cluedo e Papaverino riusciva sempre a intuire con fantastica rapidità il nome dell’assassino e spigava con dovizia di particolari come si erano svolti i fatti. Non meno efficace fu il risultato con i giochi per PC come True Crime Streets of LA, Urban Chaos e Spy Game: era un vero talento naturale.
Durante il gioco riuscì anche a bignamizzare la storia della sua famiglia. Suo padre lavorava nel campo dell’edilizia, sfruttando in modo ignobile un diploma di geometra conseguito nelle scuole serali: qualcuno sosteneva che avesse pagato il titolo di studio con i soldi della liquidazione del padre impiegato di banca e che per fare carriera si era iscritto alla balconata Apostolato 4 dell’Estremo Oriente di rito pompeiano. Circolava voce che offrisse i suoi servigi a ditte senza scrupoli impegnate nella costruzione di ponti, strade, gallerie, e ogni altra opera che potesse garantire proventi a chi progettava e a chi costruiva, o ricostruiva in seguito a devastanti calamità naturali (terremoti, alluvioni, frane e smottamenti, trombe d’aria, nubifragi). Partecipava, per poi ricostruire con grandi margini di guadagno, al completamento dei disastri in conseguenza di qualche pioggia troppo vivace: dopo aver evacuato la zona colpita, si completava l’opera con qualche colpo ben assestato di ruspa. «Quando la natura lascia le cose a metà, è necessario darle una mano», soleva ripetere il padre di Papaverino.La balconata A4 (secondo la smorfia napoletana ‘o Puorco) svolse il suo innegabile ruolo di pressione, non sempre pacifico e silenzioso. È vivo nella memoria collettivail rifiuto della ditta Sbronzoni di Cabernet d’Adda di avvalersi per la costruzione di un ponte del supporto professionale dello studio del geometra Papaverino e delle strane cose accadute immediatamente dopo. Mai si seppe come mai tre caterpillar, due escavatrici e sei camion per il movimento terra vennero distrutti da un poco chiaro processo di autocombustione. Un tecnico della scientifica dichiarò a verbale che non erano da escludere interventi soprannaturali o alieni, vista la particolarità del fenomeno. Si fece riferimento ai processi di autocombustione di Canneto di Caronia in Sicilia, e il riferimento regionale non tranquillizzò i proprietari della ditta Sbronzoni. Il fenomeno si ripeté finché non si concesse allo studio Papaverino di entrare nell’affare ponte. Fu certamente una semplice coincidenza, ma da quel momento in poi nessun cantiere stradale della regione iniziò un’opera senza coinvolgere il padre del ragazzo, ormai considerato un vero e proprio portafortuna.
Alle quattro si fece merenda insieme con pane eNutella, seduti sul sofà, e quando ci alzammo, non so perché, mio padre non volle che ripulissi la spalliera che il mio amicoaveva macchiata di bianco con la sua giacchetta: mi trattenne la mano e ripulì poi lui, di nascosto.
«Lo sai, figliuolo, perché non volli che ripulissi il sofà? Perché ripulirlo, mentre
il tuo compagno vedeva, era quasi un fargli rimproveroper avere intrapreso la carriera paterna. Egli prima di venire da noi ha sicuramente visitato uno dei cantieri gestiti dal padre, per controllare gli operai. Come si dice: l’occhio del padrone ingrassa l’operaio. Forse ricordo male, ma, credo, renda l’idea.
Il lavoro non insudicia. Non dir mai di chi si occupa di operai e di difesa della propria rendita: ‘È sporco. Devi dire: ha sui panni i segni, le tracce del suo lavoro’. Ricordatene. E vogli bene a Papaverino, prima perché è tuo compagno, poi perché è figliuolo d’un cavaliere del lavoro, ça va sans dire, degli altri.
Tuo Padre»
Una palla di neve
Dicembre16, venerdì
E sempre nevica, nevica. Seguì un brutto casocon la neve, all’uscir dalla scuola. Un branco di ragazzi, appena sboccati sul Corso, si misero a tirar palle, con quella neve acquosa, che fa le palle sode e pesanti come pietre. Molta gente passava sul marciapiedi.Era, per quei monelli, come un baraccone del luna park. Sullo sfondo sagome colorate in movimento da abbattere con il lancio frenetico di palle, che si fece più frenetico con l’aumentare dei tiratori, torme di monelli unitisi alla compagnia dei primi lanciatori. I passanti scappavano in tutte le direzioni sotto il bombardamento messo in campo da quella ciurmaglia incattivita. Le palle, rigorosamente artigianali per la materia che le componeva, avevano consistenza e colore diverso, a seconda della fantasia dei frombolieri: si andava dalla compressione esagerata, tale da renderle simili al ghiaccio, all’inserimento di gocce di tempera dei colori più svariati per dipingere cappotti e impermeabili secondo i dettami più sfrenati dell’astrattismo, da agglomerati casuali di immondizia tenuta insieme dalla neve ghiacciata a palle prodotto di autentiche sfide chimiche dagli effetti urticanti.
Le urla dei passanti richiamarono ben presto i tutori dell’ordine che assaggiarono gli ultimi proiettili prima che quei frombolieri si rendessero conto dell’identità degli ultimi arrivati e liberassero il campo di gran carriera. Una dignitosa ritirata è sempre meglio di una ignominiosa sconfitta. Purtroppo le cose non vanno sempre nel modo previsto e ogni battaglia ha le sue vittime. Garuffa, nell’entusiasmo che muove gli eroi e nella foga della lotta, non si era accorto della fuga dei compagni all’arrivo dei vigili, e venne rapidamente circondato e preso. Lo trascinarono all’interno di una pizzeria dove si erano rifugiati i passanti per evitare la pioggia ghiacciata e colorata. La folla inferocita fece corona minacciosa a quell’energumeno, mostrando in modo evidente il desiderio di sfogare su quel teppistello la rabbia accumulata durante la pioggia di palle di neve. Avanzavano truci nel volto e la cosa sembrava volgere al peggio per Garuffa. Il vociare disordinato e crescente venne interrotto dall’intervento del comandante dei vigili: «Signori, siete impazziti? Possibile che non vi rendiate conto che si tratta solo di un ragazzino? È giusto che riceva la giusta punizione, ma adeguata alla sua età e alla presenza dei suoi genitori, che verranno convocati in caserma dove porteremo questo bel tomo.»
«Speriamo che abbia la punizione che merita, e che sia di esempio a tutti quelli che sono riusciti a svignarsela!», gridò una vecchietta, accompagnando l’invettiva con il roteare di una borsetta nera con rinforzi in ottone, che stava per fare più vittime della gragnola di palle.
«In altri tempi la cosa si sarebbe già risolta con una sonora raffica di ceffoni!», sottolineò amareggiato un travet in capotto scuro e borsalino abbinato, intrisi all’inverosimile di acqua.
«Signor comandante», rimarcò una signora bionda e rotondetta con qualche pretesa di antica beltà, e i cui abiti sembravano figli di un divertissement picassiano, «vorrei sapere chi dovrà pagare il conto della lavasecco. Perché passi la monelleria del lancio pericoloso di veri e propri proiettili, ma i danni materiali devono essere messi in conto ai genitori di questo teppista e di quanti altri riuscirete a individuare!»
«Già», gridarono altri in coro, «chi ci risarcirà dei danni!»
«Calma, calma!», rabbonì il comandante. «Troveremo la soluzione adatta che compensi tutti voi del danno subito e dia al discolo una lezione che non dimentichi per un pezzo.»
Le ultime parole furono interrotte dal cigolio della porta che si apriva e permetteva l’ingresso di un signore alto e prestante, con l’abbigliamento indicativo della professione svolta: era il dirigente scolastico Guido La Baracca, seguito da una decina di monelli frequentanti la sua scuola. Li aveva bloccati mentre fuggivano dopo l’imboscata nevosa e li aveva convinti ad assumersi le proprie responsabilità. Si seppe più tardi che il processo di conversione di quelle birbe fu travagliato e penoso (per orecchi allungati a dismisura da mani trasformate in artigli e sottolineature manesche). La piccola folla presente, dopo un primo momento di ovvia perplessità, si slanciò come un sol uomo contro quei reprobi. Qualcuno pregustava la possibilità di affondare qualche sonoro ceffone sulle loro nuche, ma fu arrestato da un perentorio “Fermi!” del dirigente La Baracca, e, per dare visibilità alla sua intimazione, si frappose fra i bambini e la folla minacciosa, e vogliosa di menare le mani.Con il piglio figlio dell’autorità argomentò: «I genitori di questi signorini sono stati avvertiti e si uniranno alla compagnia al più presto. Sottoporremo loro le vostre richieste di risarcimento e potremmo discutere insieme su quale potrebbe essere la punizione adeguate per il danno arrecato. Lo dico a voi e poi presenterò ai genitori quella che mi sembra, a braccio, la soluzione più conveniente per tutti: affidare a me, che rappresento l’istituzione, il compito di gestire l’operazione rieducazione, che è propria della scuola, e di chi in essa lavora e opera. Non pensiate che questa proposta nasconda una sorta di assoluzione affidata a processi didattico/pedagogici permissivi, che tanto danno stanno causando al processo di apprendimento. Vi posso garantire che la Scuola sa punire i colpevoli in modo efficace, lasciando nelle deboli menti degli educandi tracce indelebili, capaci di dissuaderli da future e sventate cattive azioni.»
«Ma allora c’è ancora qualcuno che crede ancora nella sempre efficace pedagogia dello scappellotto?», chiese speranzoso il proprietario della pizzeria, fervido sostenitore del Movimento Scappellottista Giorno Per Giorno, fondato nel lontano 1950 dal duca Nerone di Marcinelle, dopo una visione nella birreria dell’angiporto di Manchester al termine dell’esaltante partita fra i locali e i madrilisti.
«Lei esagera un pochino nei processi correttivi monsù Impanato. Talvolta anche io desidererei rifilare qualche pedalata a quei monelli, ma ci sono le leggi da rispettare; e non è da trascurare la possibilità che i genitori delle pesti possano chiedere risarcimenti per le violenze materiali.», rispose con competenza il dirigente scolastico.
«Se non possiamo impartire una severa lezione ai colpevoli», argomentò rassegnata una signora con il cappotto arcobaleno, che non stonava tra pizze, focacce e arancini, «che cosa possiamo fare nell’attesa dei genitori di coloro che hanno generato queste meraviglie sui nostri abiti?»
Il pizzaiolo colse la palla al balzo e propose (La pubblicità è pur sempre l’anima del commercio, come sosteneva argutamente Henry Ford): «Qui facciamo le migliori pizze della città, e se volete, visto che il forno è caldo, in pochi minuti potete essere serviti tutti.»
«Vista l’ora e viste le difficoltà del traffico con la neve, potremmo essere costretti ad aspettare forse a lungo. La proposta di una pizza blocca fame non mi sembra un’idea malvagia. Ma sì, signor Impanato, dia fuoco alle polveri mentre io raccolgo le ordinazioni. Una buona pizza può anche servire a rasserenare gli animi.», disse il maresciallo Manganelli, ben felice di stemperare una tensione eccessiva per una banale monelleria. Anche lui era stato bambino e, qualche volta, non era stato irreprensibile, pensò.
Una frenesia godereccia s’impadronì dei presenti che pressarono il tutore dell’ordine con una varietà di richieste incredibili.
Dalla porta dietro il bancone fece la sua comparsa la signora Impanato con tovaglie, tovaglioli (rigorosamente di carta) e posate. Allegramente la compagnia prese posto, mentre i bambini guardavano perplessi gli adulti che chiassosamente e in totale disordine si organizzavano intorno ai tavoli. Nel giro di un quarto d’ora le prime pizze arrivarono sui tavoli e tutti si buttarono a capofitto sul piatto, brandendo coltello e forchetta come armi improprie.
Il pizzaiolo, visto l’imprevisto guadagno, con gesto di grande generosità, offrì ai ragazzi delle pizze da spartire fra di loro, con l’assenso, prima titubante poi convinto, degli adulti. Il dirigente scolastico plaudì all’iniziativa, certo che la parte lesa, come avrebbe detto il maestro/avvocato Massimo Della Pena, si stava orientando per una delega alla scuola del processo punitivo.
I genitori arrivaronoalla spicciolata, preoccupati e agitati, e impiegarono alcuni minuti per capire che cosa fosse successo, fra il vociare generale in cui ciascuno cercava di comunicare la propria versione dei fatti. Nel frattempo le pizze avevano stemperato l’arrabbiatura, portando, tra un “in fondo anche io da piccolo” e un “la colpa, purtroppo, è della televisione troppo violenta”, di chi voleva dare alla sua constatazione un tocco d’intellettualità, a una pacifica constatazione dei danni: i genitori s’impegnarono a rifondere i danni causati dalla propria figliolanza. Alla fine del rapido pasto, si salutarono dopo essersi scambiati nomi e indirizzi, augurandosi di ritrovarsi in una situazione più felice e lasciando volentieri alla scuola l’ingrato compito della punizione.
Il più contento fu certamente il pizzaiolo Impanato e la di lui consorte che si prodigarono come mai per allietare quell’improvvisata clientela, sperando di rivederla in altre occasioni ancora. Fu distribuito materiale pubblicitario (calendari, dépliant, biglietti da visita, agendine) in grado di raggiungere l’intera comunità che ruotava intorno alla scuola.
Il dirigente scolastico, felice dell’autorizzazione collettiva, costrinse i rei a denunciare gli altri partecipanti, “quella turba di sagittari e lanciatori” (citando, per schiacciare sotto il peso della cultura i ‘suoi’ insegnanti, Torquato Tasso, durante il Collegio dei docenti convocato all’uopo). Ottenuti i nomi, li riunì nel cortile interno della scuola e organizzò delle pratiche ed efficaci punizioni: ripulire dalla neve i camminamenti davanti alla scuola e il cortile interno, trasportare gli attrezzi ginnici dalle cantine alla palestra, riordinare la biblioteca e la videoteca, lavare e sterilizzare le provette e gli alambicchi, e gli altri strumenti da laboratorio in disuso dall’anno precedente quando, in un’incursione notturna, dei vandali avevano provato a realizzare il sogno degli alchimisti rinascimentali, mescolando colle viniliche, tempere, merendine, terra di misteriosa origine e altro materiale poco riconoscibile ma facilmente intuibile. La fatica maggiore, e il senso di schifo conseguente, i giovani virgulti la provarono quando arrivò il turno dell’essiccatore dentro il quale gli strati di materiale diverso avevano creato una patina rimovibile solo con raschiatoi e molta, molta energia muscolare. Fu Garuffa a ricordare agli altri quanto avevano saputo da alcuni dei partecipanti al raid notturno: quella terra marrone incrostata nell’essiccatore era il frutto di un precedente processo chimico all’interno dei corpi dei cani del quartiere.
Non ero fra i puniti, ma seppi tutto da Sgarrone. Mio padre conobbe la storia dal pizzaiolo, che diede il suo meglio nell’essere megafono di quell’avvenimento che aveva dato una svolta alla sua attività commerciale, e non lesinò consigli e suggerimenti:«Caro Enrico, spero che quanto è successo ai tuoi compagni ti sia servito da lezione: mai fidarsi dell’omertà di gruppi troppo numerosi. È facile trovare un anello debole quando si è in tanti, e questo potrebbe portare alla rovina del gruppo. Pochi ma buoni è il vecchio adagio, e funziona sempre. Meno persone sono a conoscenza dei tuoi segreti, meglio sono difesi dall’altrui curiosità. Lo imparai a mie spese da giovane, e dalla volta ho sempre scelto con cura amicizie e conoscenze.Sappi sempre trovare la soluzione giusta per evitare di pagare di persona per colpe di gruppo, ma evita accuratamente d’infilarti in imprese in cui il rischio potrebbe essere eccessivo.»
Le maestre
Dicembre 17, sabato
Garuffa stava tutto pauroso ad aspettare una grande risciacquata del maestro; ma il maestro non era comparso, e poiché, a causa dei tagli feroci dei governi di centro-sinistra-destra verticale, sinistra-destra-centro orizzontale, destra sdraiata-centro, centro-sinistra opinabile, non si potevano nominare supplenti, era venuta a far scuola la signora Epifania Ragnatela, la più attempata delle maestre, cheavevadue figliuoli grandi e aveva insegnato a leggere e a scrivere a parecchie signore che accompagnavano i loro ragazzinel plesso San Gria de Jerez de la Frontera in via China Etilica.
Il suo ingresso fu salutato con chiasso in crescendo rossiniano, strilli di gioia incontenibili, ammiccamenti allusivi alla veneranda età della maestra e al leggero tremolio delle mani e della testa spia di un’incipiente parkinson. Quei diavolacci non avevano cuore e poco gli importava che la maestra fosse triste perché aveva un figliuolo sotto inchiesta da parte della procura della repubblica per certi storni poco chiari dal bilancio della Asl 1717 della SS. Inverecondia. E poi loro, anime candide, che ne potevano sapere di paroloni come concussione, distrazione di fondi, interessi privati in atti pubblici, truffa aggravata, corruzione propria e impropria pubblicati dai giornali. Per capirlo, per avere risposte adeguate avevano scritto quelle parole sulla lavagna, solo ed esclusivamente per capire, e per chiederne, di conseguenza, spiegazione all’insegnante. Era il desiderio di conoscenza che li motivava. (Gli insegnanti spesso si lamentano della scarsa capacità degli alunni di creare le basi per una discussione costruttiva e, quando lo fanno, si scatena l’inferno.)
La maestra, nel vedere quelle parole, fu presa da un tremore convulso, strabuzzò gli occhi e cadde inerte sulla sedia, come fosse stata colpita da un fulmine. Gli strepiti di gioia divennero alte grida d’allarme che richiamarono nell’aula il dirigente, la direttrice amministrativa Ausilia Prodòmo, lo stranamente rapido Posapiano e un po’ d’insegnanti assortiti. Vedere Epifania Ragnatela con il cappellino sugli occhi inerte sulla sedia fu per tutti un duro colpo, perché il pensiero collettivo chiudeva già la bara. Con calma quasi olimpica arrivò anche il dottor Felice Maisano; si fece strada a fatica tra quei curiosi, sentì il polso, appoggiò lo stetoscopio al petto e finalmente sollevò il cappello per vedere gli occhi, che, lentamente, iniziarono una rotazione quasi clownesca dal dirigente alla segretaria, dai colleghi al bidello, quasi stupita di quella folla eccessiva.
Balbettò, la poverina, un sommesso: «Che mi è successo?»
Guido La Baracca ipotizzò: «Un lieve malessere, penso!», e guardò il medico in cerca di conferme.
«Oh, sì, sì! Niente di grave, un semplice malessere.», aggiunse confortante Maisano.
La donna si riprese e ricordò quanto era successo. Indicò la lavagna e commentò: «Quelle piccole carogne hanno scritto… hanno scritto… hanno scritto…»
Gli sguardi dei presenti misero a fuoco quel sunto di accuse che erano nelle prime pagine dei giornali da qualche giorno, e a nessuno sfuggì il nesso fra le parole sulla lavagna e il caso giudiziario che vedeva coinvolto il figlio, dirigente della locale azienda sanitaria.
Quando la direttrice amministrativa Ausilia Prodòmo realizzò il contenuto di quelle parole, senza frappor tempo in mezzo afferrò il cancellino e ripulì quel ‘j’accuse’ bianco su fondo d’ardesia nera, anche perché quelle parole sembravano puntare dritte alla sua gestione della cassa scolastica. Occhio non vede…
Il dirigente smorzò la cosa dando la colpa alla stampa scandalistica che tappezzava le edicole cittadine: «I ragazzi leggono per esercitarsi, inconsapevoli del significato. Probabilmente vogliono solo capire il significato di parole così complesse e lontane dal loro quotidiano.» E sottovoce: «Qualche alunno sarà stato insufflato da qualche genitore trozkista, di quelli che vorrebbero sovvertire l’ordine sociale, incentrato su famiglia, chiesa e patria, come ci hanno insegnato i nostri grandi padri fondatori.» Aumentò il tono della voce per farsi sentire da quelle pesti:«Su, signora Epifania, si faccia forza e non dia peso a queste sciocche provocazioni. Se preferisce, posso sostituirla con il maestro Felice Crudele.»
Un brivido percorse la classe: tutti conoscevano il maestro e la sua geniale cattiveria, incisa come le tavole della legge nella memoria collettiva.
Epifania provò un sadico piacere nell’apprendere che il collega Crudele l’avrebbe sostituita e vendicata; lui poteva farlo senza correre rischi, viste le potenti amicizie che vantava in Vaticano e, di conseguenza, nel governo. La maestra raccattò le sue cose e si diresse verso l’uscita, seguita dal codazzo di colleghi; si voltò e con un lampo luciferino negli occhi salutò la classe: «Peccato che siamo stati così poco insieme, ma sono sicura che il mio collega saprà efficacemente rispondere alle vostre curiosità scolastiche e non.»
Il dirigente, rimasto solo con la classe tremebonda, sorvolò con lo sguardo le teste degli alunni, soffermandosi di tanto in tanto su qualche viso particolarmente spaurito. Nulla fece per smussare la tensione, anzi provò con il movimento del capo a far crescere la preoccupazione per l’arrivo del castigamatti. Colorì le sensazioni con parole adeguate: «Ragazzi, sono certo che quanto avete fatto meriterebbe un trattamento ben diverso da quello che riceverete; ma la scuola è cambiata, e le punizioni devono essere lievi e finalizzate alla ‘promozione’ sociale e culturale. Il maestro Crudele è noto per la sua severità e per qualche comportamento sopra le righe. C’è del leggendario nelle notizie che circolano nell’ambiente scolastico, anche se qualcuno giura che ci sia un fondo di verità. Penso che voi possiate essere il terreno adatto per valutare quanto ci sia di vero. Avrete così un ruolo fondamentale nel disvelamento della verità. Auguri bambini!» E uscì senza più voltarsi.
Gli alunni sentirono i passi di La Baracca affievolirsi e accavallarsi con i passi del maestro Felice Crudele, già preavvertito dalla maestra Ragnatela. Una sorta di dissolvenza incrociata annunciava l’uscita di scena del dirigente, che pilatescamente se ne lavava le mani, e l’approssimarsi del Torquemada didattico, deputato a regolare i conti con la classe.
I passi sempre più marcati divennero tuoni per quelle anime innocenti, fino alla materializzazione sull’uscio di un omone dall’aspetto torvo e sanguigno. La luce del sole proveniente dal finestrone del corridoio, nell’incontrare la sagoma minacciosa del maestro, creava un effetto mistico/mefistofelico che precipitò gli alunni nel terrore. Il tentativo di mimetizzarsi dietro una pila di libri o raggomitolarsi dietro un compagno corpulento servì a ben poco: lo sguardo feroce del maestro penetrò quei poveri fanciulli come una lama, giù giù fin nel più profondo dell’anima. Si sentirono senza difesa di fronte a quelmanipolatore dell’inconscio infantile.
Con incedere volutamente terroristico raggiunse la cattedra sulla quale sistemò la sua borsa nella quale quegli innocenti immaginarono un carnevale di strumenti di tortura.
«Bene, ragazzi, credo che le presentazioni siano inutili, anche perché tutti nella scuola conoscono me e il mio metodo di lavoro. Circolano strane leggende sulla mia severità: si tratta di banali dicerie. Io non ho mai percosso a sangue un alunno, mi vanto di essere ricordato più come amico che come maestro. Godo della stima di colleghi e superiori; i vostri genitori sollecitano la presenza d’insegnanti come me capaci di tenere l’ordine in classe. Ammetto che qualche scappellotto, qua e là, l’ho distribuito, ma solo a fin di bene: un insegnante deve capire quando punire è la soluzione migliore. In fondo, quando si picchia un alunno, fa più male all’educatore che all’educando, come soleva sottolineare il grande e mai abbastanza lodato pedagogista di scuola orientale Erode Pestalossi.‘Punire come amore’ è il mio credo, secondo i dettami mai abbastanza applicati del grande Brutus Skipper, padre fondatore della scuola di psicologia basata sul condizionamento scioccante e istruttore di tavola a vela nelle isole Hawaii, tavola che usava per educare gli alunni più recalcitranti, quando ancora non aveva incontrato il grande Rudolf Stalker che con lui mise a punto la pedagogia delle tre facoltà dell’insegnante: volere il proprio benessere, pensare ai fatti propri, sentire la musica preferita con l’Ipod per non essere costretto ad ascoltare la turba irrequieta degli alunni.Non dovete aver alcun timore, perché io so essere buono come nessun altro e…», fece una pausa intenzionale che sembrò durare un’eternità, «severo come pochi.
I miei genitori vollero addolcire il cognome che mi diedero in dote chiamandomi Felice, e io riesco a essere veramente felice solo se i miei alunni si attengono senza discutere a tre piccole regole: ubbidire senza chiedere perché, lavorare in silenzio e non lamentarsi mai, ricordarsi che il maestro ha sempre ragione soprattutto quando ha torto. Seguitele e vi risparmierete punizioni e umiliazioni.»
Nella classe dellamaestra CromaSpoiler, figlia di un collaudatore della FIAT di chiara origine anglosassone,fu mandata la Delicati, maestra di mio fratello, e al posto della Delicati, quella che chiamavano ‘l’entraîneuse’, perché era sempre vestita dirosso, con un cappello piumato decisamente retrò ereditato da una bisnonna ballerina delle Folies Bergère. Chanel, così chiamata in onore dell’ava parigina, era solita bistrare il viso con colori vivaci e appariscenti, che risaltavano in modo evidente in un volto bianco e minuto. Di sotto il cappellino, sempre abbinato con il colore dell’abito e della borsetta, precipitava una cascata di riccioli biondi sempre freschi di coiffeuse.
E una voceimpostata, che parevasempre checalcasse il palcoscenico (hobby e passione poco riconosciuta dal pubblico incolto), che ammaliava più i padri dei figli. E non si capiva, disse mia madre: il suo aspetto provocante avrebbe potuto invogliare la classe alla disobbedienza, mentre riusciva a tenere saldamente l’ordine e la disciplina. Era una straordinaria affabulatrice, capace di stupire quelle birbe con fantastiche storie di eroi improbabili, ma che tanto sollecitavano la curiosità di quei famelici creatori di mondi virtuali.
Ma ce n’eraun’altra che mi piaceva pure: la maestrina della prima, Scolastica Sapiente, giovanissima, ma già abbondantementerusé e introdotta nei segreti meandri della piaggeria più sfrenata. Portava abiti adeguati alla funzione che le fasciavano il delicato corpicino, rendendolo dolce e delicato come un giglio di campo. Era sempre allegra, teneva la classe allegra, sorrideva sempre, gridava sempre con la sua voce argentina che pareva che cantasse; poi quando uscirono, corse come una bambina dietro all’uno e all’altro, per rimetterli in fila; e a questo tirava su il bavero, a quell’altro abbottonava il cappotto perché non infreddassero, li seguiva fin nella strada perché non s’accapigliassero, supplicava i parenti che non li castigassero a casa, portava delle pastiglie a quei che avevano la tosse, imprestava il suo manicotto a quelli che avevano freddo; interveniva ogniqualvolta si rendeva conto che ciascun alunno manifestava paura o incertezza. Pochi avevano capito l’astuzia della solo in apparenza fragile maestrina: ogni atto, ogni gesto era calcolato per ottenere il compenso massimo. Non c’era un vero e proprio tariffario per le sue gentilezze, ma sapeva convogliare i desiderata in modo astuto e disinvolto: ora lamentando l’assenza di un elettrodomestico, ora commentando ad alta voce, sia in classe, sia nelle riunioni con i genitori, quanto può essere utile alla didattica l’ultimo modello di tablet o il nuovo computer a raffreddamento con elio liquido. Qualche mala lingua ipotizzava una gentilezza costruita ad petendammunusculum; anche se poi ‘il regalino’ poteva valere varie centinaia di euro. Va ricordato, per onore di cronaca, che non disdegnava piccoli regali in natura, come qualche dozzina di carciofi provenienti dalla Sardegna, una cassa di vino Amarone di origine siciliana, una forma di parmigiano reggiano, un prosciutto S. Daniele, ecc. Era la festa del regionalismo, e la diversa origine degli alunni favoriva la varietà dei prodotti da donare. Si scherniva, la poverina, ma accettava, seppur a malincuore quei doni, per non offendere quei gentilissimi genitori che volevano sdebitarsi in qualche modo per le gentilezze e per l’amore che dedicava ai loro piccoli.
In casa di uno dei ‘macchiati’
Dicembre 18, domenica
Era con la maestra con la Testa rossa il nipotino del vecchio impiegato che fu colpitoda una palla di neve abbondantemente impregnata di tutti i colori dell’arcobaleno e che vide il suo cappottotrasformato in un abito da clown, mentre i capelli facevano la concorrenza ai più sfrenati gruppi musicali punk. Del lancio fu accusato, fra gli altri,Garuffa, che già aveva ricevuto una strigliata galattica, come promesso alle vittime, dal dirigente Guido La Baracca; e non si era limitato alle reprimende verbali, anche se il tutto era avvenuto senza testimoni nell’ufficio di direzione. Qualcuno raccontò di lamenti strozzati che avevano superato la pesante porta coibentata dal grande artigiano del sughero Michelino Quercia, che tra i suoi capolavori poteva vantare il rivestimento inappuntabile delle prigioni di Abu Ghraib e Guantanamo, in modo da smorzare ogni rumore. Quella porta antirumore era stata installata per la difesa della privacy, recitava la delibera presidenziale, ma i più sostenevano che fosse una misura di difesa della dignità del dirigente affetto da flatulenza compulsiva che, nei momenti di maggiore effusione, creava seri problemi ai sismografi sistemati nel vicino Istituto di Vulcanologia Tremors.
Io avevo terminato di scrivere il racconto mensile per la settimana successiva, Il piccolo scrivano fiorentino, che il maestro mi diede a copiare; e mio padre mi ha detto: “Andiamo su al quarto piano, a veder come sta quel signore trasformato dalle monellerie dei tuoi compagni in un quadro astratto. Pensa che da 15 giorni non si reca al lavoro perché ha paura degli sfottò dei colleghi. Proviamo a tirargli su il morale perché la moglie ha raccontato alla mamma che si sta deprimendo in modo preoccupante.”
Al nostro arrivo sentimmo un frastuono improvviso provenire da quello che scoprimmo essere il soggiorno, adibito a sala televisiva con mega schermo Extreme da 70 pollici in grado di visualizzare immagini con risoluzione 8mega e impianto Home Theater della Fantino One AX88 da 400 + 50 watt. La musica a livello discoteca tacque improvvisamente e si sentì distintamente un affannato: «Dev’essere il medico fiscale mandato da quello stronzo del mio capoufficio che cerca sempre di crearmi problemi!»
La voce sommessa della moglie lo invitò ad abbassare il tono della voce: «No, tranquillo, ho guardato attraverso lo spioncino: è il dottor Bottino, il dirigente della Banca Spoliazione, che è venuto a farti visita insieme al figlio Enrico. Spegni questa discoteca e mostrati depresso, altrimenti gli altri potrebbero farsi di te un’idea sbagliata.»
Seguì un breve silenzio e dei passi strascicati annunciarono l’arrivo della padrona di casa. La porta si aprì e lo spettacolo non fu dei migliori: una donna con i capelli biondi slavati impiantati su una decadente crescita grigiastra, un viso pallido e smunto, figlio di una schiavizzante vita familiare, che sporgeva timidamente fra quei capelli improbabili, un paio di ciabatte a fiori di lana infeltrita trasportavano un corpo tristemente stanco nascosto da una frivola vestaglia di pile celeste acquistata nel mercatino delle pulci.
Finse piacevole sorpresa: «Oh, signor Bottino, che piacere vederla!»
«Siamo venutia trovare, io ed Enrico, il ragionier Somma.»
«Accomodatevi, prego. Vi faccio strada.Egregio dottor Bottino, lei neppure immagina la sofferenza di mio marito per l’umiliazione subita in quell’assalto insensato da parte di quella folla di piccoli vandali. Passa le giornate a rimpiangere la sua fluente chioma, vittima innocente delle cesoie del barbitonsore. Si deprime ogni giorno di più perché dei suoi capelli andava fiero, sapendo che tutti glieli invidiavano. Pensi, dottore, che aveva partecipato anche al programma televisivo Mastercoiffeur come modello, arrivando in finale con il suo barbiere Massimo Sbarbato. La foto di quella finale la teniamo in salone, fra un magnifico Michelangelo Scannatele da Imbrattale e uno splendido Leonardo da Tavolozza, regalo graditissimo di nozze di uno zio emigrato in America al seguito delle truppe americane dopo la II guerra mondiale. Pensi che i maligni, ovviamente per invidia, hanno raccontato che il nostro parente italo-americano più che le truppe seguisse un certo Don Vincenzo Eterno Riposo, esperto di trasporti di salme. Fatto sta che il regalo ci è stato chiesto dal Jean Paul Getty Museum, ma noi, per evitare complicazioni, abbiamo dichiarato che si tratta di una banale copia. Per evitare insistenze!
Nonostante i due quadri straordinari, la cosa che apprezziamo di più è la foto di mio marito e del suo taglio vincente: l’Andy Warhol con riporto a cascata a sinistra e canalizzazione pilifera a destra, scultoreamente scavata con una sgorbia ritoccata. Oggi possiamo vedere nei campi da calcio estemporanee elaborazioni dell’invenzione di Massimo Sbarbato, sullosviluppo delle quali il mio ciccino ebbe un ruolo non indifferente. Avremo modo e agio per riparlarne in seguito. Spero che la sua visita gli tiri su il morale.
Un’ultima raccomandazione: non parlate di capelli e pettinature, sarebbe devastante.»
La signora Somma ciabattando ci introdusse nella stanza dove il marito soffriva in solitudine per la perdita della sua chioma museale.
Lo spettacolo ci lasciò perplessi. L’uomo era sprofondato in un divano ricoperto di cuscini multicolori e abbracciato da una serie incredibile di terminali sonori, degni di una discoteca riminese; di fronte uno schermo ai grafemi di futura generazione di dimensioni cinematografiche; sul tavolino parente del divano si poteva scorgere, maldestramente nascosto da un tovagliolo multicolore, un vassoio di dolcini misti e i resti di quello che una volta era uno scodinzolante maialino; dietro un cuscino si scorgeva una bottiglia semivuota di barbera.
«Quanto deve avere sofferto ragionier Somma, quanto deve aver sofferto!» E non si capiva se l’affermazione di mio padre voleva essere ironica o la solidarietà fosse autentica.
«Esimio dottor Bottino, che piacere vederla. Prego, si accomodi.» Nel salutare con eccessiva piaggeria si era levato dal suo giaciglio di sofferenza e aveva stretto la mano a mio padre. Allungò la mano in modo suppongo affettuoso: «Questo bel bambino deve essere il suo figliuolo Enrico, quello che frequenta la stessa scuola di mio nipote.»
«Vedo che si sta lentamente riprendendo dal fattaccio.»
«La cosa più difficile da superare è il trauma. Mi segue il medico scolastico Felice Maisano che cerca di tirarmi su con veri e propri cocktail di psicofarmaci. Ma come può vedere senza grandi risultati.»
«Non si abbatta, vedrà che le cose miglioreranno. Il dottor Maisano è un vero luminare. Pensi che lo scorso anno, con un tempestivo intervento, ha estirpato un’unghia incarnita a un leone del circo Orfei, salvando lo spettacolo e ridando il sorriso a centinaia di bambini che ne aspettavano con gioia l’esibizione.»
Il povero ragioniere annuì stancamente e aggiunse: «Però quel ragazzino…»
«Garuffa?», chiesi pur conoscendo la risposta.
«Garuffa, Garuffa! Credo che quel nome non lo dimenticherò mai.»
Proprio in quel punto, suonò il campanello. «È il medico», disse la signora.
La porta s’aprì… E chi vidi? Garuffa col suo bomber bianconero (per via della sua stima e ammirazione per la Juventus), ritto sulla soglia, col capo chino, che non aveva coraggio di entrare.
«Chi è?» domandò il malato.
“È il ragazzo che tirò la palla,” disse mio padre. E il vecchio allora:«Fatelo passare, voglio vederlo in faccia, esprimergli tutto il mio disprezzo per quello che ha fatto.»
Il ragazzo entrò a capo chino, consapevole di avere commesso una marachella. Mai avrebbe pensato di doversi difendere da pesanti accuse.
«Buonasera, ragionier Somma. Sono venuto a scusarmi io per tutti, perché sono convinto che lei ne abbia diritto. È stato uno scherzo andato troppo oltre le intenzioni.»
Chinò nuovamente il capo in attesa della risposta, fiducioso nel perdono.
«Tante scuse e buonasera? Credi che sia sufficiente scusarsi per dimenticare il male fatto? Che cosa c’è in quella tua testolina vuota: segatura? Sono stato offeso nella mia dignità, non vado al lavoro da tempo perché i miei colleghi stenterebbero a riconoscermi per la radicale tosatura ad opera del mio parrucchiere. Dovrò saltare, per colpa tua e dei tuoi amici teppistelli, il concorso ‘Dalla sorgente del Po alla foce’ della Bassissima Badana dal tema ‘Trecce, colore e storia: solo i celti sanno portare il biondo’, su cui facevamo tanto affidamento io e Sbarbato. Doveva essere una fase di avvicinamento alla finale nazionale dei coiffeur di matrice celtico/gallica in quel di Ponte di Legno. Insomma, giovanotto, hai distrutto le aspirazioni di un coiffeur di fama mondiale, privandolo del suo modello migliore. E dovrei perdonarti?»
Il povero Garuffa, pallido e inebetito, non sapeva che rispondere all’ira della sua vittima: aveva sperato nel perdono, come si addice a chi si pente, e si ritrovava sommerso da pesanti accuse che neppure immaginava potessero esistere. «In fondo erano solo palle di neve; e da sempre i bambini sono usi giocare lanciandole sui passanti. Forse si è esagerato inserendo nel ghiaccio compresso i colori indelebili utilizzati nell’officina del padre di Cilindri per ridipingere le auto che poi venivano immesse nel mercato degli emirati arabi.», pensava il giovane lanciatore, cercando di assolversi per quella banale marachella.
«Ma su, ragionier Somma, il ragazzo ha imparato la lezione e le punizioni ricevute, prima a casa e poi a scuola, credo siano state sufficienti. Sia generoso e perdoni.», cercò di mediare mio padre, che nutriva per Garuffa e la sua capacità imprenditoriale un’ammirazione notevole.
«Perdonare? È facile per lei che non ha subito danni.»
Mio padre fece appello al suo ruolo sociale di dirigente bancario e ai favori che in passato avevano permessoal ragioniere l’ottenimento di un mutuo ipotecario per l’acquisto della casa a favore del figlio, che non aveva garanzie sufficienti.
L’uomo non poté opporre alcunché alla richiesta di perdono: «Se me lo chiede lei, dottor Bottino, sono disposto a perdonare. Ma solo per la stima e il rispetto che nutro per la sua persona.»
«Orbene, giovanotto, il signore che tu hai così vilmente offeso ti perdona. Ringrazialo per la sua benevolenza e la sua disponibilità.»
Tutt’a un tratto, cavato di sotto albomberun pacco, lo mise in mano al ragioniere, dicendogli in fretta: «È perlei.», e via come un lampo.
Il rag. Somma, stupito dal gesto, svolse il pacco avvolto in carta da pacchi marrone; tutti guardammo dentro, e non poco fu lostupore. Era una favolosa parrucca appartenuta al famoso gruppo punk bielorusso Гдетуалет? (gdiètualiet?: dov’è il bagno?), comprata con l’inganno in un’asta,dedicata al festival musicale dei popoli celtici, in una fiera che si teneva ogni anno aBuguggiate, nella ricorrenza dell’apparizione del beato Abelardo al Grande capo dall’elmo cornuto.
«Che pensiero carino! In fondo ha pensato a come risolvere il problema della mia capigliatura e si è privato di una parrucca che su EBay ha un certo mercato. Potrei venderla e ricavarne dei bei soldini, ma preferisco tenerla e aspettare che il suo valore cresca.»
Tornati a casa mio padre non perse l’occasione per farmi la solita tiratina moraleggiante: «Caro Enrico, spero che la lezione ti sia stata utile. Devi lasciarti sempre una via d’uscita, e, se è basata sul denaro e sui doni, può permetterti di trarti d’impaccio. La corruzione è la madre di ogni libertà!»
Il piccolo scrivano Fiorentino
Racconto mensile
Faceva la quarta elementare, Fiorentino. Era un grazioso bambino di dodici anni, nero di capelli e bianco di viso, figliuolo maggiore d’uno scrittore (almeno così lui si riteneva) di scarso successo. Aveva pubblicato in gioventù per la Follie Élucubrationemun ponderoso testo sulle difficoltà dei gatti Selkirk Rex Longhair a comunicare con i Nova ScotiaDuckTolling Retriever. I lettori, poco adusi ai testi di psicologia felino/canina, avevano accolto l’opera con disinteresse assoluto, decretandone l’insuccesso editoriale, tanto che alla casa editrice ci vollero cinque anni per riprendersi dal fiasco e riportare le finanze in pareggio. Per sua fortuna l’uomo aveva pubblicato la sua opera con lo pseudonimo di Inconscio Felino e nessuno poté mai risalire al vero autore: Occulto Contraffatto. Aveva trovato lavoro come ghost-writer presso il Mega Presidente del Partito Assoluto Dep(lorevole) Francesco Maria Arraffa, palazzinaro e gestore unico dei media nazionali, proprietario delle forniture idriche delle più grandi città italiane, leader incontrastato del gioco d’azzardo on line, tenutario e cliente accanito di locali equivoci, produttore monopolistico di bibite alla nicotina assuefacente,Gran Maestro della loggia P (profittatori) S (semper), ecc. ecc. Era riuscito a imporre a ogni cittadino italiano il possesso, e quindi l’acquisto, di centraline per la gestione sincopata del flusso dell’energia elettrica nelle case degli italiani che, manco a dirlo, erano prodotte da sue aziende nella valle del Bticino (l’aspetto curioso della fornitura dell’energia sincopata era legato a un alternativo modo di far funzionare elettrodomestici e punti luce: l’apparecchio snodale dirigeva la fornitura verso gli elettrodomestici in modo altalenante, creando un effetto scacchiera spettacolare. Se si accendeva la televisione insieme alla lavatrice o al frigorifero, si verificava un’alternanza random degli elettrodomestici: quando rinfrescava il frigo, si spegneva pensierosa la lavatrice; quando si utilizzava il televisore, poteva capitare di sentire in cucina l’allegro ronzio del frullatore. Era un’invenzione in grado di dare una botta di vita al noioso tran tran quotidiano, o semplicemente una botta all’apparecchio di proprietà del deplorevole Francesco Maria Arraffa). Il parlamento aveva votato all’unanimità la legge sul legittimo intervento del governo e quindi del Mega Presidente Arraffa nella gestione delle banche, sia private, sia pubbliche. E nel decreto una manina furtiva aveva aggiunto che una percentuale degli utili bancari doveva servire per promuovere fra i cittadini una solida coscienza politica. Per questa opera di propaganda furono scelti, come destinatari dei fondi, il Partito Assoluto per il 90 per cento e il Partito Dell’Opposizione Accondiscendente per il restante 10 per cento.
Il padre del piccolo Fiorentino partecipava assiduamente alla stesura delle leggi ad personam che il parlamento votava con ritmi da catena di montaggio. Nonostante il grande impegno nella stesura materiale dei disegni di legge e dei decreti legislativi, la fantasia sfrenata di Francesco Maria Arraffa era senza limiti ed era sempre un passo avanti nel pensare nuove tasse, e nuovi sistemi per spremere la cittadinanza a suo esclusivo vantaggio.
Lo scrittore ‘parlamentare’ lavorava senza sosta e soltanto a notte fonda poteva permettersi qualche ora di riposo, per riprendere l’indomani mattina dopo una frugale e rapida colazione; e poi di corsa verso il Palazzo Ràzzoli, depredato con pochi spiccioli all’ultimo discendente della casata Ràzzoli Tanto Nella Polvere, un semianalfabeta rimbambito per la bisogna da tessere member a grappoli per l’ingresso vip in tutti i locali di Proprietà del Presidente, bevande e consumi vari free, e una partecipazione pilotata al reality ‘Nottambuli sfrenati e sfigati d’alto bordo’.
Il piccolo Fiorentino soffriva nel vedere il padre faticare fino a notte inoltrata per redigere testi di legge, relazioni, interventi pubblici e di partito, lettere di risposta alle richieste di raccomandazione, comunicati per la televisione ‘una e plurima’. Ma gli dispiaceva anche perché questo gran daffare del padre gli toglieva attenzioni e affetti che riteneva gli fossero dovuti in modo prioritario.
Alla madre poco importava che il suo consorte faticasse come un mulo purché non diminuisse il suo tenore di vita, la sua capacità di shopping, le sue serate di beneficienza intorno alla tavola riccamente imbandita dove si parlava dei poveri del terzo mondo, della lotta contro le malattie che sterminavano le popolazioni inermi dell’Africa (tra un cotechino e un’aragosta c’era sempre posto per una lacrima contrita sulla sorte dei bimbi del Maghreb). Era una donna impegnata a tutto tondo e tempo per il figlio ne aveva ben poco. Il piccolo era affidato alle cure di una baby-sitter ucraina, assunta legalmente in nero. Le sue giornate scorrevano noiose e monotone fra la Play station e il televisore, sotto lo sguardo distratto della donna che chattava con loschi figuri in mezzo mondo, accompagnando i messaggi con una crestomazia di parolacce in ucraino e, qua e là, un’infiorettata in un italiano approssimativo, chediventava fertile humus per il cervello permeabile del tenero virgulto,anche se aveva il compito (sia pure pagato in nero) di proteggere dalle cattiverie della vita.La giovane extracomunitaria aveva altresì stretto un patto inscindibile con il dio Bacco, infilandosi quotidianamente in meravigliosi paradisi artificiali dove non c’era spazio che per sé stessi, figurarsi per gli altri. Fiorentino approfittava delle assenze mentali della Irina Nebulosa in preda ai fumi dell’alcol per trasformare la casa in una sala giochi senza controllo; spesso invitava i compagni di classe ad assistere all’indecoroso spettacolo della baby-sitter sbronza che veniva regolarmente filmata e postata su YouTube per condividere con il mondo del web quelle scene degne di Totò e Peppino. In uno dei tanti video Nebulosa, dopo un’abbondante razione di vodka, si esibiva in una danza frenetica sul tavolo che si concludeva con conitnue e rovinose cadute. Fu un successo clamoroso che toccò punte di oltre 1.500.000 di visualizzazioni. I video della baby-sitter sbronza erano diventati un cult della rete e non erano pochi quelli che aspettavano con curiosità le puntate successive. Fiorentino e gli amici con tempo erano diventati degli esperti dei media e riuscivano a creare situazioni tragicomiche guidando la donna in esibizioni al limite della decenza. La rete apprezzò particolarmente il ‘dialogo con il water’ nel bagno trasformato in uno studio televisivo con sottofondo Niagara creato dallo sciacquone in funzione.
Non era l’unico divertimento della piccola peste. Da qualche tempo aveva preso l’abitudine, quando il padre andava a letto, di mettere mano ai suoi documenti, inserendo nelle varie proposte di legge alcune varianti particolarmente assurde. Per esempio nella legge sul controllo della produzione del latte aveva inserito una postilla che sfuggì ai legislatori ma che suonava più o meno così: «Tutti i produttori di cui all’art. 12 della legge 26 del 30 febbraio del 1949 e successive modifiche, devono versare la percentuale del 20 per cento alle casse della Fondazione sulla produzione dei prodotti caseari»; fondazione che, ovviamente, era di proprietà della consorte del Presidente. Passarono nella distrazione generale decine di leggi il cui contenuto risultava vampiresco nei confronti della popolazione e favorevole alle casse di Francesco Maria Arraffa.
Occulto Contraffatto cominciava a denunciare il peso del lavoro: fare il ghostwriter a tempo pieno lo stancava oltre misura, e vedeva sfumare giorno dopo giorno, notte dopo notte, il suo sogno di diventare un grande scrittore, capace di lasciare una traccia nella storia della letteratura.Egli se ne lagnava spesso con la famiglia, a desinare. “I miei occhi se ne vanno”, diceva, “questo lavoro di notte mi finisce.”
Quel giorno, a mezzodì, il padre sedette a tavola di buon umore. Non s’era accorto di nulla. Faceva quel lavoro meccanicamente. Sedette a tavola di buonumore, e battendo una mano sulla spalla al figliuolo: “Eh, Fiorentino”, disse, “è ancora un buon lavoratore tuo padre, che tu credessi! In due ore ho fatto un buon terzo di lavoro più del solito, ieri sera. La mano è ancora lesta, e gli occhi fanno ancora il loro dovere.”
Non dubitava, il buon Occulto, che quelle leggi tanto gradite al Presidente fossero opera sua, mai avrebbe pensato all’intervento furtivo del figlio che continuò divertito a modificare il contenuto di leggi inique per la popolazione e favorevoli al potere. Certo,in conseguenzadell’impegno cinematografico con la baby-sitter e dell’integrazione notturna delle proposte di legge, la resa scolastica del piccolo scolaro non era delle migliori. Un giorno andò a chiedere informazioni al maestro, e il maestro gli disse: “Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più.”
Il padre riprese senza grande convinzione suo figlio e cerco di dare la colpa a Irina Nebulosa la baby-sitter, incapace di seguire il bambino nei momenti di studio. Pensò anche di licenziarla e assumere un’italiana, motivando la cosa con un banale: «Stiamo mettendo il futuro delle giovani generazioni in mano agli extracomunitari. Forse è il caso di emanare qualche legge che regolamenti il flusso di stranieri nella nostra amata patria.»
Il ragazzo, spaventato all’idea di perdere la protagonista del suo giocattolo multimediale, supplicò il padre di perdonarla, mettendo in scena una recita melodrammatica sulla necessità del perdono nei confronti di chi sbaglia, dandogli la possibilità di redimersi. Il padre e la madre, sempre pronti a soddisfare ogni capriccio del loro figlio, e ben lungi dal sospettare il vero scopo di quella richiesta, accondiscesero, a patto che la Nebulosa cambiasse modus operandi.
Le cose in casa Contraffatto andavano alla grande e i genitori erano disposti alla tolleranza e alla comprensione: i complimenti del Presidente, per la redazione delle leggi che via via venivano approvate dal parlamento muto, inetto e corrotto con un procedimento talmente rapido che Occulto, da esperto di editoria, definiva ‘istant book’, si sprecavano e diventavano viepiù remunerativi.
Il piccolo Fiorentino stava per decidere di chiudere la fase ‘legislativa’ perché il gioco lo stava ormai annoiando. Ciò non di meno, quella notte si levò ancora, per forza d’abitudine, più che per altro; e quando fu levato, volle andare a salutare, a riveder per qualche minuto, nella quiete della notte, per l’ultima volta, quello stanzino dove aveva tanto lavorato segretamente. E quando si ritrovò alla scrivania, col lume acceso, con un atto impetuoso ripigliò la penna, per ricominciare il lavoro consueto. Ma nello stender la mano urtò un libro, e il libro cadde. Il sangue gli diede un tuffo. Se suo padre si svegliava! Egli tese l’orecchio, col respiro sospeso… Non sentì rumore. Origliò alla serratura dell’uscio che aveva alle spalle: nulla. Tutta la casa dormiva. Suo padre non aveva inteso. Si tranquillizzò. E ricominciò a scrivere. Sentiva in lontananza l’abbaio dei cani e una civetta stridere sulla quercia gigante vicino allo stagno. In lontananza vide, attraverso la finestra, il cono di luce della torcia elettrica dell’agente della società di vigilanza John Wayne Corporation, che controllava il confine della proprietà.E scriveva, scriveva. E intanto suo padre era dietro di lui: eglis’era levato udendo cadere il libro, ed era rimasto aspettando il buon punto. E in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso: quelle straordinarie intuizioni legislative per le quali veniva elogiato e premiato con stock option nababbe delle aziende pubbliche vendute, sulla scorta dei disegni di legge partoriti nottetempo dal suo erede, a prestanome allocati nelle repubbliche diSt. Kitts Nevis o Mauritius. Da quando il piccolo scrivano operava al completamento del lavoro del padre le finanze nella famiglia Contraffatto avevano avuto un’impennata incredibile: erano passati dall’attico da 500 metri quadrati a una villa da 1500 mq immersa in tre ettari di strepitoso giardino; il parco auto comprendeva una Mustang d’epoca, due Ferrari, una Porsche 911, una Ducati 1000, e una panda a trazione totale per il personale di servizio. La cuoca, Farina Impastata di origini emiliane, aveva a disposizione un pick-up Nissan con il quale si recava al vicino mercato civico per la spesa quotidiana.
All’improvviso,Fiorentinodiè un grido acuto, due braccia convulse gli avevan serrata la testa. “O babbo! babbo, perdonami! perdonami!” gridò,consapevole di avere in qualche modo danneggiato il lavoro paterno. Mai avrebbe pensato che il suo divertimento e la ribalderia avevano contribuito a consolidare le finanze familiari e, ancor meno, permettere una accelerazione della carriera del padre.
“Tu, perdonami!”, rispose il padre, coprendogli la fronte di baci. “Ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me!” E lo sospinse, o piuttosto se lo portò al letto di sua madre, svegliata, e glielo gettò tra le braccia e le disse: “Bacia quest’angiolo di figliuolo che da tre mesi non dorme e lavora per me, e io gli contristo il cuore, a lui che ci permette di vivere come pochi altri, a lui al quale dobbiamo l’improvviso incremento del nostro benessere degli ultimi tre mesi. Ed io che pensavo di aver scritto le postille alle leggi in una sorta di dormiveglia, tanto da non ricordarne l’azione. Era lui, mia cara, che completava le mie proposte di legge con delle vere e proprie genialate che hanno consentito a noi e al megapresidente di arricchirci in modo spudorato e vergognoso.”
Fu chiamata la bambinaia Irina Nebulosa e la si pregò di accompagnare il piccolo nella sua stanza, perché potesse dormire e rimettere in funzione quel suo straordinario cervello capace di consentire ai genitori e al personale tutto di vivere serenamente immersi in un ambiente lussuoso e, per questo, sereno.
Dormì a lungo il piccolo scrivano Fiorentino: un sonno ristoratore lo accompagnò fino al mattino seguente, quando svegliandosi trovò sul letto un gigantesco pacco dono con dentro l’ultimo gioiello di consolle per videogiochi, e un grazie scritto su un vassoio con i cioccolati più costosi.
La volontà
Dicembre 28, mercoledì
C’eraBastardi, nella mia classe, che avrebbe avutola forza di fare quello che fece il piccolo Fiorentino. Ci furono due avvenimenti alla scuola: Garuffa, matto dalla contentezza, perché gli avevanoproposto di far parte della squadra di bocce campione d’Italia per via della sua sperimentata precisione nel lancio delle palle di neve. «Ha del talento, quel monellaccio!», aveva commentato l’allenatore della bocciofila ‘Frombolieri padani’, «Sarà un futuro campione, e poi ha un cognome predestinato: Garuffa, mitico colpo di sponda nel gioco del biliardo.»
EBastardi che ebbe la seconda medaglia. Bastardi, primo della classe dopo Debossi! Tutti ne rimasero meravigliati. Chi l’avrebbe mai detto, in ottobre, quando suo padre lo condusse a scuola, e disse al maestro, in faccia a tutti: «Ci abbia molta pazienza perchépuò sembrare duro di comprendonio! E poi è abituato a parlare poco. Così li alleviamo noi i figli: quando ci sono adulti i piccoli devono tacere. E per lui anche il maestro è un adulto.»
Aveva tessuto in modo egregio la ragnatela di amicizie, quelle che al momento opportuno contano: gli insegnamenti familiari erano pur serviti a qualcosa. Per lui ottenere le ‘soffiate’ giuste dai compagni più bravi era diventato un giochetto; lo stesso iperbadanoDebossi si era dovuto piegare alle richieste di Bastardi, consentendogli di ottenere votazione tali da meritare il plauso di Percattivi. Ma sapeva anche ringraziare chi gli dava una mano, sia pure dopo qualche forzatura.
La giornata trascorse senza grandi novità, oltre l’exploit di Bastardi che non perse occasione per pavoneggiarsi in modo per lui irreale e ossessivo.
La campanella sanzionò il termine delle lezioni e la classe ordinatamente, era un punto d’orgoglio di Percattivi, si recò nel corridoio e si posizionò in silenzio in attesa dell’ordine che avrebbe chiuso la giornata scolastica.
Il corteo si mosse composto e taciturno verso l’uscita, ‘come un plotone di marine’, come sottolineava fiero il comand… il maestro.
Bastardi fece, nonostante la sua notoria riservatezza, un’uscita trionfale: discese lentamente le scale, facendosi superare distrattamente dai compagni in modo da chiudere la fila e godere del massimo di visibilità. Percorse gli ultimi metri come una Wanda Osiris in preda a convulsioni esagerate, tese a ottenere il massimo dell’attenzione da quella folla di genitori in attesa dei propri figlioli. Varcato il portone, si diresse verso il padre che lo guardava perplesso per quell’incedere caracollante, che non gli era proprio, e per il viso dall’espressione sorniona, che faceva a pugni con l’aspetto sempre contrito e schivo. Non capiva il pover’uomo il perché di quel modo strano di procedere e della eccessiva espressione di alterigia che lampeggiava nei suoi occhi scuri. Compì gli ultimi passi gridando il suo successo, più al pubblico che al padre: «Sono stato il migliore! Il mio compito è stato semplicemente perfetto. Ho fatto meglio anche di Debossi: non so se mi spiego!»
Il signor Bastardi guardò incredulo il figlio: «Starà sicuramente mentendo.», pensò.
Al padre, interdetto per il risultato inaspettato, arrivò la conferma del maestro che non sapeva, anche lui, capacitarsi di una performance simile a quella del purissimo badanoDebossi, vanto e onore della scuola intitolata, dopo le pressioni invereconde del sindaco Adalberto Brambilla Balilla, al grande Alberto da Giussano, rappresentato da una statua di dimensioni esagerate e sistemata su un basamento tre per tre di onice bruno/verdastra. Qualcuno, al momento dell’inaugurazione,aveva obiettato sul colore, troppo simile al meconio neonatale, poco adatto a siffatto monumento alla Badanità.
Fu una giornata memorabile per quel testa/coda didattico imprevedibile. Bastardi, fin dall’indomani, riacquistò il suo aplomb naturale e la sua proverbiale riservatezza.
Gratitudine
Dicembre 31, sabato
Il tuo compagno Bastardi non si lamenta mai del suo maestro, ne son certo. Sa come ci si deve comportare con chi ha più potere di lui. Sa ascoltare in silenzio e parla solo quando capisce che non crea problemi e che non è inopportuno. Lui è un esempio per tutti, bambini e adulti.
«Il maestro era di malumore, era impaziente.», tu lo dici in tono di risentimento. Figlio mio, tu purtroppo, fra tante virtù, hai un gran difetto: non capisci che talvolta anche gli adulti che ti vogliono bene possono perdere la calma e manifestare un qualche nervosismo. Il maestro, pur essendo per natura portato alla calma e alla sopportazione dell’altrui maleducazione, non fa eccezione. Se pensi che ha sulle spalle generazioni di monelli che ne hanno incrinato e segnato il carattere, puoi capire da solo che, sia pure di tanto in tanto, sia legittimo qualche scatto d’ira, una lieve insofferenza per tutto ciò che è scuola.Pensa che il più santo uomo della terra, messo al suo posto, si lascerebbe vincere qualche volta dall’ira.
Spesso, a causa delle leggi volute dal megapresidente Francesco Maria Arraffador, gli insegnanti sono costretti a lavorare anche quando stanno male, perché per ogni giorno d’assenza per malattia la già magra busta paga diventa pressoché impalpabile. Capisco la frustrazione di questi servitori dello Stato che ritirando lo stipendio, tra i sorrisini di compassione degli iperpagati impiegati della BCS (Banca Centrale di Stato), chinano la testa per l’umiliazione che propina loro il datore di lavoro, quello Stato che dovrebbe contribuire a garantirne la dignità.
Immagina, Enrico, con qualespirito all’indomani varca il portone della scuola, un luogo che considera umiliante per la sua cultura e la preparazione didattica, corroborata da ulteriori studi presso la locale università. Il futuro lo sognava diverso e, certamente, più agiato, e gli schiaffi mensili dello stato patrigno non lo predispongono alla bontà. Gli rode, e non poco, quando vede il commerciante parcheggiare il suo suv superaccessoriato di fianco alla sua panda vecchio modello con dieci anni sul groppone vissuti intensamente, comprata usata con la tredicesima mensilità. Arrotonda il poveruomo con i progetti in orario aggiuntivo (e l’orario impegna quasi l’intera sua giornata), per raccimolare uno stipendio che gli consente a malapena di pagare l’affitto di una casa in periferia e far vivere in modo appena decente la famiglia. Talvolta noi genitori alla vigilia del Santo Natale o in occasione del termine annuale delle lezioni, durante la consegna delle schede di valutazione, omaggiamo i vostri insegnanti con regalie varie che vanno dal prosciutto al televisore, dalla collana d’oro o di perle per le maestre alla borsa in pelle per i maestri. È un atto di cortesia nei confronti di tutto il corpo insegnante, ma anche di comprensione e di compensazione per una professione malpagata e misconosciuta. Il dirigente non riceve quasi mai regali dai genitori perché attinge a piene mani dalle risorse aggiuntive della scuola, per arrivare alle quali è sufficiente un minimo d’inventiva: aumentare il prezzo dei prodotti (computer, attrezzi per la palestra, carta per le stampanti o i fotocopiatori, ecc.) e dividere con il fornitore, chiedere un fuori busta (tangente) per concedere un appalto, autonominarsi responsabile di ogni gruppo di lavoro o funzione aggiuntiva, ecc. La casistica può essere infinita, e ai dirigenti non fa certo difetto la fantasia, soprattutto se supportata da un/una Dgsa (segretario/a per intenderci) prestigiatori nella compilazione dei bilanci. Non c’è apparente rivalità fra i capi d’istituto e il corpo insegnante sulla gestione del flusso dei doni, perché ciascuno attinge in campi diversi, anche se può capitare (esistono, anche se rare, le persone oneste che considerano lo stipendio un compenso adeguato) che qualcuno ponga dei paletti e sollevi polveroni nei confronti di una prassi consolidata e gradita.
In futuro non essere severo con chi fa tanti sacrifici per dividere con voi il sapere, per chi pur umiliato dallo Stato è sempre al proprio posto in classe per spezzare il pane (troppo costoso per tutti i dipendenti pubblici e insegnanti in particolare) della scienza.
Tuo padre
Il maestro supplente
Gennaio 4, mercoledì
Aveva ragione mio padre: il maestro era di malumore perché non stava bene. Fu subito di dominio pubblico la patologia di cui soffriva, grazie al desiderio dell’applicata di segreteria Placida Allocca di condividere con il personale tutto le sofferenze di Percattivi. Di bocca in bocca si trasmise la poco gradevole patologia: emorroidi! I commenti, inizialmente improntati al compatimento e alla partecipazione sia pur svogliata al dolore (e che dolore!), col passare dei minuti volsero all’ilarità e al sarcasmo. «Glielo dicevo sempre: troppi grassi, troppo peperoncino, troppo condimento, troppo vino!», chiosò ammiccante il maestro Ercoatto che con lui divideva pantagruelici barbecue, nobilmente innaffiati dal miglior vino della cantina del maestro/avvocatino Massimo Della Pena. Le donne sorridevano composte, mettendosi la mano sulla bocca per nascondere la loro reazione ilare dietro un’afflizione di facciata, chinavano il capo e scivolavano via prima che i singulti incontrollati denunciassero la loro reazione allegramente scomposta. Qualcuno si fece portavoce di mirabolanti cure mistico-erboristiche che avevano curato zii, nipoti, nonni, e che sarebbe stato opportuno far conoscere al sofferente maestro per risolvere alla radice la malattia.
Al suo posto il dirigente aveva nominato in qualità di supplente, scavalcando in modo ignobile e arrogante l’intera graduatoria, il figlio di suo fratello Rapace, dirigente, temuto e rispettato, dell’Ufficio Centrale delle Imposte.
Non godeva di letteratura particolarmente favorevole il supplente. Questi portava con la necessaria albagia il cognome La Baracca, consapevole del potere del proprio genitore in qualità di vampiro fiscale e di quello dello zio dirigente scolastico. Da almeno quattro anni tutte le supplenze di una certa lunghezza erano sue. Nessuno osava protestare per il timore, fondato e dimostrato, di essere escluso dalla graduatoria di circolo e da quella provinciale, manipolata da amici della loggia per fare posto ai figli dei fratelli e consanguinei vari.
L’ingresso in aula di Ermenegildo La Baracca fu salutato dal silenzio timoroso degli alunni e l’ossequio rispettoso dei colleghi, sempre pronti alla piaggeria nei confronti di chi in qualsiasi modo fosse collegato al potere, anche se d’infimo cabotaggio come il cognome che portava il nipote del dirigente.Gli alunni avevano avuto notizie dai compagni della follia educativa del supplente e delle sue tesi sperimentali ispirate al pedagogista statunitense Dog BullAlcatraz. Benché un po’ ai margini delle teorie ufficiali, le tesi dell’americano suscitavano ammirazione e attenzione in vari gruppi di educatori come il Ku Klux Klan, gli Emulatori di Auschwitz, il Club dei Picchiatori della 6a strada, la Neoinquisizione Didattica, l’Associazione Mondialista Casa Nostra d’ispirazione siciliana, e tutti gli altri gruppi dediti all’educazione ferrea delle nuove generazioni.
Ermenegildo guadagnò a passi lenti la sua postazione dietro la cattedra, poggiò la borsa in pelle di coccodrillo (dono di un genitore valigiaio che aveva usufruito della raccomandazionedel maestro in fase di scrutinio finale), risistemò gli occhialini d’oro Cartier (acquistati a costo zero presso l’ottica Chiara Zoom, mamma del piccoloLuciolo cui aveva impartito lezioni private, in barba alla legge che lo vieta agli insegnanti di classe), guardò in modo poco rassicurante la classe con una lenta panoramica e sibilò in modo quasi impercettibile: «Il vostro maestro deve assentarsi per alcuni giorni a causa di una fastidiosa malattia e io lo sostituirò degnamente. Non pensate minimamente di poter liberare i vostri istinti belluinisolo perché io sono un supplente. Sarò severo e inflessibile, come e più del maestro Percattivi. Chi mi conosce sa che dico il vero e si guarderà bene dal creare disagi all’andamento della vita scolastica.» Aprì il registro e si dedicò all’appello, soffermandosi sui nomi che ad una prima analisi rivelavano un qualche casato di una certa importanza economica o sociale, supportando l’analisi araldica con una rapida osservazione dell’abbigliamento. Accompagnò questo primo approccio con un’indagine conoscitiva sulle famiglie, sui parenti e sugli ascendenti, senza curarsi di occultare la sua curiosità dietro il classico testo ‘Descrivo la mia famiglia’, come erano soliti fare la maggior parte degli insegnanti per non sembrare troppo invadenti.
Dedicò ai benestanti attenzioni sovrabbondanti e poco si curò di chi nulla poteva offrire in termini di regalie e prebende. Poiché ‘chi poco aveva, poco poteva dare’, decise di dare lui qualcosa ai poco abbienti: compiti inutili e molto impegnativi, motivati in modo inappuntabile dal punto di vista didattico con il bisogno di recupero per i ritardi accumulati nel processo di apprendimento. Poteva permettersi qualsiasi infamità il giovane La Baracca perché tutelato dal nome e dalla vigliaccheria collettiva. Se qualcuno sollevava il problema, la risposta unanime e collettiva era: «Io mi faccio i fatti miei!»
Nessuno aveva il coraggio di opporsi a quel modo di fare furfantesco e scorretto del supplente per paura di finire nel tritacarne delle ritorsioni, o che, nel caso malaugurato in cui ci fosse un’indagine, venisse fuori di quella volta che… E ciascuno correva con la memoria alle volte che aveva usufruito dei doni dei genitori senza sentirsi in colpa, trovando quella usanza legittima e gratificante, merito esclusivo della loro bravura come insegnanti.
Il secondo giorno dimenticai di completare alcuni esercizi di matematica e tremavo all’idea della reazione del maestro. «Vediamo, tu sei?»
Atterrito risposi con un filo di voce: «Bottino, Enrico Bottino.»
Ermenegildo La Baracca mi guardò indagatore e aggiunse: «Papà è il noto dirigente della Banca?»
Annuii e pensai che lo volesse convocare per esternargli la sua disapprovazione per la mia negligenza, e tremai al pensiero della reazione paterna.
«Salutalo caramente e digli che nei prossimi giorni mi recherò nella sua banca per regolarizzare una richiesta di prestito.», e completò quelle parole mielate con una carezza arruffa capelli affettuosa come non pensavo potesse venire da quell’energumeno.
Il tornado Ermenegildo durò per fortuna pochi giorni perché rientrò Percattivi, salutato da tutti con gioia e rivalutato dal punto di vista educativo dopo lo tsunami del supplente. Lo vedemmo in una seconda dove sostituiva la giovane insegnante di lingua italiana Dantina Chiarelettere in congedo per maternità, diventato ‘gravidanza a rischio’ per l’interessamento di Rapace La Baracca presso la Asl locale. L’operazione gravidanza fu gestita al meglio per consentire al giovane Ermenegildo la chiusura dell’anno scolastico e la partecipazione a pieno titolo alle operazioni di scrutinio, con il traino di gigantesche centrifughe di favori da basso impero, tutti lautamente remunerati per il piacere del supplente, di suo padre funzionario dell’Ufficio Centrale delle Imposte, dello zio Guido La Baracca, che, quando in segreteria nominavano i supplenti, usciva dall’ufficio per evitare eventuali conflitti d’interesse (L’aforisma dello scrittorepolacco Gabriel Laub “Uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l’occasione” faceva bella mostra di sé dietro la scrivania nell’ufficio di direzione).
La libreria di Bastardi
Gennaio
Andai da Bastardi, che stava di casa in faccia alla scuola, e provai invidia davvero a veder la sua libreria. Non era mica ricco, nonavrebbe potuto comprar molti libri;eppure era riuscito a costruire una biblioteca degna di nota, e di un qualche valore economico. A nessuno era dato sapere attraverso quali canali riuscisse a rifornirsi di libri degni della Biblioteca Nazionale: facevano capolino, fra edizioni pregiate delle opere di Dante Alighieri e di Giovanni Boccaccio, dei rarissimiincunabolisulle opere di Petrarca e Omero. Quelle opere di valore eccezionale nello scaffale di Bastardi erano sistemate in modo assolutamente strategico, mescolate con grande nonchalance fra pessime edizioni di paccottiglia da edicola e libri di fiabe accumulati negli anni. Per eccesso di sicurezza il suo tesoro era occultato da una tendina ricavata dagli avanzi di un tendaggio barocco verde. L’operazione mimetismo era perfetta, secondo il principio elaborato da Edgar Alan Poe nella ‘Lettera rubata’: «Se vuoi nascondere qualcosa, mettila bene in vista.» Solo io, perché di me si fidava ciecamente, avevo potuto vedere e sfiorare quelle meraviglie della letteratura italiana antica.
«Possedere le cose è un piacere che cresce con la consapevolezza che qualcun altro lo sa: se no, che gusto c’è?» Mi ripeteva il mio compagno con quella precoce passione per i libri e la sua altrettanto strana frequentazione delle sagrestie e delle annesse biblioteche che conservavano con troppo poca attenzione straordinarie e costosissime edizioni di volumi quasi unici della storia della stampa a caratteri mobili. Del resto non aveva colpa alcuna se i sacerdoti avevano poca cura dei tesori librari che venivano loro affidati. L’unica cosa che sembrava dispiacere al buon Bastardi era l’impossibilità di portare a casa uno di quei meravigliosi scaffali in pesante mogano che arredavano quasi tutte le sagrestie, e che sarebbero stati la casa ideale per la sua nascente e già sostanziosa, biblioteca. La tenda che celava il suo tesoro era montatasu un’asta orizzontale reggitendaalla quale era attaccata per mezzo di gancetti, che si potevano fare scorrere lungo la guida, manovrando dei tiranti. Così egli tirava un cordoncino, la tenda verde scorreva via e si vedevano tre file di libri d’ogni colore, tutti in ordine, lucidi, coi titoli dorati sulle coste; dei libri di racconti, di viaggi e di poesie; e anche illustrati. Ed egli sapeva combinar bene i colori, metteva i volumi bianchi accanto ai rossi, i gialli accanto ai neri, gli azzurri accanto ai bianchi, in maniera che si vedevan di lontano e facevano bella figura; e si divertiva poi a variare le combinazioni. S’era fatto il suo catalogo. Era come un bibliotecario. Sempre stavaattorno ai suoi libri, a spolverarli, a sfogliarli, a esaminare le legature; bisognava vedere con che cura gli apriva, con quelle sue mani corte e grosse, soffiando tra le pagine: parevano ancora tutti nuovi.
Aveva anche una cassetta chiusa con un lucchetto a combinazione che aprì con circospezione e in un silenzio misterioso, quasi si trattasse di segreti militari. Prelevò dalla cassetta un involucro di velluto e con delicatezza lo poggiò sulla scrivania; con movimenti lenti e teatrali spostò lentamente il velluto e liberò una copia originale dei ‘Sermones de tempore et de sanctis di Pseudo-Bonaventura’.Gli occhi del mio amico s’illuminarono come mai prima e, dopo essersi schiarito la voce come nelle conferenze di un certo spessore, iniziò la descrizione del libro dall’aspetto molto vecchio: «Questo raro e costosissimo incunabolo è il pezzo forte della mia collezione. Tu sei il primo a cui mostro questa meraviglia, e credo che sarai anche l’ultimo. Non mi fido degli altri: a qualcuno potrebbe venire in mente di derubarmi e vendere questa meraviglia su EBay. Per darti un’idea sappi che nei siti di antichità librarie il prezzo oscilla fra i 35.000 e i 50.000 euro.»
Lo guardavo come se lo vedessi per la prima volta. Avevo visto al museo libri di tale valore, ma mai avevo potuto sfiorare quelle pagine, ammirare quelle lettere cesellate da abili precursori di Gutenberg. Avevo qualche dubbio sulla provenienza di quel tesoro librario, e, non capivo perché, ancora mi venivano in mente le sue visite alle chiese più antiche e le sue incursioni nelle loro sagrestie. Era solo un pensiero fugace che mi sfiorava la mente e che mai mi avrebbe portato a sospettare sulla provenienza di molti dei libri di quella fantastica biblioteca, però…
Continuò lo sfoggio di una cultura da bibliofilo professionista che mai avrei sospettato: «La prima pagina presenta uno sfondo magnificamente incisoriproducente episodi della bibbia, vi sono più di 200 incisioni di rappresentazioni sacre;i capilettera, le testatine e i finalini sono colorati ed elaborati. Vanta una legatura coeva in pergamena con nervetti passanti e titoli calligrafati al dorso e al taglio di piede.»
Mi venne spontaneo applaudire a tanta sapienza e alla ricchezza d’informazioni che con studiata noncuranza snocciolava compiaciuto. Scimmiottò un inchino di ringraziamento e con calma riavvolse la quattrocentina nel velluto prima di rimetterla nella cassetta che chiuse con il lucchetto d’acciaio temprato a combinazione. Sarebbe diventato un bibliofilo di fama o un antiquario danaroso vista la sua indiscutibile bravura nel procurarsi la materia prima.
Dopo aver dato un’altra occhiata ai libri presenti nello scaffale mi accomiatai. Bastardi mi accompagnò alla porta in silenzio: “A rivederci” sull’uscio, con quella faccia che par sempre imbronciata, poco mancò che gli rispondessi: “La riverisco”, come a un uomo. Io lo dissi poi a mio padre, a casa: “Non capisco, Bastardi mi mette soggezione.”
E mio padre rispose: “È perché ha carattere.” Ed io soggiunsi: “In un’ora che son stato con lui ha pronunciato poche parole, non m’ha mostrato un giocattolo, non ha riso una volta; eppure ci son stato volentieri.”
E mio padre rispose: «È perché lo stimi, perché riesci a cogliere in lui la fiammella dell’uomo d’affari, di chi riesce a massimizzare i suoi guadagni con piccoli e mirati sforzi. Hai la fortuna di studiare in una classe frequentata da ragazzi che sanno il fatto loro e che saranno sicuramente classe dirigente in questo Paese che premia e ammira i furbi e gli audaci.»
Il figliuolo del meccanico
Gennaio
Sì, ma ancheCilindriio stimavo, ed era troppo poco il dire che lo stimavo.Cilindri, il figliuolo delmeccanico, quelloche univa allo studio un faticoso e poco riconosciuto apprendistato nel campo dell’industria automobilistica. Il padre desiderava che imparasse rapidamente la professione per poterlo un giorno affiancare nel duro lavoro di riconversione di auto da esportare nel lucroso mercato degli Emirati Arabi. Trovava lenta la crescita lavorativa del figliolo che ancora cincischiava con specchietti, maniglie e copriruota, ma confidava nell’esempio familiare e nel DNA che non mentiva. Sperava, il brav’uomo, anche nell’influsso benefico dei compagni di scuola, tutti ingegnosi e responsabili come piccoli uomini, consapevoli che il futuro non può essere affidato alla fortuna o alla cultura, ma deve essere fondato su un ottimo tirocinio e su solidi punti di riferimento. Il padre, Marcio Cilindri, lavorava senza permettersi pause o vacanze. Anzi, proprio nel periodo estivo incrementava i suoi affari, quando frotte di turisti con automobili di lusso visitavano la città. Non era difficile trovarlo al lavoro nelle ore notturne. Coinvolgeva nel suo lavoro extra tutto il personale, che era ben felice di arrotondare lo stipendio tutt’altro che magro. Pagava bene chi lavorava con passione, soprattutto di notte, quando era necessario reggere il ritmo dei retrieval of cars, come lui pomposamente quei baldi giovani che, tanto ad auto, rastrellavano i migliori modelli sulla piazza. Erano preparati e volenterosi, e riuscivano spesso a riempire l’officina di mille metri quadrati di veicoli di pregio, costringendo i verniciatori agli straordinari per ridare una nuova vita a quelle lamiere anonime. Mister Marc Isambard Brunel(l’ingegnere inglese che per primo, nei cantieri della marina militare britannica, applicò i principi della catena di montaggio)e lo statunitense Henry Ford (il produttore delle prime auto di massa che trasformò il modo di produrre dell’industria manifatturiera inserendo il nastro trasportatore) sarebbero stati fieri nel vedere l’applicazione letterale del loroconcetto di catena di montaggio: un gruppo di cinque operai riverniciava le vetture, tre davano un tono retrò alle matricole del telaio e del motore ri-punzonando numeri di vecchie auto demolite da tempo, quattro esperti tappezzieri incrociavano rivestimenti per ricreare interni in sintonia con le nuove colorazioni, due geniali tipografi ricreavano una nuova identità a quelle meraviglie dell’ingegno umano. All’alba tutti riponevano gli attrezzi e rimiravano il lavoro, felici per ciò che avevano prodotto, tanto da non sentire la stanchezza che li aveva pesantemente segnati. Poco prima del sorgere del sole arrivavano due bisarche che venivano riempite nel più assoluto silenzio con le auto riconvertite. Un rapido saluto, un caffè di cortesia e i pescecani scivolano via sotto un cielo color pastello diretti al porto dove sarebbero stati imbarcate su una nave diretta nei mari caldi del Medio Oriente. Un grazie di cuore avrebbe dovuto tributare la Nazione tutta all’oscuro lavoro degli italiani nel mondo, capaci di tenere alta la bandiera del Made in Italy, sintesi perfetta di specialità convergenti. Quelle persone chiuse nelle officine, anche, se non soprattutto, nelle ore notturne, erano il simbolo di un lavoro sommerso che generava profitto e permetteva alle famiglie dei lavoratori di vivere dignitosamente, senza nulla chiedere alla società, tranne di essere lasciata in pace per produrre reddito e ricchezza. Ma la società non sempre sapeva essere riconoscente nei confronti di questi oscuri lavoratori e frapponeva mille ostacoli alla libera intrapresa: guardia di finanza, concessioni comunali, autorizzazioni sanitarie, dichiarazioni dei redditi, Irap, Iva, Inps, e quanto altro di perfido i governi riuscivano a inventare. Sapevano, il signor Cilindri e i suoi dipendenti, che il loro onesto faticare avrebbe incontrato qualche difficoltà, ma non se ne lamentavano più del necessario. Per evitare discussioni avevano diviso l’officina in due parti: una per le piccole riparazioni diurne di circa 100 metri quadrati, e l’altra di 900 metri quadrati per la ristrutturazione delle auto da spedire nel mercato estero. A tutela della privacy, alla quale tutti tenevano in modo particolare, erano state sistemate intorno alla proprietà telecamere a raggi infrarossi per la visione notturna in grado di attivare un sistema d’allarme interno. L’interno dell’officina in caso d’allarme subiva una rapida esingolare trasformazione: tutte le auto in fase di lavorazione venivano agganciate da potenti ganasce che permettevano di rovesciarle mediante rotazione, scomparendo alla vista sostituite da vecchi catorci utilizzati come pezzi di ricambio. L’operazione maquillage era il frutto della creatività di un cugino romano, esperto d’informatica e di robotica. Pare che avesse lavorato a lungo, a contratto, presso i servizi segreti deviati legali per i quali aveva inventato ogni sorta di marchingegno elettronico, finché, a causa dello spending review e dei tagli lineari del governo di Francesco Maria Arraffador, non venne messo in mobilità e gli proposero il trasferimento nella squadra A. S. D. R. (Affari Sporchi Da Ricandeggiare) dei Servizi Segreti Palesi. Per lui fare tutto alla luce del sole era un declassamento e rispose no, scegliendo il privato e contribuendo alle fortune della famiglia Cilindri.
Il piccolo Cilindri riusciva con qualche difficoltà a inserirsi nell’azienda di famiglia e il padre per scuoterlo, di tanto in tanto, ma sempre con amore paterno, gli rifilava qualche pedalata con gli scarponi antinfortunistici usati durante il lavoro. Cilindri arrivava a scuola con qualche livido dovuto agli interventi educativi del padre. Il maestro provava simpatia per quel padre che non si tirava indietro se c’era da stimolare la capacità lavorativa del proprio figlio e ne lodava l’abnegazione e il senso della famiglia: non sempre ci sono padri che hanno a cuore il futuro dei propri figli. Percattivi lo additava ai genitori come modello da imitare, e per la sensibilità, e per l’affetto che lo legava ai suoi cari, per i quali non si risparmiava mai sul lavoro.
Anche se con un certo impaccio, il giovane stava acquisendo capacità lavorativa e il padre riusciva a vederne gli sviluppi futuri. Diceva Percattivi al genitore ansioso: «Il ragazzo si farà. Ha talento, inventiva, creatività, e saprà farle fruttare nel modo giusto. Su di lui punterei a occhi chiusi per il futuro della sua azienda: lo inserisca progressivamente nel processo produttivo in maniera tale da garantirsi una successione adeguata.»
Il signor Marcio Cilindri lasciò soddisfatto la scuola per le buone notizie sulle capacità del proprio figliolo. «Si farà, si farà!», canticchiò felice per tutto il percorso verso l’officina.
Lo invitai per l’indomani a casa mia con Debossi, Scorretti e Snelli. Volevo che facesse merenda con me, regalargli dei libri, metter sossopra la casa per divertirlo e sentire le sue idee su come far soldi senza troppa fatica. Peccava nella comunicazione interpersonale, ma riusciva in modo efficace a trasmettere le sue idee e il come realizzarle. Non potevo che ammirarlo, anche perchéaveva tanto coraggio!
Una bella visita
Gennaio 12, giovedì
Ecco uno dei giovedì più belli dell’anno, per me. Alle due in punto vennero a casa Debossi e Scorretti, con Snelli, il gobbino; Cilindri, suo padre non lo lasciò venire, doveva dare una mano nell’officina perché avevano consegne urgenti. Debossi e Scorretti ridevano ancora ché avevano incontrato per strada Vurazzu u russued era tutto contento perché suo padre aveva scritto dall’America che lo aspettassero di giorno in giorno. Oh le belle due ore chepassammoinsieme!Eranoi due più allegri della classeDebossi e Scorretti; mio padre ne rimase innamorato. Scorretti aveva la sua maglia di chiara origine cinese (e non poteva essere diversamente vista la professione del padre: commerciante di prodotti esclusivamente con gli occhi a mandorla), ricca di immagini dai riferimenti futuristi e con una scritta in oro accecante ripresa da un aforisma del regista/attore Woody Allen: “Se il denaro non dà la felicità…figuriamoci la miseria”.E sul retro un messaggio sullo spirito con il quale la famiglia Scorretti gestiva l’Emporio ‘Solo made in Italy’: “Truffare gli idioti più che un reato è un dovere.”Rideva divertito quando raccontava la bravura del padre nel rifilare ai clienti capi d’abbigliamento improbabili, volgari imitazioni delle grandi marche, straordinari Rolex e Audemars Piguet in grado di gabbare solo ipovedenti a prezzi quasi da usura, incredibile paccottiglia in similoro spacciata per artigianato nazionale. Il giro d’affari era piuttosto consistente, tanto da mettere in crisi avviate attività cinesi doc. Il giovane Scorretti aveva anche sentito parlare di acquisti di merce prodotta con scarti industriali e ospedalieri rivenduta con il marchio nazionale, corredato da etichette di garanzia di qualità tassativamente made in Napoli (Marchio Ecologico Ecolabel, OEKO-TEX, Equo Bio Cotone, ecc.). A casa ne ridevano e motteggiavano quegli allocchi che uscivano felici, convinti di aver fatto un ottimo affare perché erano stati portati a credere che si trattava di merce di contrabbando o rubata da qualche Tir in transito, ma autentica come gli originali in vendita nelle boutique più chic.
Aveva aiutato qualche volta i commessi nel trasporto di pesanti colli di abiti provenienti dal Myanmar (Era un tentativo di diversificare le fonti di approvvigionamento; e sfruttare meglio il lavoro infantile, favoriti dalla mancanza di leggi a riguardo. Certo, perché le cose funzionassero come un orologio svizzero, non taroccato ovviamente, ai bassissimi costi di produzione era necessario aggiungere il peso di qualche bustarelle ai coreografici ministri dei luoghi di produzione per appianare ogni cosa.), per dimostrare che si poteva essere utili indipendentemente dall’età (Dando in fondo ragione a chi nel mondo sfruttava il lavoro minorile per ridurre i costi di produzione. Un bambino è in fondo un adulto in fieri, come sosteneva argutamente il filosofo tedesco, della corrente di Stoccarda “Fin che la barca va…”, Frederic NonnKapish. E se i bambini sono diversamente adulti, sosteneva ancora il grande teorico della NeuartigPhilosophie, perché scandalizzarsi se li si usa nel processo produttivo. La difesa a oltranza dei diritti dei bambini poneva all’imprenditoria coraggiosa non pochi problemi d’investimento e di crescita. E su questa strada si erano messe inopinatamente organizzazioni no profit e umanitarie: si trattava di un tentativo scorretto di marginalizzazione della manodopera minorile, e un paletto pretestuoso alla crescita dell’industria nei paesi in via di sviluppo.
A Scorretti piacevano le teorie di quel signore tedesco, la cui foto campeggiava dietro la scrivania del padre, anche se non ne capiva un granché di tutte quelle strane parole che sentiva ripetere in famiglia con toni enfatici. Non capiva le parole ma ne apprezzava il suono autoritario e altèro.
Sempre parla di suo padre, di quando fu soldato nel 49° reggimento, e della capacità di fare affari sottobanco con sergenti e marescialli. Una volta, e gli occhi gli ridevano mentre ne parlava, andò a far spesa con un sergente nel magazzino viveri posto all’altro capo della città. Capì come andavano le cose quando si fermò al rifornitore per far il pieno di benzina al camion militare e l’unico serbatoio che riempì fu quella della moglie che seguiva il mezzo dell’esercito con una Mercedes di ultima generazione. Il padre era un tipo sveglio e non impiegò molto per volgere a suo favore la scorrettezza del sergente. Riprese con il suo telefonino l’operazione benzinae tutti gli intrallazzi della spesa nel magazzino. Fece alcune copie di quelle istantanee così poco corrette e le consegnò a due notai per maggiore sicurezza. Questo stratagemma gli permise di entrare a buon diritto nell’affare militare, prima pietra di una brillante e lucrosa carriera. Fu l’inizio di una vocazione affaristica che non venne mai meno.
E Debossi ci divertì molto: egli sapeva la geografia come un maestro: chiudeva gli occhi e diceva: “Ecco, io vedo tutta laBadania, le Alpiche s’allungano sino algolfo di Trieste, i fiumi che corrono di qua e di là, quasi tutti subalterni al grande Po, le città bianche e linde, non come quelle del Sud ricoperte di rifiuti e sporche, i boschi ricchi di selvaggina, i castelli custodi severi delle antiche tradizioni celtiche, le meravigliose gallerie che uniscono luoghi di straordinarie civiltà come la Francia, l’Austria o la Svizzera, terra di leggendarie autonomie.”;e diceva i nomi giusti, per ordine, rapidissimamente, come se leggesse sulla carta; e a vederlo così con quella testa alta, tutta riccioli biondi, con gli occhi chiusi,autenticamente celtico, diritto e bello come una statua,tutti stavamo in ammirazione.Fece le prove del discorso che avrebbe dovuto leggere alla manifestazione organizzata per ricordare il Fondatore del Partito Celtico Urogenius (discendente del bisonte) Smertulitani (che ha ampia preveggenza). In realtà si chiamava Giuanin Brambilla, ma eraun nome poco celtico. Riuscì a parlare per ben 30 minuti senza interrompersi o palesare la minima esitazione.I suoi biondi capelli ondeggiavano morbidamente quasi a formare un background music durante le prove di memoria davanti agli amici e suoi occhi verdi s’illuminavano pensando al Fondatore. Snelli osservava tutta la messa in scena di Debossi e non poté trattenere un sorriso di compatimento per tanto impegno sprecato a ricordare un trombone che aveva fondato le sue fortune politiche su strampalate teorie sulla superiorità razziale degli eredi degli antichi barbari con l’elmo cornuto. Lo guardava per cogliere gli elementi di superiorità millantati e si convinse di quanto ridicole fossero quelle pseudoteorie sulla razza badana: davanti ai suoi occhi si esibiva una scimmietta ammaestrata, capace di snocciolare sciocchezze su un signore che si vergognava del nome meneghino e si faceva chiamare gallicamenteUrogeniusSmertulitani.
«La Badania è una realtà politica, culturale ed economica ben nota in tutto il mondo, anche se la classe politica stracciona del Mezzogiorno finge di non saperlo, mentre per noi il Meridione esiste solo come palla al piede, che ci portiamo dolorosamente appresso da 150 anni.», ripeteva enfatico Debossi e aggiunse per completare uno straordinario percorso culturale: «Garibaldi entrò a Napoli scortato dai mafiosi e dai camorristi. Per questo andrei a fucilarne il cadavere e non certo a celebrarlo. Questi sono fatti storici, la gente deve sapere che Garibaldi pagò le pensioni alle mogli dei mafiosi. È l’icona di Roma ladrona, un alleato della mafia. Per la nostra gente l’unità d’Italia ricorda soprattutto le tasse, gli sprechi, le pensioni facili, tutta quella porcheria.»
Snelli non resistette a quell’effluvio di sciocchezze cadenzato e interruppe con rabbia quella summa diffamatoria degna Ku Klux Klan: «Hai un futuro come comiziante. Hai imparato bene la lezione dai dittatori che hanno oppresso i popoli in ogni angolo del mondo. Hai studiato la storia, ma in testa ti è rimasto solo il rombo martellante delle parole. Ti sei preoccupato più di trovare parole che ti permettessero ritmi coinvolgenti che il significato di quanto andavi dicendo. Tu, come i tuoi simili, pensi che arringare sia la politica realizzata.»
Non avevo mai sentito Snelli così indignato, e, a dire il vero, non ne capivo pienamente il perché. A me piaceva Debossi, così sicuro di sé, capace d’imbrogliare chiunque, insegnanti compresi, per ottenere il massimo. A dirla tutta non capivo neppure le parole vomitate con violenza da Snelli e, di conseguenza, da quale parte stesse la ragione.
Dopo un attimo di sbandamento, anche perché mai avrebbe pensato di essere così duramente interrotto da un insignificante gobbino, riprese il suo solito aplomb e apostrofò il compagno in modo arrogante: «Le parole che tu, sfortunato figlio di famiglia sfortunata, ti sei permesso di criticare sono del grande politico Borseggio De Furfantis, parole che io ho cercato di inserire nel mio discorso commemorativo per la purezza del contenuto e per la veridicità degli assunti! Dio ci ha creati diversi, perché dobbiamo andare contro la sua volontà? Chi sei tu, piccolo essere, che ti permetti di mettere in discussione il volere del Signore che ci ha creati diversi per lingua, colore della pelle, caratteristiche somatiche, dislocazione territoriale, voglia di lavorare?»
Dalla porta mio padre ascoltò la perorazione di Debossi, annuendo di tanto in tanto. Quando i miei compagni salutarono e si avviarono verso casa battibeccando, mio padre chiosò serioso: «Credere in qualcosa e difenderla a spada tratta dalle altrui obiezioni è opera altamente meritoria, poco importa se ciò che si difende può apparire moralmente indifendibile. Se pensi che la morale è l’ideologia dei perdenti, perché non sanno farsi valere diversamente, la reazione può anche essere considerata doverosa verso chi si oppone e verso le sue idee.»
I funerali di Giuanin Brambilla in arte UrogeniusSmertulitani
Gennaio 17, martedì
Alle otto e trenta, appena entrato nella scuola, il maestro chiamò Debossi, il quale s’andò a mettere accanto alla cattedra, in faccia a noi, e cominciò a dire col suo accento vibrato, alzando via via la voce limpida e colorandosi in viso:«Quattro anni sono, in questo giorno, giungeva davanti al Birellone, simbolo della riconquistata libertà badana, il carro funebre che portava il cadavere di UrogeniusSmertulitani, primo segretario del Partito Nazionale Badano, morto dopo quaranta anni di lotte e di ininterrotta frequentazione delle stanze parlamentari romane, dove si umiliò per il bene dei suoi elettori e dei cittadini del Nord, mortificando il corpo e l’anima bella con un lautissimo stipendio e le cospicue regalie connesse alla funzione di rappresentante dei cittadini. Aiutò la famiglia e la sua cerchia di amici perché era fondamentalmente un generoso che sempre finalizzava ogni sua azione al bene dei suoi cari (parenti, amici ed elettori). Lottò strenuamente per impedire agli stranieri di sporcare il sacro suolo nazionale, e per raggiungere questo fine prioritario non esitò a rinunciare alla purezza dell’azione politica alleandosi con corrotti partiti romani pur di ottenere leggi favorevoli alla Badania. Certo, ci sono voluti quaranta anni di frequenza delle repellenti sale parlamentari romane per ottenere qualcosa che somigliasse all’inizio dell’autonomia delle nostre terre. E pensate alla sofferenza di UrogeniusSmertulitani nel ricevere ogni mese un offensivo stipendio di circa trentamila euro: doveva essere terribile per quell’animo nobile. Nessuno dei nostri grandi leader aveva voluto far mancare il saluto al grande condottiero: Moronin, Maronin, Muronin, Mironin, Meronin, e tutti i membri delle varie famiglie, anch’essi membri nel parlamento nazionale, con merito.»
E c’erano, fra una selva di bandiere meconio, i capi delle ronde del Nordest, del Nordovest, del Nordnord, del Nordnordest, del Nordnordovest, del Nordovestovest, del Nordestest. Di fianco alle commosse ronde, stavano la cooperative di produzione del latte PepinZozogno (eroe dell’occupazione di Venezia con l’ape mascherata da carro armato), la cooperativa di consumo Taleggio Strozza (dedicata al conte Umberto Taleggio Strozza, morto eroicamente d’indigestione di taleggio nella difesa delle quote latte contro i commissari europei), la cooperativa credito don Pizzonego (unico caso di meridionale assurto agli onori del Panteon badano per avere finanziato l’azione politica del partito in cambio di piccoli appalti regionali). Un saluto che commosse tutti i presenti venne tributato dalla bocciofila di Sbirulin De Sotto con il lancio delle bocce verso il feretro che urtarono contro la cassa, e quello strepito sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille voci umane che dicessero tutte insieme: “Addio! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole soprala Badania”. Dopo di che le bandiere si rialzarono alteramente verso il cielo, e il condottiero entrò nella gloria immortale della tomba.
Affranti, cacciato dalla scuola
Gennaio 21, sabato
Uno solo poteva ridere in modo scomposto mentre Debossidiceva dei funerali del Fondatore, e Affranti sghignazzò. Certo il discorso non era stato particolarmente coinvolgente e l’eccesso di retorica aveva suscitato sorrisini malcelati nella quasi totalità della classe, ma era ormai prassi consolidata prendersela con Affranti: un capro espiatorio era la soluzione ideale per tutte le situazioni problematiche. Affranti veniva considerato colpevole a priori e nessuno era più adatto al ruolo. Io, in fondo in fondo, lo ammiravo, e guardavo le sue esibizioni con uno spirito da discepolo. Sapevo che eguagliarlo sarebbe stato molto difficile, ma non ero stato capace di estraniarmi del tutto da quella farsa della rimembranza, voluta fortemente dal sindaco di fede BadaniaAchazBrambillescu, eletto alla Cadrega, come è stata ribattezzata la funzione di primo cittadino, per acclamazione dopo aver dichiarato in assemblea che «solo chi è nato in Badaniadeve poter votare; e solo chi ha cognomi di chiara origine locale deve essere tutelato. Indiremo un referendum per spedire a casa loro tutti gli stranieri, che siano terroni o meno. Faremo la prova del DNA a chi chiede il permesso di soggiorno e faremo causa presso la Corte Europea se cercheranno di costringerci a ospitare gli italiani in casa nostra. Evviva Merlino, evviva Vercingetorige, evviva Boudicca, evviva Menego Pollastri che ha sconfitto nella gara del ‘ferro di cavallo’ quei terroni dell’Emilia Romagna.» E concluse, fra il tripudio generale: «We terun, zü-zü, uè, ueilà, pirla, hura, hòta, neh, cribbio, madunina, ciapasù, adèssvà a ciapa’ i ratt, mena no el terun!»
Ma se non ci fosse stato Affranti la vita nella scuola sarebbe stata terribilmente noiosa, priva di sano humour, di gioiose impennate lessicali, di creativi scherzi che i più non gradivano perché non capivano e non avevano senso dell’umorismo. Vedere la maestra Epifania Ragnatela scivolare sul pavimento perfettamente oliato era uno spettacolo degno della commedia dell’arte cinquecentesca, ma poco gradito alla slalomista che era franata pesantemente a terra. Chiudere Posapiano nel bagno per verificare se, costretto a risiedere a lungo in quel luogo di gioia e di sofferenza, potesse stimolare il desiderio di pulizia che mai prima l’aveva sfiorato. A posteriori Affranti e tutti noi avemmo la certezza che neanche la prigionia avrebbe potuto cambiare le solide abitudini consolidate in anni di eccezionale ozio del bidello bradipo. Di tanto in tanto il Nostro filtrava maldicenze sull’operato di qualche compagno particolarmente antipatico per il solo gusto di vedere all’opera le mani/ganascia dei genitori: e giù risate al ritmo degli scapaccioni. Nella memoria collettiva rimane viva l’immagine di Debossi durante la commemorazione del Fondatore, quando le sue parole vennero accompagnate dalle incredibili note della canzone disneyana “I tre porcellini”. E alla fine di ogni ritornello (Siam tre piccoli porcellin, /siamo tre fratellin/mai nessun ci dividerà, /trallalla-lallà) un fuoco d’artificio s’inerpicava scoppiettante su per il cielo. Le risate coinvolsero molti dei genitori presenti, divertiti dall’abbinamento porcellini/fondatore della Badania. Era pur vero che l’uomo, amante della bagna cauda, della polenta Taragna, della pestata di lardo, del vino cotto, aveva una corporatura XXXXL, ma mancargli così di rispetto scatenò le proteste dei dirigenti politici locali. Fu individuato il colpevole in Affranti (Gioco facile! Un colpevole per tutte le stagioni fa comodo a chi deve indagare e risolvere.), che vista la perfetta riuscita dello scherzo non negò le sue responsabilità (Era sempre pronto ad assumersi responsabilità non sue, se lo scherzo era di qualità. I veri responsabili per i quali talvolta si accollava la colpa sapevano ringraziare adeguatamente quello che per loro era un eroe.).
Le autorità chiesero che il reo venisse adeguatamente punito e chiesero l’intervento del dirigente Guido La Baracca che, non potendo fare diversamente, riunì il consiglio di disciplina per stabilire una sanzione adeguata. In attesa della decisione definitiva, fu allontanato dalla scuola per mostrare all’esterno il senso del dovere e di disciplina dell’istituzione scolastica.
Affranti, fra il dispiacere generale perché perdeva un volano dell’allegria collettiva e un autentico possessore di una non comune vena creativa, salutò tutti calorosamente con l’impegno di tornare al più presto. Con grande senso di responsabilità, anomalo per lui, strinse la mano al dirigente come un campione di calcio espulso dopo aver causato a un avversario, con un’entrata assassina, fratture multiple: «Senza rancore, signor direttore. So che è stato costretto dai rapporti di potere a cedere sulla decisione di allontanarmi, ma con franchezza le comunico che i miei faranno sicuramente ricorso.» Si avvicinò a La Baracca e gli bisbigliò in un orecchio: «Non me ne voglia se passerà dei guai per causa mia, ma sarò costretto a difendermi. Dirò che sono stato moralmente torturato, e lo stato d’inedia e di prostrazione psicologica so ben fingerli. Non mangerò, non parlerò, simulerò debilitazione catatonica. Addio, direttore! Ancora senza rancore e vinca il migliore!»
Il direttore si rabbuiò, e rapidamente fece il calcolo dei pro e dei contro. Non impiegò molto a capire che il giovane Affranti, con un buon avvocato e l’opinione favorevole dei genitori, sempre pronti ad accusare la scuola di ogni nefandezza, l’avrebbe spuntata, causando non pochi danni d’immagine all’istituzione e alle finanze di ciascun lavoratore della scuola coinvolto.
La Baracca finse severità (del resto ricopriva un importante ruolo istituzionale): «Spero che tu capisca che ciò che fa la scuola lo fa solo ed esclusivamente nell’interesse degli alunni. Hai sbagliato e devi essere punito in modo adeguato.» Si chinò verso Affranti e con voce appena percettibile aggiunse: «È solo per finta, per mostrare al sindaco e ai politici locali che sappiamo intervenire adeguatamente. Ora vai a casa; puoi considerare la tua assenza una banale vacanza. Ti riposi e domani riprendi regolarmente le lezioni.»
Il ragazzo sorrise soddisfatto, si volse verso i compagni e salutò all’americana: un ok e una strizzatina d’occhi che lasciavano intendere sviluppi solo positivi. Si aggiustò la criniera mohicana elaborata da Geronimo, il barbiere di fiducia, e fiero lasciò l’aula, da vero eroe moderno.
Il tamburino sardo
Racconto mensile
Sgarrone aveva preparato il racconto mensile con un bieco copia e incolla da Wikipedia. L’argomento gli era stato suggerito da Percattivi: campionati europei di danza latino-americana.
Con cadenza quadriennale si svolgevano, in città via via diverse, queste straordinarie manifestazioni danzanti, partecipate da un’eterogenea folla di concorrenti e di supporter formati quasi esclusivamente dagli addetti ai lavori e dalle famiglie. Durante le esibizioni il tifo era alle stelle, e si sentivano fra il pubblico incitamenti al limite della demenza sportiva.
Era il mese di luglio di fine secolo e nel palazzetto dello sport di Ballavista del Torcimiento, addobbato con festoni multicolori e inondato da musiche coinvolgenti come Diureticao do Brazil di Ary Barboso ed El Lardoso di MachelTirìQuecasch, grandissimo musicista di origine azteca, sfilarono i rappresentanti di tutte le nazioni europee in divise variopinte e ricche di trine, pizzi e merletti. Aprì la sfilata danzante la rappresentanza delle Isole Føroyar, capeggiato da due mini ballerini che tutti applaudirono lungamente pensando si trattasse di due bambini e solo al momento della competizione si capì che si trattava di due nani perché parteciparono al campionato nella classe ‘Adulti’. La reazione fu di silenzio stupefatto. Qualcuno avrebbe voluto protestare per il colpo basso sferrato dalla Federazione della danza delle Isole dell’Oceano Atlantico del Nord, finalizzato a influenzare bassamente la giuria che era composta da ballerini che avevano marcato la storia del latino/americano: per la Francia era presente l’étoile Marie Antoinette Pirouette, per la Germania Otto von Passé, per la Russia la regina incontrastata delle piste Galina Straccialentov, per l’Olanda AartiënneDiewertjeDjamilla, per la Scozia Steve Mc Barrel Jump. Il palazzetto era stato progettato da Piqué PasséVelosc, esperto nella costruzione di autodromi e premiato per la pista avveniristica realizzata nell’Isola dei Cervi nelle vicinanze dell’Isola di Mauritius nell’Oceano Indiano. La difficoltà fu ideare dei box adeguati alle auto con ormai funamboliche protesi, diventate evidenti e ingombranti. L’idea portante la derivò da alcune vecchie pergamene ritrovate negli scantinati dell’osteria “Al montanaro goloso”, dopo un’abbondante cena a base di cacciagione innaffiata da un rosso rubino con retrogusto di arrosto di capriolo alla fragola e al pistacchio, con riflessi color granato. Tra un bicchiere e l’altro analizzò i disegni di chiara origine extraterrestre, come affermò il grande scrittore di fantascienza russo Apollon Clonatoskji, per gli evidenti riferimenti alle posizioni stellari riportate nei fogli e per alcuni strani simboli disegnati sui margini, rappresentanti, con qualche approssimazione, degli esseri con quattro occhi e otto braccia. Nonostante le asserzioni dell’oste che riconobbe in quelle espressioni grafiche misteriose la mano del proprio figliolo quando aveva cinque anni, tutti si confermarono nella tesi dei visitatori alieni. Piqué PasséVelosc riprodusse da par suo la struttura portante dei box e il groviglio delle piste che s’intrecciavano in modo imprevedibile; l’unico inconveniente, durante le corse, era rintracciare i piloti e le macchine perse nel labirinto stradale e stabilire alla fine chi fosse il vincitore.
Il Palazzetto della Danza riprendeva alcuni degli schemi già realizzati nell’Isola dei Cervi: il pubblico prendeva posto in gradinate a nastro intrecciato, con uno schema riproducente le piste scarabocchio dell’autodromo, e la pista da ballo era un otto con una inevitabile sopraelevazione nell’incrocio. Dall’alto precipitavano delle lampade modello semaforo verdi, rosse e gialle. La giuria era sistemata in un box in plexiglas dal quale si poteva vedere perfettamente la pista, i cui bordi erano segnati da pneumatici accatasti in modo da formare una specie di muro, anche con funzione protettiva (nelle vorticose piroette qualche ballerina poteva rischiare di essere lanciata fuori pista da qualche partner troppo vigoroso). Altri piccoli accorgimenti erano disseminati qua e là, in modo da rendere le esibizioni meno scontate: una macchina modello James Bond irrorava la pista con olio, tassativamente extravergine e biologico, in modo irregolare, favorendo a casaccio qualche ballerino; in un punto sempre diverso le doghe del parquet in rovere si sollevavano con ritmi distonici, imprevedibili e violenti, capaci di causare la caduta rovinosa dei concorrenti. Per quell’opera innovativa l’architetto Piqué venne premiato con il Pritzker Architecture Prize e dagli autori Disney Floyd Gottfredson e Art Rabbit con il Pippo d’oro, che riporta la citazione simbolo di Goofy, fondamentale per la sperimentazione in architettura: “Perché gli uomini non hanno costruito tutte le strade in discesa?”
Le squadre, con il loro atleta più rappresentativo come portabandiera, percorsero gioiose e festanti la pista e si sistemarono al centro dei due cerchi dell’otto, arricchiti da splendide siepi simil vere prodotte da un impianto petrolchimico cinese e bandiere con i colori dei paesi partecipanti che garrivano al vento, prodotto da una serie di potenti ventilatori con effetto uragano nascosti nel fogliame sintetico, che di tanto in tanto sfoltivano il pubblico trascinando qualche spettatore nell’aere. Il gruppo italiano era guidato dal re delle balere della BadaniaLucio Moreno Cascai, esperto come nessuno di cha chacha, noto per aver creato l’ingresso sul terzo tempo. (Ma si era trattato di un fatto meramente casuale, dopo essere inciampato e ruzzolato per terra nei campionati regionali mentre stava per entrare sul primo tempo. Come è noto è il caso a favorire invenzioni e scoperte che hanno cambiato il corso della storia.)
Il ritmo d’ingresso era segnato da un piccolo gruppo di giovani musicisti guidato da un tamburino sardo, trasformato per l’occasione in un ballerino di samba con un paio di pantaloni neri semplici, con cintura, camicia bianca con le maniche lunghe, farfallino nero, e uno sfizio di carattere regionale: una berrita nera. La Federazione di ballo latino/americano aveva deciso di aggregarlo alla spedizione nazionale per premiarlo per l’impegno profuso nei campionati nazionali, in cui si era distinto per l’eleganza del portamento e per la maturità atletica, insolita a quella giovane età. Le coppie erano cinque, come le danze da eseguire. Lucio Moreno partecipava insieme a Lucia Frolla alla gara di cha chacha; Deborah Rana con Giulio Avitabile a quella di Samba; Scianca Toninocon la bellissima tirolese di origine francese Francine Glissade erano la coppia per la rumba; Juanito de Cascao (era consentito schierare anche oriundi) e Marianca Zoppas di origine sardo/veneta, campioni uscenti in coppia e nel singolo, non potevano non dedicarsi che al paso doble; per il jive si era deciso di assecondare il suggerimento dell’allenatore federale Giammai Errai che aveva garantito una performance degna di rilievo da parte dei ballerini di scuola nordamericana Johnny Provenzano e Abigail Riina.
La squadra italiana era l’unica ad avere un tappetino musicale fatto in casa ed eseguito da giovani ballerini al seguito che diffondeva nell’aere i sapori musicali delle diverse regioni italiane. L’effetto risultava vagamente cacofonico, ma in quel catino vociante nessuno parve accorgersene; fu apprezzato il portamento e l’insieme degli abiti figli dell’inventiva italica tradotta in forme e modelli dal guru del made in Italy nel mondo Scamosciato Versacci.
La squadra francese provò a superare l’impatto positivo della squadra italiana esibendosi in una serie di giravolte che finirono, a causa di un malfunzionamento delle tavole della pista, per dare luogo a un capitombolo generale dei ballerini fra l’ilarità del pubblico molto ben disposto allo sfottò.
La sfilata proseguì festosa fino all’arrivo della squadra russa che irruppe nel palazzetto trascinando un uovo gigantesco degno di un Fabergé ciclopico. Una volta arrivato al centro della pista l’uovo si aprì e dal suo interno, come da un capiente Cavallo di Troia, uscirono cinque coppie di ballerini danzanti. La sorpresa colpì il pubblico assiepato sulle tribune e un ‘oh!’ di meraviglia percorse i presenti come una ola calcistica.
Tra alti e bassi (in fondo erano presenti anche due nani) la sfilata si concluse e i giudici dichiararono aperta la competizione. Le esibizioni, previo sorteggio, si dovevano svolgere senza interruzione nel seguente ordine: Cha ChaCha, Samba, Rumba, Paso Doble, Jive. Gli italiani ebbero in sorte la settima posizione, subito dopo l’Austria, rivale storica dei nostri. La notizia esaltò lo staff federale perché sognava una vendetta sportiva fin dal precedente campionato, quando con mezzi illeciti i crucchi erano riusciti a eliminare i danzatori italiani. Si era favoleggiato di ricchi regali e straordinarie prebende: si andava da orologi costosissimi per gli uomini e diamanti di alcuni carati per le donne. Nonostante una caduta rovinosa di una ballerina durante il paso doble, i giudici attribuirono dei voti talmente alti da rendere impossibile ogni possibile rimonta. Vinsero, gli austriaci, ma ricorrendo a meschini e fraudolenti atti di corruzione. Stavolta le contromisure prese dai dirigenti italiani scongiurarono un’altra pappetta che ci potesse danneggiare: si erano messi alla pari con gli asburgici regalando ai giurati scorte industriali di alimenti dop, igp, stg, docg, haccp, provenienti da tutte le regioni italiane. Si combatteva alla pari, e che vincesse il migliore!
Dopo le prime fasi le due squadre conducevano la graduatoria a pari merito (I regali di austriaci e italiani erano stati graditi.). Ma successe l’imprevisto, quello che non ti auguri e non ti aspetti: Scianca Tonino, campione italiano di singolo e di coppia di rumba, e secondo classificato nel campionato della vergogna, era scivolato su un asciugamano intriso di olio caduto distrattamente al vice allenatore austriaco proprio al passaggio degli italiani. Il danno, pur non rilevante, impedì al ballerino di proseguire nella competizione. Poiché l’autore dell’esclusione, che si decretò involontaria, era austriaco si concesse alla squadra azzurra di sostituire l’atleta infortunato. Momenti di autentico panico s’impadronirono della spedizione nazionale che non riusciva, nell’immediatezza, a trovare una soluzione. Nessuno riusciva a pensare a un nome che potesse sostituire il nostro più forte atleta. Qualcuno propose di ritirare la squadra per rendere evidente la scorrettezza degli asburgici, e l’idea trovava sempre più consensi anche perché, era convinzione di tutti, senza Scianca Tonino non c’era alcuna chance di vittoria. Quando ormai le speranze erano ridotte al lumicino, si sentì una voce timida e incerta: «Io, posso sostituirlo io!»
Tutti si voltarono per cercare il proprietario di quella voce, di quell’impudente che si proponeva di sostituire il campione. Non fu poca la sorpresa nel constatare che l’impudente era il tamburino sardo, quell’insignificante giovane che partecipava come esperto suonatore di tamburo dalla non irrilevante presenza scenica che riempiva gli occhi delle pulzelle adoranti. La cosa per tutti finiva lì: un vuoto a perdere di bellezza apollinea e niente più! L’allenatore, dopo averlo guardato con stupore, scoppiò in una sonora risata che contagiò la squadra. Forse l’idea non era delle migliori, ma contribuì a riportare un filo di buonumore nella depressa compagine. Pino Gambarotta, questo era il nome del tamburino, guardò offeso il gruppo che lo derideva e non credeva nelle sue possibilità artistiche. Tentò un approccio convincente: «Maestro, mi sono allenato come un ossesso di nascosto. A casa, di notte, provavo con una bambola…ehm…gonfiabile che ho ereditato da uno zio emigrato negli Stati Uniti durante la Grande Depressione. Sono anni che di nascosto seguo gli allenamenti della nazionale, e conosco alla perfezione ogni esercizio preparato per gli europei. Mettetemi alla prova e poi decidete. E poi non mi pare che abbiate molta scelta, a meno che non decidiate per Alvaro Affonda, famoso per le sconfitte inanellate senza soluzione di continuità negli ultimi cinque anni. Provatemi e, se non sarò all’altezza, mi ritirerò in buon ordine facendo il tifo anche per Alvaro.»
Tutti guardarono il tamburino con curiosità e uno dopo l’altro, sperando tuttavia di farsi una sana risata, chiesero al mister di verificarne capacità e competenze. Francine Glissade si offrì con un flessuoso inchino di sottoporre il giovane alla verifica sul campo.
Ci si appartò in una palestra e si fece corona ai due. S’iniziò con un cha chacha travolgente che avrebbe dovuto tarpare le ali al presuntuoso neofita. Gambarotta scivolava via come se nella sua vita non avesse fatto altro che ballare, i suoi piedi accarezzavano il pavimento dando l’impressione di volare, le sue mani comunicavano ai presenti la bellezza della danza e la sua essenza estetica. Passò con semplicità e genialità alla rumba che ballò come mai era stato dato a vedere. Quando completò il suo programma, un appaluso convinto si levò dal gruppo degli italiani, convinti di aver trovato un campione del latino-americano che avrebbe segnato la storia della danza. Erano consapevoli di vivere la nascita di une étoile. Qualcuno si lasciò andare a paragoni irriverenti arrivando a dire che il tamburino sardo era la summa del meglio di Rudolf ChametovičNuriev, Michail NikolaevičBaryšnikov e Vaclav FomičNižinskij. Il maestro/selezionatore fece subito barriera alla nuova star per impedire che altri potessero vederlo. «Deve essere una sorpresa per avversari e pubblico come lo è stata per noi. Fingiamoci depressi per la difficoltà di sostituire il nostro campione, così la vittoria, perché ora so con certezza che vinceremo, sarà appagante e strabiliante proprio perché imprevedibile.»
Seguendo l’astuto consiglio del maestro federale Giammai Errai i componenti della squadra uscirono a capo chino dalla piccola palestra che li aveva ospitati, creando in chi li osservava l’impressione di una sconfitta annunciata. I ballerini furono seguiti con occhi compassionevoli da un pubblico convinto della imminente e ineluttabile sconfitta degli italiani, causata dolosamente da un rappresentante della squadra austriaca.
Le esibizioni ripresero sotto il peso dell’ingiustizia subita dagli azzurri. Gli spettatori fischiarono lungamente e con convinzione i ballerini austriaci, e applaudirono, per rivalsa, ogni passo di danza degli azzurri. La manifestazione si trascinava in sostanziale parità fra i due gruppi migliori, nell’attesa delle coppie finali che avrebbero sancito la sconfitta dei nostri.
Si esibì l’ultima coppia austriaca che ottenne un indiscutibile 9,5/10, il voto più alto della manifestazione, confermando una facile vittoria. Quando l’ultima coppia italiana fece il suo ingresso fu accompagnata da un caloroso applauso di comprensione e incoraggiamento. I due ballerini s’inchinarono per salutare gli spettatori e attesero immobili le prime note di ‘Pão-duro ouPé-frio’ di DamiãoOdisseuNeilson Sbilenco de Moraes. Lievi come farfalle iniziarono a roteare diventando una cosa sola con la musica. I passi si susseguivano dando a tutti l’impressione che solo così poteva essere interpretata la samba. Il pubblico sugli spalti seguiva muto quel vorticare di farfalle su quella pista che sembrava nata per esaltarne gli effetti estetici. Gli austriaci che avevano ormai stappato lo champagne ‘Nous gagnons’ rimasero con i bicchieri vuoti in attesa e torsero il collo all’inverosimile per vedere la causa di quel silenzio ovattato. Ciò che videro li precipitò di botto nella costernazione più totale: sulla pista stava andando in onda la Treccani della samba, la Bibbia della danza, la Divina Commedia del latino/americano. Nessuno fra gli asburgici fu in grado di commentare l’esecuzione stellare della coppia italiana: seguivano ipnotizzati quell’esibizione impareggiabile, da utilizzare nelle scuole come modello da raggiungere. Pino Gambarotta conduceva la compagna con tale abilità da dare l’impressione che non avesse peso e lei si lasciava condurre sognante dalle abili mani del compagno. Passarono al cha chacha senza soluzione di continuità, poi alla rumba avvolti nelle note musicali che ne modellavano i movimenti. Era come se ballassero su uno spartito musicale e i piedi e le mani fossero le note stesse. Il paso doble fu una vera esplosione di sentimenti. La coppia si identificò perfettamente nella rappresentatività dei passi, in quel ricordare il ruolo del matador che utilizza la donna come la capa, il mantello che stimola e controlla il toro. Le figure sembravano allungarsi in modo esagerato e si fronteggiavano con il bacino a contatto e il capo eretto. La distanza fra i due, se un ingegnere avesse potuto controllarla, non variò mai, mantenendosi sempre sui 20 centimetri. Il torace gonfio e il bacino spinto in avanti realizzò, come in un’istantanea, l’immagine del torero che si è soliti vedere nei manifesti spagnoli.
La perfezione dell’esecuzione riuscì a lacerare quel silenzio attonito che aveva accompagnato l’esibizione fino a quel momento e un applauso continuo accompagnò il termine della danza, fino a ritmare il jive con battimani cadenzati.
I giudici dovettero esprimere il loro parere con il sottofondo degli applausi che non voleva terminare, e fu un tripudio di dieci come mai era successo nelle competizioni ufficiali. Gli stessi austriaci riconobbero il valore assoluto della coppia azzurra, in particolare del tamburino sardo, carneade fino alla slogatura dell’uomo di punta della nazionale italiana.
Il presidente della Federazione Danza Sportiva si avvicinò a Gambarotta e gli batté una mano sulla spalla, un gesto fuori dalle regole per quell’uomo tutto d’un pezzo che dava del lei anche ai propri figli: “Bravo. Hai fatto il tuo dovere.”
“Ho fatto il mio possibile,” rispose il tamburino.“Che vuole!” disse il ragazzo, a cui dava coraggio a parlare la compiacenza altiera d’esser per la prima volta vincitore, senza di che non avrebbe osato d’aprir bocca in faccia al presidente federale; “hoavuto la mia occasione e non potevo sprecarla, per me, per la mia nazione e per tutti i dirigenti che tanto stanno facendo per l’affermazione del latino/americano nella nostra Italia. Basta, ho fatto quello che ho potuto. Son contento.Ma guardi lei, con licenza, Presidente, stanco da star male per la tensione.”
“Tu hai salvato l’europeo dell’Italia e ti preoccupi per me, per la mia salute? Sei tu da ringraziare, tu da elogiare, tu da premiare!”
“Signor Presidente!” esclamò il ragazzo meravigliato. “Che dice? Io non merito tanto.”
E allora quel rozzo dirigente che non aveva mai detto una parola mite ad un suo inferiore, rispose con una voce indicibilmente affettuosa e dolce: – Io non sono che un presidente; tu sei un eroe. Poi si gettò con le braccia aperte sul tamburino, e l’abbracciò forte in modo inusitato per un uomo duro che andava fiero del suo passato da rugbista e da wrestler.
L’amor di patria
Gennaio 24, martedì
Poiché il racconto del Tamburino t’ha scosso il cuore ti doveva esser facile, questa mattina, far bene il componimento d’esame: “Perché amate l’Italia.” Perché amo l’Italia? Non ti si son presentate subito cento risposte? Io amo l’Italia perché mia madre è italiana, perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che mia madre piange (come è giusto per una donna: poco capace di gestire emozioni risolve col pianto), e che mio padre venera (un padre non piange: sarebbe poco dignitoso e poco macho) perché la città dove son nato, la lingua che parlo, i libri che m’educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano.
Questo pistolotto retorico, spesso perbenista e ipocrita, si può sentire in qualsiasi luogo pubblico, dove è necessario fare discorsi di convenienza, da veri e propri imbonitori da fiera. Questa banale e inutile tiritera patriotica e nazionalista di stampo elitario ottocentesco non risponde certo a verità. Come padre ho il dovere di farti rilevare quanta retorica si può nascondere nel nazionalismo fine a sé stesso e quanto poco premiante può essere per un giovane che aspira a un futuro ricco di soddisfazioni non solo demagogiche e spirituali. Un’analisi di quell’elenco straboccante di banalità da libro d’appendice, da feuilleton carbonaro, da volantino mazziniano, potrà evidenziare le contraddizioni di questi sentimenti costruiti da pseudo filosofi della morale pubblica, psicologi dell’etica collettiva in cerca di sostegno governativo, sociologi welfare dipendenti, pedagogisti del buonismo perpetuo. Alla fine rimane la sensazione di una regia occulta, di una p2 che organizza il consenso costruendo false strutture educative, deviando le fragili menti dei giovani che come spugna assorbono banalità buone solo per una popolazione permeata dalla volontà di un grande fratello televisivo e digitale. Ma serve a poco lanciare strali contro queste visioni mistificatorie della realtà, meglio analizzarne uno per uno gli assunti prevaricanti di un siffatto sistema del consenso e della schiavitù motivazionale incardinati nell’amor patrio. Cominciamo col dire che si ipotizza un sentimento a senso unico: io amo la patria e per essa mi sacrifico e muoio, se necessario; ma la patria nei miei confronti non ha obblighi, fa quello che può (questa visione è stata magnificamente sintetizzata dal presidente degli USA John Fitzgerald Kennedy: “Non chiedete cosa possa fare il Paese per voi: chiedete cosa potete fare voi per il Paese.”); io le imbandisco la tavola e lei, quando sono fortunato, mi regala le briciole; io fatico, lavoro, produco e crepo per lei e, quando non le servo, mi dice che mi devo fare da parte perché la mia presenza pesa sull’economia del paese e danneggia la crescita; io metto la mia intelligenza e la mia creatività al suo servizio e lei mi organizza un insormontabile percorso a ostacoli per distruggere il mio individualismo produttivo.
Ma veniamo ai fatti nudi e crudi, quelli che chiudono la questione in modo rapido e incontrovertibile. Io amo l’Italia perché mia madre è italiana: che senso può avere una dichiarazione d’amore per traslazione, un senso di appartenenza a una nazione perché chi ci ha dato i natali è cittadino di un determinato stato? E se mia madre fosse stata francese e mio padre italiano? Avrei dovuto scegliere la Francia? E poi perché dobbiamo puntare solo sulla nazione di appartenenza della mamma? Mater semper certa est, pater nunquam? Come tustesso puoi rilevare, figlio mio, l’approccioalla questione mostra, fin dalle prime battute, la banalità di siffatte argomentazioni. Ma non fermiamoci alle prime impressioni per liquidare un sentimento che dicono abbia costruito l’unità della Nazione. Vediamo il punto successivo, quello che mi sembra più pregnante: perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano. Esiste, e questo mette in difficoltà le mie conoscenze scientifiche, un sangue italiano doc, un sangue che decreta la terra di appartenenza? Lungi da me l’idea che siamo tutti uguali, ma voler dare una motivazione scientifica alle nostre origini mi sembra davvero troppo. Sarebbe come dare ragione a quei trogloditi di Badaniache vorrebbero costruirsi una nazione proprio con questa motivazione. C’è anche un altro risvolto in questa stupidaggine ematologica: solo chi ha solide radici in una terra può diventarne cittadino. Penso ai nostri emigranti che hanno segnato la storia di molti paesi stranieri; mi vengono in mente Frank Sinatra, Enrico Fermi (premio nobel per la fisica), Filippo Mazzei (i cui suggerimenti sono dentro la Dichiarazione di Indipendenza statunitense: “All the men are createdequal”), Antonio Meucci, Luigi Palma di Cesnola (fondatore della prima accademia militare USA), Rodolfo Valentino, Joe Di Maggio, il papa Francesco (Jorge Mario Bergoglio), il presidente del consiglio belga Elio Di Rupo, John Florio (lo scrittore conosciuto come Shakespeare) ecc., ecc., ecc. Gli antenati di questi grandi uomini mai avrebbero potuto ottenere la cittadinanza nei paesi che li hanno ospitati perché il sangue era italiano, e con quel ‘per sempre’ sarebbero dovuti tornare in una patria che li aveva costretti ad andarsene, rifiutandoli come figli e come cittadini. Non vorrei però fermarmi ad argomentazioni facilmente vincenti e fin troppo ovvie. Approfondiamo. Perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che mia madre piange: non vale la pena rilevare la visione sessista che costringe la donna a piangere sempre, per rispettare i ruoli che la società assegna, ma, senza che ti sembri un sillogismo, può un pianto dare dignità a una appartenenza? Gli italiani, se fosse vero l’assunto, non dovrebbero mai farsi seppellire in terra straniera, pena la perdita della nazionalità.E i padri, i padri come reagiscono alla morte dei loro cari? I mortiche mio padre venera sono italiani. Il padre venera e la mamma piange! Ma che modelli si propongono ai giovani cittadini! È un correre verso il passato, un negare i processi di mondializzazione ormai irreversibili. Poiché tutto ciò che mi coinvolge è italiano (città, lingua, libri, fratelli, compagni, popolo, natura), non posso che amare la mia patria. Se volessimo cercare il pelo nell’uovo (e non sarebbe solo un pelo), sulla lingua molti ritengono che sia ancora in formazione e che il percorso potrebbe essere interrotto dall’invadenza dell’idioma albionico, favorito dal nuovo grande fratello che si è incarnato in internet e nel computer. Sostenere che i libri che educano sono italiani è di una presunzione senza limiti, ma, soprattutto, stabilisce un limite invalicabile alla circolazione delle idee: ogni nazione educa nella propria lingua per poter poi amare la patria che capisce solo il proprio idioma.Caro Enrico, sarei un pessimo padre se ti dessi come modelli di amor patrio queste idiozie nazionaliste e non cercassi di attrezzarti al confronto con gli altri. Ti dissi più volte nel passato che devi combattere per trovare il tuo spazio nel mondo, un mondo sempre più piccolo, e non più a misura delle varie e fumose patrie. Ai politici piace che sopravviva l’idea di una patria di sopra dei singoli, una patria che succhia dai cittadini il carburante per tirare a campare e, quando non è più sufficiente per tenere in moto la macchina, chiede ai cittadini di rinunciare a qualcosa del loro. Quei signori vivono nel lusso più sfrenato nelle loro megaville e durante le crisi economiche chiedono agli elettori di far fronte ai bisogni della patria riducendo i loro già magri stipendi, fermo restando che i lautissimi guadagni dei potenti non devono conoscere neppure l’idea della crisi.
Ricordati che non devi lasciarti mai trascinare in operazioni che siano finalizzate al bene degli altri perché i flussi di denaro vanno sempre nella stessa direzione e gli utilizzatori finali sono sempre i potenti che gestiscono la società. Tu, figlio mio, cerca sempre di trovarti dalla parte giusta, non stare mai con quelli che devono dare e trova la strada per raggiungere la vetta. Fai in modo da poter dire tu agli altri:«Date per il bene della patria!» Non permettere ad alcuno di sopravanzarti con la banale scusa che è necessario per il bene della patria perché ‘il bene della patria’ è il tuo bene. Cerca di tradurre in pratica il principio evangelico ‘Ama il prossimo tuo come te stesso’, che significa semplicemente che l’amore per sé stessi è il massimo, l’obiettivo primario a cui deve anelare ogni uomo timorato di Dio. Se talvolta in una città straniera che ti ospita per lavoro o vacanza ti dovesse cogliere una punta di nostalgia scacciala con decisione perché si tratta di un sentimento traditore, fallace e corruttore: tu non devi lasciarti condizionare da immagine fuorvianti che ti vorrebbero riportare con la mente in una realtà romantica e posticcia che non è mai effettivamente esistita. La tua casa è là dove tu decidi di costruirla, la tua città è quella dove vivi meglio e i tuoi interessi trovano l’humus ideale per svilupparsi e radicarsi, la tua nazione è quella che meglio tutela te, il tuo lavoro, i tuoi guadagni. Che senso può avere provare nostalgia per un luogo che non ti offre nulla e che chiede il tuo sacrificio? Se proprio non riesci a non pensare al luogo che ti ha dato i natali, aprì il tuo portafoglio, accarezza le carte di credito, simbolo della potenza del denaro, rifugiati nel ristorante più esclusivo e consuma i cibi più costosi, e noterai un affievolimento progressivo dei ricordi della tua infanzia, del tuo passato. Non avere mai dubbi su cosa si deve intendere per patria: è un luogo dove il tuo avere deve superare considerevolmente il tuo dare, e questo deve essere sempre finalizzato a un ulteriore avere.
Ti diranno che sei troppo giovane e tu non puoi ancora sentirlo intero quest’affetto. Insisteranno dicendo che lo sentirai in qualche grande città lontana, nell’impulso dell’anima che ti spingerà fra la folla sconosciuta verso un operaio sconosciuto dal quale avrai inteso passandogli accanto, una parola della tua lingua.È solo allora capirai quanto di ipocrita c’è in questo in questo imbroglio emotivo. Ricordati che gli ispiratori dell’amor patrio sono sempre stati quelli che hanno pensato solo al loro tornaconto, e tu, se vuoi sempre contare sulla mia stima di padre, cerca di trovarti sempre dalla parte di chi ispira e non di chi aspira all’amor patrio.
Tuo Padre
Invidia
Gennaio 25, mercoledì
Anche il componimento sulla patria chi l’ha fatto meglio di tutti èstatoDebossi. E Stirato che si teneva sicuro della prima medaglia! Io gli avrei volutobene a Stirato, benché fosse un po’ vanesio e si rilisciasse troppo; ma mi faceva dispetto, ora che gli erovicino di banco, veder com’era invidioso di Debossi e non sapeva accettare i rovesci del destino, com’era solito ripetere quel trombone di Basso Tullio, mio maestro in seconda. Il famoso filosofo italo/britannico David Norman ShelShapiro era solito sostenere la tesi in una delle sue opere più significative: ‘bisogna saper perdere/non sempre si può vincere’, e mi provavo a ripeterla a Stirato senza fortuna. Non accettava, quel tapino, che nella vita poteva accadere che qualcuno ci superasse, e la cosa non era necessariamente legata al merito.
Tutti sapevano che Debossi barava ignobilmente e non lasciava niente al caso. Per essere sicuro di eseguire tutti compiti in classe nel modo migliore possibile cercava di creare un processo empatico con gli insegnanti, dopo averne studiato attentamente interessi, posizioni politiche e religiose, tendenze musicali, inclinazioni artistiche, ecc. (a casa custodiva un aggiornatissimo archivio degno del KGB, KomitetGosudarstvennojBezopasnosti, dove tutte le informazioni erano minuziosamente schedate); durante i compiti utilizzava in modo efficace, come pochi altri, tutte le tecnologie che lo sviluppo scientifico gli poteva mettere a disposizione, sfruttando le immense conoscenze di un suo cugino esperto in nanotecnologie, collaboratore del CERN di Ginevra. Che poteva fare Stirato di fronte a tanta astuzia e a quella sovrabbondante tecnologia? Io, nonostante non scarseggiassi di risorse, mi ero arreso da tempo di fronte alle capacità da ‘armeggione’ del Debossi, e non riuscivo a capacitarmi dell’ostinazione di Stirato. Era arrivato a un punto di disperazione tale da immergersi nei libri per acquisire il massimo delle conoscenze, aveva frequentato conferenze sulle discipline più disparate, aveva pagato somme notevoli ad autentici luminari universitari perché gli impartissero approfondite lezioni sui diversi insegnamenti scolastici, aveva intrapreso una fitta corrispondenza, grazie all’intercessione di un potente zio cardinale, con diversi premi nobel sparsi nel mondo; ma non era servito a nulla! Non si rassegnava e non si capacitava del successo del suo compagno: il mondo è pieno di persone che non sanno stare al loro posto. Purtroppo questa insana ostinazione lo portava da un’umiliazione all’altra, fino a renderlo ridicolo davanti alla classe e agli insegnanti.
Anche Carlo Pronobis lo invidiava; maavevatanta superbia in corpo che, appunto per superbia, non si facevascorgere. Stirato invecenon riusciva a nascondere il suo disappunto e cercava di darsi un contegno sorridendo a denti stretti. Quando in classe volevamo citare un esempio di bambino che viveva male perché non sopportava il successo degli altri, era a lui che ci riferivamo. Il maestro ci provò in tutti i modi a fargli capire che la vita non era una cosa che potevamo modificare a piacimento e che la società non era il luogo dove abitava la giustizia.Sforzi inutili che non sortirono grandi risultati, creando in quell’uomo volenteroso e saggio una specie di corto circuito educativo: lui sperava che i suoi alunni facessero propri i suoi insegnamenti, finalizzati al principio di Archimede, secondo il quale ‘un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del volume di fluido spostato’. Insomma, per Percattivi gli obiettivi educativi erano raggiunti solo se i suoi alunni imparavano le regole basilari del galleggiamento sociale. Per questo Debossi, maestro irraggiungibile di tecniche di abbindolamento, era per lui un modello da proporre, e gli dava fastidio che Stiratoinvece di imitarlo, mostrando di aver capito le lezioni di vita che la scuola con altruismo e nobiltà impartiva, cercasse di mettergli i bastoni fra le ruote. Arrivò al punto, mentre il maestro faceva lezione, di redigere un messaggio da mostrare a Debossi per palesare la sua noncuranza di fronte ai suoi successi, per comunicargli che sapeva il motivo dei suoitrionfi: “Io non sono invidioso di quelli che guadagnano la prima medaglia con le protezioni e le ingiustizie.”
Il biglietto capitò nelle mani del maestro che, dopo averlo letto, lo appallottolò e lo lanciò con violenza nel cestino dei rifiuti. Guardò l’estensore della missiva e con una cattiveria che pochi gli ricordavano, urlò acido: «Ecco anni d’insegnamento buttati al vento! Il vostro compagno non riesce ad accettare che qualcun altro riesca a sfruttare meglio di lui le mie lezioni di vita. E la cosa che mi rattrista di più è constatare che Stirato ritiene siano difetti gli strumenti usati dal compagno per primeggiare. Questo foglietto, offensivo nel contenuto e nei modi, ha messo in crisi anni di onesto lavoro al servizio dei futuri cittadini. Ho vissuto per voi, miei piccoli ometti, sperando di esservi utile, di aiutarvi nel tortuoso cammino della vita e sono bastati pochi secondi per affossare le mie certezze e sprofondarmi nello sconforto. Grazie, Stirato, per avere così malignamente sepolto tutti i miei insegnamenti in un tentativo di stravolgimento perbenistico.»
Appena terminata la filippica si diresse verso la cattedra e si lasciò cadere sulla sedia affranto. Si tolse gli occhiali e si coprì il volto con le mani, reclinando leggermente il capo in avanti.
Passarono alcuni minuti di silenzio imbarazzato, finchéScorretti non prese la parola: «Signor maestro, sappia che nessuno di noi la pensa come Stirato. Le siamo grati per tutto quello che ci ha insegnato, perché ci permette di affrontare in modo efficace le difficoltà quotidiane. Non è per consolarla, ma posso citare come esempio dell’applicazione della sua didattica quanto mi è accaduto ieri l’altro al supermercato. Fra gli scaffali vidi uno zingarello fare man bassa di cibarie di pregio e qualche giocattolo, ma non dissi nulla, anche perché non erano affari miei. Lo seguii fino alla cassa per cercare di capire come avrebbe superato il rigido controllo dei vigilanti armati fino ai denti e forniti di metal detector ultrasensibili. Notai i movimenti astuti del piccolo ladro e ne apprezzai l’intelligenza: si sistemò vicino al carrello della spesa di una corpulenta signora per evitare il controllo sonoro e far credere di essere in compagnia della donna. Stavo per applaudire con convinzione la riuscita dell’impresa, quando un cagnolino, attirato dal profumo di una salsiccia nascosta in uno zainetto, spiccò salti degni di un circo. Uno dei vigilanti intuì che qualcosa non andava e si avvicinò alla signora per chiedere conferma della parentela apparente con il piccolo. La signora, sdegnata, allontanò lo zingarello e il metal detector iniziò un concerto per sirena e trillo degno di un inseguimento da fiction americana. Il piccolo scattò come un centometrista, e l’avrebbe fatta franca se non avesse inciampato nel guinzaglio del cane che lo seguiva sperando di agguantare la salsiccia imboscata nello zainetto. Il colpevole, caduto rovinosamente e senza più via di scampo, era ormai facile preda dei pistoleri da supermercato. Memore delle indicazioni ricevute durante le sue lezioni di vita, feci una rapida considerazione: ‘Se non faccio niente, il piccolo viene catturato e io non ne ho alcun vantaggio. Se fingo di partecipare alla cattura, potrò ottenere un sia pur piccolo premio.’ Facile la scelta. Allungai una gamba e lasciai credere che la caduta fosse stata opera del mio intervento. Guadagnai per quel gesto una scatola di cioccolatini e il plauso dei vigilanti e dei responsabili del supermarket. Posso dichiarare in tutta sincerità che, senza il suo lavoro scolasticomai avrei agito con tanta astuzia e rapidità. Grazie, signor maestro!»
Percattivi guardò risollevato Scorretti: «Sentirti parlare mi ha convinto che non tutto è perduto, che si può ancora sperare nelle nuove generazioni, che gli sforzi operati dalla scuola nel suo insieme potranno favorire una crescita corretta e armoniosa dei giovani studenti.»
La madre di Affranti
Gennaio 28, sabato
Ma Stiratoera incorreggibile.Alla lezione di religione, in presenza del Direttore, il maestro domandò a Debossi se sapeva a mente quelle due strofette del libro di lettura: “Dovunque il guardo io giro, immenso Iddio ti vedo.”Debossi, preso in contropiede, anche perché aveva appena spento ilsuo nanocomputer costruito da quel geniaccio del cugino, noto nell’ambiente come il Jobs delle Langhe, rispose di no, e Stirato subito, sempre in cerca di rivalse, gridò trionfante: “Io le so!”
Sapeva con certezza a memoria tutti i libri di testo fin da quando aveva deciso di combattere per il primato anche con le armi dei contenuti. Ma, è risaputo, il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Mentre era pronto a dare prova della sua memoria la voce gli venne strozzata in gola dall’arrivo della mamma di Affranti accompagnata da un signore in gessato marrone e borsalino di gran marca. La donna indossava un tailleur Chanel con borsetta abbinata Chanel Diamond Forever Classic, di cui esistevano solo 13 esemplarinelmondo, sfoggiava sbalorditivi capelli ramati appena modellati dalla coiffeuse delle vip Claudine Pompadour Chignon,e oscillava su due tacchi cm 16 firmati Prada. Al suo ingresso guardò il maestro e il dirigente con tutto il disprezzo cheriuscì a vomitare, sentendosi parte di una classe privilegiata alla quale tutto era dovuto a priori, parafrasando una vecchia pubblicità: il ceto che non deve chiedere mai! Fece due passi barcollanti verso il dirigente e si voltò verso l’uomo in gessato elegante: «Avvocato, vuole, per cortesia, spiegare a questi signori come stanno le cose?»
L’uomo di legge si tolse un Borsalino modellato sulla sua testa e lo poggiò sulla cattedra, aprì in modo ostentato la sua Valigetta President Louis Vuitton ed estrasse, tra lo stupore dei due uomini e della classe, un voluminoso fascicolo che appoggiò ostentatamente alla cattedra: «È tutto qui dentro!» disse battendo il palmo della mano sul frontespizio dell’incartamento, per dare peso agli atti formali e chiudere ogni eventuale discussione che ne prescindesse.«Potete leggerlo con comodo o farvelo leggere da un avvocato, cosa che vi suggerisco caldamente. Per darvi un’idea del contenuto vi posso anticipare che c’è una relazione di un collegio medico presieduto dal re della psicanalisi Recupero Francesco e dai docenti universitari Mario Matti e Maria Scossa sulle conseguenze subite dal piccolo Affranti per le mortificazioni alle quali è stato sottoposto da lor signori. Va da sé che è compresa nel pacchetto una denuncia circostanziata all’autorità giudiziaria per i provvedimenti del caso, compreso un sontuoso risarcimento.»
«Se lo prevede l’avvocato Giovan Battista Bega, potete scommetterci la camicia che ci riuscirà. Dovevate pensare alle conseguenze prima di umiliare il mio Giangi (e tutti scoprimmo come veniva chiamato in casa). Un educatore deve comprendere la psicologia infantile, deve saper capire ed educare con pazienza e moderazione. Quando ci si lascia trascinare dall’ira, si diventa pericolosi e non si calcolano bene le conseguenze penali ed economiche. Se un bambino sbaglia, il più delle volte è colpa delle incapacità didattiche degli insegnanti e, in questo caso specifico, anche del dirigente. Io sono una persona tollerante e disponibile, ma quando è troppo è troppo!»
Fece due passi verso l’avvocato e oscillò come un cipresso al vento, tanto che i tre uomini si sporsero in avanti per afferrarla al volo certi che sarebbe caduta rovinosamente. Vibrò per qualche secondo e riuscì a riacquistare la posizione eretta per quelle leggi di fisica non scritte che solo le donne sanno sfidare e assoggettare ai propri voleri.
«Senta, signora Affranti, forse sarebbe il caso di andare a discuterne nel mio ufficio. Gli alunni potrebbero farsi un’idea sbagliata dei meccanismi che dovrebbero regolare i rapporti scuola/famiglia.»E nell’invitarla ad accomodarsi nel suo ufficio allungò la mano indicando la porta.
La donna, istintivamente, si ritrasse, interpretando il gesto in modo sbagliato. Il movimento di rinculo fu brusco e improvviso, e causò un ondeggiamento incontrollato della Affranti sui due trampoli Prada. Compì due giri su sé stessa, allargò le braccia in cerca di equilibrio, incrociò le gambe e permise alla forza di gravità di compiere il suo dovere: ruzzolò sul pavimento nonostante le mani protese dei tre uomini. La borsetta volò versò la lavagna, atterrando rumorosamente sul portagesso; la scarpa destra subì la frattura scomposta del tacco e, si seppe dopo il ricovero in ospedale, che stessa sorte era spettata alla gamba ospite della scarpa.Alfragore della cadutagli alunni sobbalzarono nelle loro sedie, scossi dall’accaduto e dalle modalità di atterraggio della donna. Gli alti lamenti riempirono in pochi istanti l’aula d’insegnanti preoccupati e di bidelli curiosi. Arrivò di corsa anche il dottor Maisano che, avendo constatato la presenza di almeno una frattura, decise di chiamare un’ambulanza del 118. Le maestre si chinarono sulla sfortunata per recarle conforto, ma il medico impedì loro di toccarla per paura che potessero peggiorare la situazione. Dopo cinque minuti l’urlo lacerante di una sirena annunciò l’arrivo dei soccorsi: un giovane e aitante medico, supportato da due infermieri somiglianti in modo strano al nostro Posapiano. Il medico si chinò sulla signora Affranti e le chiese in modo professionale se provasse dolore e dove.
«Dottore, mi duole la gamba destra in più punti, ma sono certa lei saprà risolvere facilmente il problema.»Parlò sbattendo le ciglia a quell’uomo con un fisico super palestrato e il volto incrocio del meglio di Hollywood.
«Stia calma e vedrà che tutto si risolverà nel modo migliore.»L’incoraggiò con una voce figlia di un’accademia d’arte drammatica.
Il ‘sono nelle sue mani’ mielato precedette l’arrivo della barella che servì per il trasporto al centro di ortopedia dell’ospedale cittadino. L’ululato in un rapido effetto doppler si spense in lontananza e lentamente insegnanti e alunni ripresero il loro lavoro quotidiano, anche se nella testa di tutti navigava prepotente la domanda: «Come sta la madre di Affranti?»
Il bollettino arrivò via telefono un’ora dopo: frattura scomposta della tibia e del perone con interessamento dell’astragalo. Tre ore dopo già circolavano aneddoti sul comportamento esuberante della signora, sia al pronto soccorso sia nelle fasi successive. Posapiano, che pareva il più informato, svolse il ruolo delicato dell’inviato, facendo precedere ogni affermazione dal classico e tutelante «così mi è stato riferito e così lo racconto» oppure dal condizionale giornalistico ‘sembrerebbe che’. Venimmo a sapere, applicando una qualche tara, che gridava come un’aquila perché pretendeva la presenza dell’aitante medico del 118 e che minacciava interventi di ministri e plenipotenziari mondiali qualora non fosse stata accontentata. Apprendemmo che aveva/avrebbe steso con la scarpa sedici superstite il primario di ortopedia e due infermiere che invano cercavano di sedarla, ma qui le cautele di Posapiano divennero eccessive e i condizionali si sprecarono; alle precedenti formule cautelative aggiunse un chiaro e risolutivo ‘sono voci incontrollate, un passaparola vago’. Guido La Baracca e il maestro Percattivi uscirono indenni dal tornado perché l’incidente, fu stabilito dagli ispettori ministeriali e dal magistrato inquirente, non avvenne a causa d’interventi diretti dei presenti né a sconnessioni perniciose del pavimento della scuola.
In tutta questa vicenda il giovane Affranti non si mostrò né interessato né preoccupato.
Il Direttore lo guardò fisso, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: “Affranti, tu uccidi tua madre!” Tutti si voltarono a guardarlo. E quell’incosciente sorrise.
Una medaglia ben data
Febbraio4, sabato
Ogni anno il ministero della pubblica istruzione organizzava, per rendere più appetibile la frequenza e maggiore la competizione fra studenti, una contesa senza esclusione di colpi sui contenuti del processo di apprendimento, una sorta di concorso ‘per titoli ed esami’ in cui si valutava l’intero percorso scolastico degli alunni. Ai più meritevoli veniva assegnata una borsa di studio di 1000 euro e una medaglia commemorativa in similoro, alla quale gli studenti davano l’impressione di non tenere in modo particolare. Ai più i soldi facevano gola, anche perché il premio corrispondeva grosso modo al costo congiunto di un tablet e di un iPhone.La nostra classe vantava i più efficienti manipolatori di test e di interrogazioni dell’intera città (qualcuno dichiarò confini molto meno modesti), e i risultati non potevano che premiare l’impegno dei miei compagni. Per la premiazione si scomodò l’ispettore capo regionale Segugio Sapiente, SS per tutti, forse per la tendenza a valorizzare metodi educativi poco ortodossi e abbastanza severi nei confronti di alunni di provenienza straniera o del sud del Paese. Quando entrò in classe con il dirigente, salutò con calore e amicizia il maestro, anche in virtù della sua appartenenza al gruppo dirigente locale del partito ‘Badanialibera e indipendente’. L’ispettore scorse Debossi e lo salutò con un cenno di evidente cameratismo. Per noi non c’era dubbio alcuno sulla destinazione di uno dei premi: Debossi sorrideva certo della vittoria, confermata da una evidente strizzata d’occhi del maestro e da una pacca benevola di La Baracca. La consegna dell’assegno e della medaglia al nostro fu una rapida formalità, condita con un eccesso di complimenti. Sulla seconda medaglia, perché due ne aveva meritato la classe, c’era un che di mistero: tutti la meritavano e nessuno aveva mostrato di saperne più degli altri fino a ottenere l’encomio e il premio. Tutti guardavano tutti per cogliere qualche segno che potesse dare un indirizzo sulla destinazione dei mille euro. L’ispettore godeva di quella tensione che rimescolava il sangue degli alunni e faceva salire l’adrenalina collettiva, riempiendo di eccitazionevelenosa l’intera aula. Nessuno contestava la premiazione di Debossi, perché ognuno riconosceva in lui, se si escludeva il tentativo abortito di Stirato di sovvertire la scala dei valori, il migliore per astuzia, intelligenza, ruffianeria. Ciascuno pensava di poter essere il destinatario della seconda medaglia, e, ovviamente, dei secondi mille euro.
L’ispettore tenne un piccolo discorso sui valori della scuola, sulla necessità di studiare per non farsi scavalcare dagli altri nella scalata sociale e riuscire, aggiungendo la giusta dose di scaltrezza, a occupare i posti migliori nei gangli del potere. La Baracca aggiunse un incoraggiante: «In questa classe, anche per merito del maestro Percattivi, mi pare che abbiano perfettamente recepito i suggerimenti del corpo insegnante e sapranno, in futuro, cogliere tutte le occasioni che si presenteranno.»
Segugio annuì e mostrò di essere compiaciuto dei risultati raggiunti dalla classe. Aprì una busta, quasi a dare un tono di ufficialità alla cosa, e pronunciò la formula di assegnazione del premio: “La seconda medaglia l’ha meritata questa settimana l’alunno Pietro Cilindri: meritata per i lavori di casa, per le lezioni, per la calligrafia, per la condotta, per tutto.”
Nessuno se ne adombrò, tranne il solito Stirato, incapace di accettare l’idea che qualcuno venisse gratificato al posto suo. Tutti fecero i complimenti a Cilindri e gli manifestarono in vari modi la loro solidarietà e amicizia: chi con una pacca sulla spalla, chi con dei bravi sibilati a labbra strette, chi con un applauso muto. Al termine delle lezioni la classe, seguita dall’ispettore, dal maestro e dal dirigente, si avviò verso l’uscita. Davanti all’ingresso sostava il padre di Cilindri che apprese con una certa soddisfazione dei risultati del figlio e commentò: «Sono proprio contento! Questo figliolo dopo tanto insistere ha capito come vanno le cose e come ci si deve muovere per ottenere il massimo con il minimo sforzo. In officina sta iniziando a diventare produttivo e io, da buon padre, mi sto impegnando a insegnargli i trucchi del mestiere perché un domani sarà lui a dirigere l’azienda. Spero s’impegni negli studi perché a me serve una persona capace di parlare inglese e arabo, visto che i miei affari si espandono prevalentemente negli emirati e in Arabia Saudita. Sono certo che nel campo delle esportazioni mi darà qualche soddisfazione. E questo anche grazie a voi, signori, e alla vostra sensibilità pedagogica e didattica.»
Noi gli passammo tutti davanti; io l’invitai a venir a casa giovedì, con Sgarrone e Vurazzu u russu; altri lo salutarono; chi gli faceva una carezza, chi gli toccava la medaglia, tutti gli dissero qualche cosa.
Era una consolazione vedere un padre così legato al proprio figlio e speranzoso sul suo successo futuro.
Buoni propositi
Febbraio 5, domenica
M’ha destato un rimorso quella medaglia data a Cilindri. Io che non ne ho ancora guadagnata una! Io da un po’ di tempo non studio, e sono scontento di me, e il maestro, mio padre e mia madre sono scontenti. Non provo più neppure il piacere di prima a divertirmi, quando lavoravo di voglia, e poi saltavo su dal tavolino e correvo ai miei giochi pieno d’allegrezza, come se non avessi più giocato da un mese. Neanche a tavola coi miei non mi siedo più con la contentezza d’una volta.
Purtroppo le mie colpe erano tali da non meritare molta comprensione da parte dei miei genitori e dei miei insegnanti. Certo il premio a Cilindri aveva scosso le mie certezze, la mia sicurezza di essere un privilegiato a cui tutto era dovuto, e aveva evidenziato, solo per mia incapacità, la difficoltà di imporre la supremazia di casta. Mi ero detto e ridetto mille volte che quel premio non significava che il mio compagnofosse migliore di me o che il mio rendimento scolastico non fosse all’altezza, invano. Tutto nella mia mente sembrava complottare contro di me. Non ero abbastanza cinico? Non ero sufficientemente furbo? La mia capacità di accentrare l’altrui attenzione si stava affievolendo? Non riuscivo più a mettere in pratica gli insegnamenti di mio padre e del maestro? Questi e altri dubbi affollavano la mia mente senza aiutarmi nella ricerca della soluzione alle mie difficoltà scolastiche. Avevo paura di aver deluso le aspettative dei miei familiari e talvolta mi aveva sfiorato l’idea di comportarmi come uno studente che cerca le sue risposte solo sui libri.
Vedevo la sera passar per la piazza tanti ragazzi che tornavano dal lavoro, in mezzo a gruppi d’operai tutti stanchi ma allegri, che allungavano il passo, impazienti di arrivar a casa a mangiare, e parlavano forte, ridendo, e battendosi sulle spalle le mani nere di carbone o bianche di calce, e pensavo che avevano lavorato dallo spuntar dell’alba fino a quell’ora; e con quelli tanti altri anche più piccoli, che tutto il giorno erano stati sulle cime dei tetti, davanti alle fornaci, in mezzo alle macchine, e dentro all’acqua, e sotto terra, non mangiando che un po’ di pane; e provavoquasi vergogna, io che in tutto quel tempo non avevo fatto che scarabocchiare di mala voglia quattro paginuccie.
L’immagine di quei poveri cristi mi riportò alla realtà e mi rese consapevole della mia condizione privilegiata e della necessità di contribuire a mantenere inalterati certi valori sociali. Esistono analisi svolte dai più influenti scienziati ed economisti che ritengono che i rapporti fra gli uomini sono strutturati come vasi comunicanti: per consentire ai ricchi di mantenere il loro tenore di vita è necessario che i poveri continuino a tenere basso il loro. Questo lo capivo e lo avevo fatto mio, ma non riuscivo a darmi pace per il fatto che altri potessero avere più di me: il discorso dei vasi comunicanti diventava ostico quando dovevo essere io a permettere ad altri di avere di più. Mi rendevo conto della mia fortuna quando vedevo gli operai transitare davanti alla scuola, eppure…
Pensai a ogni possibile soluzione per capovolgere la sorte avversa, ripromettendomi di accettare, sia pure dopo avere lottato con i compagni sfruttando ogni possibile trucco, anche di non essere il primo. Osare, osare, osare, sarebbe stato da quel momento il mio motto. Animo, al lavoro! Al lavoro con tutta l’anima e con tutti i nervi!
Un gioco da ragazzi
Febbraio 10, venerdì
Cilindri venne a casa, con Sgarrone. Io credo che se fossero stati due figliuoli di principi non sarebbero stati accolti con più festa. Sgarrone era la prima volta che veniva, perché è un po’ orso. Andammo tutti ad aprir la porta, quando suonarono. Vurazzu u russu non venne perché gli era finalmente arrivato il padre dall’America, dopo sei anni. Pare che fosse rientrato precipitosamente per questioni non molto chiare e che dagli Stati Uniti avessero mandato, tramite l’Interpol, una richiesta d’informazioni. Portò regali costosi a tutti i familiari e parenti, e i saluti dei parenti americani. In particolare un abbraccio dal padrino di Vurazzu Giuseppe Quattrodita (il mignolo l’aveva perso durante una partita a zecchinetta terminata in modo burrascoso). Mia madre baciò subito Cilindri, anche per complimentarlo per il premio scolastico conquistato pochi giorni prima. Esibiva la sua medaglia, ed era contento perché suo padre l’aveva finalmente coinvolto in progetti meccanici ambiziosi: aveva partecipato alla riverniciatura di una Mustang M-FR500-BOSS R1 azzurra appartenuta a un attore straniero in Italia per le riprese di un film sulla malavita locale. Il padre gli aveva permesso di scegliere anche il colore, un rosso Ferrari che sembrava dare nuova grinta agli otto cilindri di quel mostro divora-asfalto. Il lavoro era stato eseguito in modo perfetto, lasciando tutti i meccanici stupefatti per la professionalità mostrata dal ragazzo. «Quasi dispiace inviarla ad Abu Dhabi a qualche emiro ingolfato dai petrodollari, ma gli affari sono affari; e poi in Italia non potrebbe circolare.», affermò il capofficina Francesco Tenaglia, noto nell’ambiente della ristrutturazione auto con il nome di Candeggina.
Dopo il saluto di Sgarrone, ricambiato con allegria dai miei genitori, giocammo a lungo con l’ultimo videogioco:‘I killmydearest friends’ della The slaughter of the innocents di Filadelfia. Nonostante l’apparente impaccio, visto il truce svilupparsi degli avvenimenti, fu Cilindri a seminare il suo percorso di gioco del maggior numero di vittime. Giocò d’astuzia, il verme, e s’infilò in alcune scuole del centro storico dove maggiore era la presenza di alunni, in particolare immigrati, e poté seminare terrore e morte prima di essere catturato dalle forze dell’ordine. Io, pur indispettito per la sconfitta in un gioco in cui primeggiavo, non potei non riconoscere l’abilità del compagno. Poiché mostrò di amare particolarmente quel gioco, pensai di regalarglielo (anche perché ne possedevo due copie, ricevute nel Natale precedente da due zii con tendenze necrofile, come sottolineava mio padre quando voleva fare un commento spiritoso). Guardai interrogativo mio padre che, ammirando l’abilità manuale di Cilindri, mosse il capo assentendo. Sfilai il dvd blu-ray dalla consolle, lo rimisi nella custodia e lo consegnai al mio amico: «Nessuno era mai riuscito a battermi. Visto che ti piace, spero tu gradisca il regalo. Potrai allenarti a casa e magari partecipare ai campionati mondiali che si tengono a Littleton (Colorado), nei pressi della Columbine High School. Sono sicuro che, con un allenamento adeguato, faresti la tua porca figura.»
Cilindri mi guardò riconoscente, anche perché quel videogioco era stato messo in vendita in edizione speciale solo per Natale e le copie erano andate rapidamente esaurite. «Ti ringrazio per la gentilezza. Ho provato in mille modi a entrarne in possesso, tentando di scaricarlo da Torrent ed Emule, senza grande successo. Sarò l’invidia degli amici per questo gioco cool e tutto per merito tuo. Grazie Enrico, grazie di cuore.»
Sgarrone, con quelle sue manone, irrobustite anche dalle lezioni di karate, non riusciva a essere rapido nella fase di sparo e più volte era stato abbattuto dalla polizia prima ancora che terminasse il suo primo livello stragista. «Non fa per me», sorrise Sgarrone. «Credo che sia proprio tagliato per voi due, per le vostre indubbie qualità manuali. Io sono più portato per le attività fisiche come il karate e il ju-jitsu. Sono sicuro che il nostro Pietro riuscirebbe a sconfiggere quelle pappamolle degli americani: uccide con una rapidità e scientificità da chirurgo di guerra. Sarebbe una bella soddisfazione avere in classe il campione mondiale del videogioco ‘Io uccido i miei più cari amici’.»
I miei genitori guardavano compiaciuti quell’essere squadra che io e i miei amici mostravamo in ogni fase del gioco.
Dopo alcune ore davanti allo schermo della consolle, che stabiliva in modo inequivocabile e continuo la vittoria di Cilindri, e dopo una lauta merenda a base di merendine al cioccolato, pane vergognosamente imbottito di Nutella, e Coca Cola no limited, i due ragazzi salutarono allegramente e si diressero verso l’uscita. Pietro indugiò davanti all’uscio, si voltò e mi disse: «Un giorno verrai all’officina a veder mio padre a lavorare. Ti daròun sistema di riproduzione audio che ho tolto qualche tempo fa da una Maserati GranTurismo MC Stradale MY13ru…ricuperata nei pressi del Duomo di Milano.»
Sgarrone, felice per la pantagruelica merenda, ringraziò mia madre e uscì canticchiando un motivetto orecchiato in televisione che recitava più o meno:
“Ma che ce frega, ma che ce importa,
se l’oste ar vino c’ha messo l’acqua,
e noi je dimo, e noi je famo,
c’hai messo l’acqua, e nun te pagamo, ma però,
noi semo quelli, che jarisponnemo n’coro,
è mejoer vino de li Castelli
che de sta zozza società.”
Una canzone che completava magnificamente la giornata, scritta da un anonimo ma delicato poeta della capitale; una canzone grondante buoni sentimenti e desiderio di divertirsi con semplicità.
Superbia
Febbraio 11, sabato
Carlo Pronobis si puliva la manica con affettazione quando Cilindrilo toccò, passando! Costui era la superbia incarnata perché suo padre era un riccone.Ma nella classe, altamente selezionata, se si esclude qualche unità insignificante proveniente dal sud dell’Italia, i figli di ricconi, evidenti o dissimulati, erano la maggioranza. Talvolta stentavo a credere che Carlo proseguisse imperterrito a porsi con gli altri in modo indisponente e provocatorio. Pronobisavrebbe voluto avere un banco per sé solo, avevapaura che tutti lo insudiciassero, guardava tutti dall’alto al basso, avevasempre un sorrisosprezzante sulle labbra: guai a urtargli un piede quando s’usciva in fila a due a due! Per un nulla buttava in viso una parola ingiuriosa o minacciava di far venire alla scuola suo padre. Non gli era servito a niente lo scontro del babbo con il macellaio/potente massone padre di Peti: continuava a considerarsi onnipotente, perdendo di vista lo schema sociale formato come una piramide a gradoni. Sembrava proprio che ignorasse volutamente gli apprendimenti scolastici, perno e vanto di tutto il lavoro didattico di Percattivi.
Nonostante a nessuno importasse granché delle sue arie e della sua albagia, il suo eccessivo esibizionismo padronale infastidiva tutti, perché non era l’unico a poter esibire ricchezze o potere. La classe era spesso meta di politici locali, amici di questo o quel genitore, o, semplicemente, mezze calzette alla ricerca di un potente che ne tutelasse e sponsorizzasse la carriera.Lasciò un ricordo non del tutto positivo la visita nel mese di gennaio dell’onorevole Emanuele Filiberto Tromboni, presidente del gruppo parlamentare maggioritario. Ma ancor di più aveva impressionato Peppino Camaleonte (nome d’arte per Giuseppe Vomito), famoso per le sue barzellette che facevano gemere di dolore gli uomini presenti e per l’incapacità di fare una proposta politica coerente e comprensibile (urlava parole senza senso per attirare l’attenzione degli altri), candidato unico al soglio pseudo repubblicano del Sommovimento Cieco, nato nel lontano 2000 in un cascinale nelle vicinanze del canale di scarico delle fogne genovesi attorno alle parola d’ordine: “Via il finanziamento ai partiti, diamolo ai ‘sommovimenti’ perché rappresentano il popolo.”La teoria di questo ‘sommovimento’ era basata sulla forza della comunicazione che si doveva esprimere inviandosi comunicazioni telepatiche, grazie anche all’intervento del Mago delle Molinette, insufflato via etere dall’al di là dal mago per antonomasia Helenio Herrera. Il candidato del Sommovimento si era esibito nell’anfiteatro della scuola nell’imitazione del serpente e del maiale, aiutato da uno staff di cinque star, rigidamente baldracche di scuola olandese, e da un guru che si era arrampicato su una corda al suono del piffero. La cosa ebbe un risvolto comico quando la corda si ammosciò e il guru GianscopertoAnchepeggio rimase appeso con la folta chioma ricca di ricci e boccoli in perfetta piega al soffitto per mezzo di una trasparente lenza per pescecani.Posapiano, in quanto Rsu addetto alla sicurezza, si diresse con una flemma divertita verso il deposito attrezzi per prendere la scala a libretto atta a liberare quel disgraziato di Anchepeggio, che continuava a urlare per il dolore e per la paura di pagare con lo scalpo un prezzo troppo alto all’impegno politico.
Era una passerella obbligata per chiunque tentasse la strada politicaattraverso le comparsate nella scuola di ‘Via Al lavoro nei campi’, intitolata all’eroe cittadino Gingo Scopa, vincitore della finale della gara di tresette contro il rappresentante della città di Casaldigonzo nel lontano 1960, in margine alle olimpiadi di Roma.
In quel prestigioso istituto,dove tutti i potenti cercavano di fare almeno un passaggio, una capatina per poter dire ‘io c’ero’, Pronobis pensava di aver diritto lui solo alla giusta dose di notorietà, cercando di sminuire chiunque gli fosse vicino denigrandolo e offendendolo. E lui non poteva patir nessuno, e fingeva di disprezzar sopra tutti Debossi, perché era il primo.
Però qualcosa non mi quadrava completamente. Mi ossessionava la domanda del perché il maestro dava del tu a tutti meno che a Pronobis, al quale si rivolgeva dandogli del voi, come si usava con persone importanti, un quasi plurale maiestatico.
Il giorno precedente si lamentò col maestro perché il calabrese gli toccò una gamba col piede. Il maestro domandò al calabrese: “L’hai fatto apposta?” “No, signore,” rispose franco. E il maestro: “Siete troppo permaloso, Pronobis.”
Mi rimase sempre qualche perplessità sul perché il calabrese meritava il tu e Pronobis il voi. Pensai più volte che fosse un qualche criptato sistema pedagogico/didattico di chissà quale pedagogista statunitense per convincere il reprobo a cambiare registro aumentando la distanza con un distaccato ‘voi’, ma non riuscivo mai a trovare una risposta che avesse un minimo di logica. Forse, dico forse, era soggezione al potere e basta! Non c’era di che meravigliarsi se Percattivi aveva scelto l’adulazione per chi rappresentava il potere: da sempre si era mostrato sensibile alle volontà dei potenti fino a meritare il soprannome di plastilina, per la sua capacità di aderire perfettamente ai desideri e alle volontà di chi riteneva che avesse un qualche ruolo sociale e potesse essergli utile. L’impressione che le cose stessero proprio così mi fu confermata dalla mancanza del commento finale del maestro, uno di quei commenti che in più di un’occasione ci avevano aiutati a trovare le risposte ai quesiti più spinosi della nostra giovane vita: era chiaro a tutti che Percattivi non voleva in alcun modo disturbare il padre del giovane Pronobis, relazionando sulle marachelle del figlio a scuola.
I feriti del lavoro
Febbraio13, lunedì
Pronobisfacevail paio con Affranti: non si commossero né l’uno né l’altro, questa mattina, davanti allo spettacolo terribile che ci passò sotto gli occhi. Uscito dalla scuola, stavo con mio padrea guardarle esibizioni sul ghiaccio di certi birbaccioni della seconda: riuscivano a percorrere il marciapiede fino alla fermata dell’autobus, circa 100 metri, scivolando con l’ausilio degli zaini usati come slitte trainate da altri birboni per mezzo delle cinghie. Le mamme non sarebbero certo state contente nel vedere quelle esibizioni che terminavano con lunghe frenate con le ginocchia con relativa lacerazione dei pantaloni; i più furbi piantavano i fondi a carro armato delle scarpe sul ghiaccio, ottenendo una frenata meno efficace ma più… difensiva nei confronti delle mamme troppo violente e repressive.
Quella mattina sembrava scorrere come tutte le altre fra scherzi, lazzi e docenti infuriati, sia per la poca educazione degli alunni, sia per gli scarsi stipendi e le progressioni di carriera bloccati dal ministero dell’istruzione da ormai dieci anni. L’ululato di più sirene in avvicinamento colpì la classe come una frustata: tutti si rizzarono in piedi per vedere oltre i vetri della finestra quanto stava accadendo. Poiché non era usuale sentire insieme l’urlo di più sirene, tutti spiaccicarono il naso sui vetri per meglio vedere ciò che stava accadendo. Notammo un via vai fuori dal normale nel palazzo in costruzione quasi di fronte alla scuola. Il cantiere era stato, qualche tempo prima, oggetto di contestazione da parte di gruppi ecologisti per l’utilizzo nella costruzione di materiali prelevati in una fabbrica costruita nelle immediate vicinanze di una discarica di rifiuti speciali che aveva del miracoloso: nonostante ogni giorno centinaia di camion riversassero il loro inquinante contenuto, gli accumuli non tendevano mai a crescere. La fabbrica di laterizi e manufatti di cemento seguiva lo stesso percorso della discarica con la differenza che tutti vedevano i camion uscire a centinaia stracarichi di mattoni, tavelle e travi di cemento, e pochissimi erano quelli che rifornivano le linee di produzione con le materie prime. Le perplessità su questo strano sistema di produzione portarono non pochi a sospettare che tra la discarica e la fabbrica ci fosse una relazione stretta. Oltre ai sospetti sulle origini altamente inquinanti delle materie prime utilizzate nella costruzione di un grattacielo di 50 piani,ideato dal grande architetto di MontepulcianoGianleonardo Mezzolitro, che già aveva progettato e diretto la costruzione della sede nazionale ‘Mutilati e invalidi’, suscitando qualche perplessità per la sua forma a sedia a rotelle, i consiglieri comunali dell’opposizione, sempre contrari a ogni innovazione, criticavano la struttura informale dell’edificio più vicino a un decanter che alla struttura di uffici pubblici.
Di fronte al cantiere si era raccolta una folla urlante e una dopo l’altra arrivarono una decina di ambulanze. Medici e infermieri scesero dai mezzi e si precipitarono di là della staccionata che impediva di mettere a fuoco quanto stava succedendo. I portantini trascinavano le barelle che ritornavano nelle ambulanze portando il loro carico umano: si intuiva che non pochi dovevano essere i feriti all’interno del cantiere e che qualcosa di molto grave era accaduto.
Senza che alcuno autorizzasse la cosa, gli insegnanti, seguiti dagli alunni, si ritrovarono incuriositi sul marciapiede opposto, insieme a una folla che andava via via aumentando. Il lacerante suono delle sirene, modello Londra sotto le bombe, rendeva difficile la comunicazione fra i presenti che cercavano di capire che cosa fosse capitato. Circolavano le voci più fantasiose: qualcuno sosteneva che, parimenti alle Twin Towers, un aereo si era infilato nell’ultimo piano della costruzione causando il crollo degli ultimi dieci piani; un altro giurava che un commando di fanatici brasiliani della zonaMorro de Sao Paulo raccolti nella fazioneHasta la bossa nova siempre aveva assaltato il cantiere e teneva in ostaggio il personale insieme all’architetto Gianleonardo Mezzolitro. Qualcuno disse che nel tafferuglio che ne era seguito alcuni contendenti si sarebbero scambiati convenevoli sovrabbondanti: i bossanoviani linea rossa, come venivano semplicemente chiamati per una fascia rossa in vita, scagliarono contro gli avversari ogni tipo di strumento musicale e gli avversari ricambiarono con un copioso lancio di cazzuole, metri lignei, talosce, frattazzi, sparvieri, secchi e conche. Una terza versione prendeva sempre più piede in quella folla chiassosa ed era basata sulle teorie degli apocalittici che si dichiaravano convinti dell’origine aliena dell’umanità; secondo questa molto confusa e controversa teoria detta manicomiale gli uomini stavano per imboccare una strada senza ritorno e solo la fede nei figli di Orione avrebbe garantito la salvezza: il preannuncio della prossima fine si sarebbe materializzato con la caduta di un meteorite che avrebbe perforato l’edificio come lama calda nel burro. Queste confuse e folcloristiche teorie si accavallavano senza che una prevalesse sull’altra e senza che ci fosse il benché minimo straccio di prova. La verità lentamente si fece strada fra la folla: il solaio dell’ultimo piano, costruito con materiale proveniente dalla fabbrica contestata dagli ambientalisti, aveva ceduto travolgendo 10 operai. Fra l’ululare delle sirene, il pianto dei parenti dei feriti e delle vittime si levò alta la voce dell’ingegner Crollo, primo aiutante di Mezzolitro: «Cari signori, qui non si tratta più d’incidente, cosa che può sempre capitare quando si lavora, ma di un vero e proprio boicottaggio. Alcuni operai, e sapremo individuare chi, e ne dovranno pagare le conseguenze, hanno imprudentemente attivato la betoniera per preparare il cemento per gli intonaci e non si sono resi conto degli effetti devastanti delle piccole vibrazioni sulle strutture portanti. A peggiorare la situazione vi erano nello stesso istante dodici operai sul solaio dell’ultimo piano; cosa da noi sconsigliata perché si deve accedere ai locali non più di tre per volta. E come se questo non fosse sufficiente l’intonacatore aveva posizionato il montacarichi a una finestra del penultimo piano. Sorvolando sul fatto che tutti gli operai usavano gli scarponi antinfortunistici, che provocano onde sonore a ogni passo.È evidente che c’è stata negligenza e approssimazione. L’azienda è dispiaciuta per quanto accaduto e sta valutando se sarà il caso di non scaricare sulle famiglie delle vittime e dei feriti il costo delle riparazioni causate dall’imprudenza, però va detto con forza che se la sono proprio cercata. Alla stampa verrà consegnata una relazione dettagliata su quanto è accaduto e sulle responsabilità, chiedendo la cortesia di non citare i nomi dei colpevoli che sono ovviamente tra le vittime.»
La gente ormai riempiva totalmente la carreggiata. Tutti guardavano con morbosa curiosità le barelle che portavano i feriti verso le ambulanze e le voci s’incrociavano alla ricerca di nomi di feriti o di defunti. Qualcuno aveva visto un gruppo di muratori di colore lasciare il cantiere di soppiatto, quasi per impedirne l’identificazione. I più informati parlarono di lavoro in nero, utilizzato a piene mani (altrui) con la connivenza degli ispettori dell’Inppim (Istituto nazionale per la protezione dagli infortuni e dalla malasorte) guidati dal dottor Giuseppino Connivente e dalla dottoressa Amelia Fattura, allieva prediletta del dott. prof.stella al merito del lavoro degli altri Igor Rasputin, docente emerito dell’Accademia delle scienze occulte di San Pietroburgo. Nel chiasso generale e nella confusione totale si sentivano, portate dal vento, le voci di sponsor di società di onoranze funebri che decantavano il loro servizio e la loro discrezione; e, con un approccio molto professionale, uno stuolo di avvocati distribuiva biglietti da visita ai parenti delle vittime. Non tardò a unirsi alla compagnia il maestro/avvocato Massimo della Pena che poteva vantare la conoscenza diretta dei parenti delle vittime perché i loro figlioli frequentavano quasi tutti la nostra scuola.
Nessuno, in quella tragedia, si sognò di colpevolizzare i proprietari e i progettisti del grattacielo. «Del resto», sottolineò qualcuno dei presenti, «è l’unico modo per far crescere l’economia del Paese. Non è il momento di essere troppo choosy in patria, mentre le nazioni in via di sviluppo hanno un aumento della produzione a due cifre. E che interesse avrebbe poi il costruttore a creare problemi? Non gli conviene richiamare l’attenzione delle forze dell’ordine, della magistratura giustizialista, di ispettori del lavoro in cerca di notorietà, di ambientalisti frustrati.»
«Ma ci sono dei feriti e dei morti! Non mi pare che sia una cosa trascurabile. Dobbiamo sapere se ci sono state colpe o negligenze, se le cause del crollo sono da attribuire a meschini calcoli economici, se i materiali utilizzati non sono a norma… E mille altri sarebbero i dubbi da chiarire.»
«Lei è uno dei soliti idealisti che hanno portato il nostro Paese sull’orlo del baratro con la richiesta di un fisco più equo, con un maggiore controllo nei processi produttivi, con la criminalizzazione della ricchezza, con la richiesta continua di maggiori spazi di democrazia, che ancora non sappiamo che cosa esattamente sia. Sarebbe ora che qualcuno ben deciso sappia proporre al popolo incerto e diviso una via d’uscita basata sul ‘tutti a casa’ quelli che pensano che per decidere siano necessarie libere elezioni e perdono tempo in discussioni superflue e soporifere nelle aule parlamentari. I tempi sono cambiati e la democrazia 3.0, ma anche 3.5 o 4.0, abbisogna di piglio decisionista e scelte rapide. Per questo è necessario un uomo solo al comando, al massimo due, con compiti chiaramente divisi: uno studia e propone, l’altro prende le decisioni per il bene di tutti. Se in questo processo verticistico chi comanda si arricchisce non deve scandalizzare, perché la ricchezza non è una colpa ma il frutto di un’intelligenza superiore. Nessuno criticherebbe mai l’arricchimento di un Picasso o di un Leonardo da Vinci, perché frutto del loro personale genio; non si capisce l’ostilità per chi elabora sistemi acchiappagonzi parimenti frutto di genio individuale.»
«Lei», disse un giovane dalla zazzera scultorea, «rappresenta il passato che noi giovani combattiamo. La rottamazione è anche un processo di selezione fisica che porta i migliori a sopravvivere. Chi è morto o è rimasto ferito era destinato, prima o poi, a essere eliminato da chi va più veloce e sa operare le scelte giuste. Non diamo colpe a deficit di sicurezza o amenità del genere, è solo un corretto e lineare processo di evoluzione.» Le ultime parole furono declamate con tono stentoreo e non sfuggirono al rappresentante della proprietà. Si avvicinò al giovane e gli batté una mano sulla spalla in segno di approvazione: «Giovanotto, sono l’amministratore delegato dell’azienda e rappresento la proprietà. Quello che lei ha affermato mi ha colpito, il mondo del lavoro ha bisogno di gente con le idee proiettate al futuro. Sarei felice di averla fra i nostri collaboratori: questo è il mio biglietto di visita, può chiamarmi quando vuole.»
La folla lentamente si disperse, gli alunni rientrarono nelle classi e il maestro Percattvi non perse l’occasione per chiudere la giornata con uno dei suoi efficaci sermoni morali: «Ragazzi, credo non ci sia bisogno di grandi spiegazioni su quanto vi è capitato di vedere e sentire, ma credo a nessuno sia sfuggito il ruolo avuto dal caso in questa vicenda. Quel giovane mai avrebbe trovato l’uditorio giusto per far valere i suoi convincimenti se non ci fosse stato il crollo nell’erigendo palazzo dei mutilati e invalidi. Va sottolineato che non sempre bastano le idee giuste, se non si presenta l’occasione opportuna. Quando succederà a voi, e succederà, sappiatela cogliere senza esitazione.»
Il prigioniero
Febbraio 17, venerdì
Ah! questo era certamente il caso più strano di tutto l’anno! Mio padre mi condusse ieri mattina nei dintorni di Cortina, a vedere una villa da prendere a pigione per l’estate prossima, perché non saremmo andati più aViareggio; e si trovò che chi aveva le chiavi era un maestro, il quale faceva da segretario al padrone.Egli ci fece vedere la casa, e poi ci condusse nella sua camera, dove ci diede da bere. C’era sul tavolino, in mezzo ai bicchieri, una custodia in pelle nera, di formarettangolare, con una scritta molto singolare. Vedendo che mio padre laguardava, il maestro gli disse: “Quell’astuccio lì mi è prezioso: se sapesse, signore, la storia di quell’astuccio e del suo contenuto!”E la raccontò: anni sono, egli era maestro nel carcere dell’Asinara, e andò per tutto un inverno a far lezione ai prigionieri soggetti all’articolo 41-bis della cosiddetta Legge Gozzini, su deroga del ministro Impelagato, persona di grande umanità e cuore con chi stava dietro le sbarre per colpe efferate che lui attribuiva alla società deviante e poco comprensiva con chi sbagliava. Il ministro, per la sua bontà, era chiamato con affetto mamma santissima. Il maestro si occupava della casa delle vacanze, teneva le lezioni nella ex mensa ristrutturata da un’azienda siciliana gestita dal fratello del ministro: quando si è buoni lo si è fino in fondo. Il progetto era stato affidato al grande architetto che aveva progettato il porto di Santa Deviata ed era riuscito a rendere confortevole anche quel luogo una volta tetro e poco ospitale: i banchi altro non erano che scrivanie Frau in frassino dalle geometrie morbide, con terminali in cuoio lavorato a mano; in prima fila spiccavano tre scrivanie in noce del Settecento con ampie e comode poltrone tarate sul fondo schiena di tre super carcerati: GerlandoMalutèmpuGreco, Rosario Baruni De Profundis, Nitto Gabillòtu Bonsignore, tutti e tre considerati i padrini della vivace scolaresca. Il maestro insegnò loro a scrivere su dei pezzetti di carta, quasi fosse un gioco. La didattica sembrava poco ortodossa e in nessun libro se ne trovava traccia, ma i risultati furono straordinari: tutti impararono a leggere e scrivere su quei pezzetti di carta (o pizzini, come simpaticamente li avevano ribattezzati in dialetto siciliano, concorrendo alla diffusione mondiale del termine e del suo utilizzo). Alla fine dell’anno, grazie alla morte prematura e poco chiara del papa, venne emesso un decretodi amnistia globale, voluta fortemente dal ministro Impelagato e dal Presidente Dormiente, capo della Commissione parlamentare delle commissioni, delegata a stabilire amnistie e condoni secondo la scientifica teoria del caos; e tutti i carcerati vennero rispediti,liberi da ogni colpa, nelle rispettive regioni di provenienza. Passarono sei anni. «Io pensavo a tutt’altro che a quel carcerato definito dai compagni padrino», disse il maestro, «quando ieri l’altro mattina mi vedo capitare a casa uno sconosciuto, con una gran barba nera, già un po’ brizzolata, vestito in modo elegante ma appena kitsch; il quale mi disse: ‘È lei signore, il maestro tale dei tali?”“Chi siete?” gli domando io. “Sono uno dei carcerati dell’Asinara,” mi ripose; “m’ha insegnato lei a leggere e a scrivere, sei anni fasu quei piccoli pezzi di carta: se si rammenta, all’ultima lezione ci siamo salutati perché era sopravvenuta un’amnistia per la morte del papa e oggi sono qui a pregarla che mi faccia la grazia d’accettare un mio ricordo, una cosuccia che ho fatto confezionare dal mio orafo di fiducia. La vuol accettare per mia memoria, signor maestro?” Fece schioccare le dita e apparve sulla porta un omaccione con questa scatola in pelle nera. L’aprì e apparve una penna d’oro tempestata di diamanti. Io rimasi lì, senza parola. Egli credette che non volessi accettare, e mi guardò, come per dire: “Forse non ti rendi conto dell’onore che ti sto facendo, e non è previsto che tu possa rifiutare!”Mi guardò con un’espressione perplessa e le sue labbra si contrassero formando una piega severa sul lato sinistro della bocca, e gli occhi divennero piccoli e minacciosi. Per evitare che il mio rifiuto turbasse troppo Gerlando Malutèmpu Greco tesi subito la mano e presi l’oggetto. Eccolo qui. Non fu un sacrificio accettare il regalo, perché l’oggetto era molto bello e di gran valore.»Guardammo attentamente la penna: il nome Tiffany scritto con diamantini ne indicava la provenienza newyorchese e la bellezza ne denunciava la maestria di chi l’aveva confezionata. Sul fondo della scatola in pelle nera, incisa in caratteri d’oro: ‘Al mio maestro. Ricordodei giorni passati a compilare pizzini.’E sotto, in piccoli caratteri: “Scrivere è il modo migliore di comunicare!”Il maestro non disse altro; ce n’andammo. Ma per tutto il tragitto, io non potei più levarmi dal capo quel prigioniero così riconoscente per avere imparato a leggere e scrivere secondo una tecnica poco ortodossa ma che tanto gli era servita per comunicare con amici e parenti, e fare carriera nell’associazione di cui col tempo ne era diventato il capo;e lo sognai la notte, e ci pensavo ancora questa mattina… quanto lontano dall’immaginare la sorpresa che m’aspettava alla scuola! Entrato appena nel mio nuovo banco, accanto aDebossi, raccontai almio compagno tutta la storia del prigioniero e della pennae come era fatta, e quell’iscrizionenella scatola in pelle: “Ricordo dei giorni passati a compilare pizzini.”Debossi scattò a quelle parole, e cominciò a guardare ora me ora Vurazzu u russu, che era nel banco davanti, con la schiena rivolta a noi, tutto assorto nel suo problema. “Zitto!” disse poi, a bassa voce, pigliandomi per un braccio. “Non sai? Vurazzu u russu mi disse avant’ieri d’aver visto di sfuggita una penna doratatra le mani di suo padre ritornato dall’America: una penna con su scritto Tiffany con delle pietroline brillanti come il sole. Per non parlare della scritta di cui mi hai parlato. È chiaro che il padre di Vurazzu u russuè stato in prigione per questioni di famiglia ed è stato graziato quando è morto il papa; pare che laggiù, nel nuovo continente, abbia fatto fortuna lavorando nel campo delle assicurazioni per la difesa delle attività commerciali e sia entrato in stretto rapporto d’affari, fino a costituire una società stimata e onorata con persone importanti e influenti, legate a doppio filo con le grandi holding finanziarie di Wall Street e con influenti lobby politiche.
Sarebbe il caso che non si parlasse della cosa con Vurazzu. Anzi proporrei di consolidare l’amicizia per poter, qualora ce ne fosse la necessità, usufruire delle potenti amicizie del padre.”
Io rimasi senza parola, con gli occhi fissi su Vurazzu u russu. E allora Debossi risolvette il problema e lo passò sotto il banco a Vurazzu u russu, che ringraziò con un cenno della testa per la gentilezza. All’uscita dalla scuola vedemmo una lamborghini nera parcheggiata dalla quale scese un omaccione che con aria circospetta ispezionò la strada, forse perché aveva paura di essere investito. L’uomo doveva di sicuro soffrire di qualche problema agli occhi perché li proteggeva con ray-ban dalle spesse lenti nere. Rassicurato dall’assenza di traffico, si avvicinò all’auto e aprì la portiera posteriore da cui scese un signore con un elegante abito scuro, che attraversò la strada con passo deciso e si fermò davanti al portone d’ingresso della scuola: era il padre di Vurazzu. Tutti i genitori fecero ala al suo passaggio riconoscendo nell’uomo l’autorità del potere, e il dirigente, avvertito dall’attento Posapiano, gli andò casualmente incontro e gli strinse con calore la mano. Quando uscimmo Vurazzu si avvicinò al padre e gli bisbigliò qualcosa nell’orecchio. L’uomo si avvicinò a me e Debossi e ci scompigliò i capelli con una ruvida carezza. “Bravi,” disse, “bravi ragazzi, sapete come comportarvi. Sono certo che tutto il buono che fate oggi vi verrà restituito con gli interessi.Carzara, malatia e nicissità si vidi lu cori di l’amicu.*”
*Malattia e necessità mostrano la solidarietà degli amici.
L’infermiere di Tata
Racconto mensile
La mattina d’un giorno piovoso di marzo, un ragazzo, tutto inzuppato d’acqua e infangato, si presentava al portinaio dell’ospedale e domandava di suo padre, presentando una letteradi raccomandazione scritta dal sottosegretario alla sanità originario del suo paese di residenza. Purtroppo le cose funzionavano così nella sanità pubblica: una raccomandazione serviva almeno a scuotere l’attenzione di medici e infermieri che, in caso contrario, si sarebbero dedicati al paziente con tutta la flemma consentita dalla funzione e una professionalità finalizzata allo stipendio mensile, e alla eventuale progressione economica. La stampa nazionale e locale raccontava gli innumerevoli casi di malasanità senza che la cosa sortisse il benché minimo effetto, sembrava che tutti avessero fatto il callo a situazioni di là dalla decenza. Non passava settimana senza uno scandalo sanitario: se non si trattava di scarsa professionalità medica, era il funzionario di turno che aveva svuotato le casse di questa o quella amministrazione. Il ragazzo, forte della lettera del sottosegretario, chiese di poter vedere il primario per avere notizie del padre ammalato e sulle prospettive di guarigione. L’infermiere al quale si rivolse il giovane scoppiò in una sonora risata e gli batté una mano sulla spalla: «Il primario? Vuoi vedere il primario? Forse non sai come funzionano le cose negli ospedali: il primario può essere scomodato solo se il sottosegretario si presenta di persona, non quando invia una lettera di raccomandazione.»
Il giovane guardò perplesso l’infermiere e balbettò: «Mi avevano assicurato quelli dell’ufficio dell’onorevole che sarebbe stata sufficiente ad aprirmi tutte le porte.»
«Tutte le porte, tranne quella del primario e del direttore amministrativo, per aprire le quali sarebbe necessario qualcosa di più.»Lo informò garbatamente l’infermiere, che non poteva, visto il livello basso occupato nella gerarchia ospedaliera, esimersi dall’essere cortese con chiunque vantasse qualche conoscenza altolocata.
Il ragazzo chiese, e ovviamente ottenne, di essere condotto nella stanza dove giaceva,in attesa di cure, il padre che si era sentito male in ufficio, dove svolgeva, quando non era al bar a compilare la schedina o a fare la spesa al supermercato situato nelle vicinanze, la funzione di dirigente di seconda fascia. La mamma non aveva potuto raggiungerli nella struttura ospedaliera a causa di impegni già presi con l’Associazione del bridge, di cui era campionessa riconosciuta e acclamata. Aveva dato al figlio un’American express oro per risolvere eventuali problemi di carattere economico. Il ragazzo vestiva jeans Armani sfilacciati secondo i dettami della moda, camicia Rodrigo in seta pura, scarpe da barca modello Figawi della Sperry Top Sider, capelli rasati abbondantemente sui lati e disegno primitivo fatto con forbici e rasoio, gli occhi erano nascosti sotto occhiali Aviator green della Ray-Ban: una vera icona della moda kitsch. L’infermiere condusse il giovane attraverso i gironi infernali dell’ospedale. Al primo piano, dietro una pesante porta di alluminio anodizzato e vetri antisfondamento tappezzato di comunicati minacciosi nei confronti dei visitatori, s’intuiva un reparto molto particolare, dedicato alle malattie mentali; la cosa era confermata da urla intermittenti che foravano i vetri della porta, oltre a una targa, che celebrava il reparto di psichiatria gestito dal prof. Turbato Pacifico,a fianco della quale qualche bontempone aveva disegnato un ghiro su una sdraio che sorbiva una bibita con la cannuccia. Il solerte e gentile infermiere condusse il suo ospite verso una scala interna riservata al personale che li condusse all’ascensore di servizio attraversando il reparto ‘rifornimenti’. Ai due si fece incontro una prosperosa infermiera che salutò calorosamente il collega: «Giuseppe, ti aspettavo un’ora fa! Non puoi lasciarmi con le buste della carne dentro lo stipetto perché se arriva qualche controllo io rischio. Ti ho messo da parte carne di vitello e un pollo.»
«Accompagno questo ragazzo da suo padre e poi ripasso per portare… nelle cucine la busta di carne per i diabetici.» e sottolineò con forza e in modo allusivo il riferimento alle cucine e ai diabetici.
La donna sorrise mostrando di aver capito l’antifona. «Vedi di sbrigarti però. Non posso aspettare ancora per molto: tra un’ora finisce il mio turno.»
«L’accompagno e torno, fidati!» L’infermiere riprese il suo tragitto verso i piani alti, quasi un percorso dantesco con il Virgilio di turno attraverso i tormenti ospedalieri. In un corridoio incontrarono un medico che ringraziava una donna tenendo una voluminosa busta in mano. Nel passare accanto ai due si colse un piccolo brano della conversazione: «Domani stesso suo marito sarà sottoposto all’intervento chirurgico. Me ne occuperò personalmente.»
Al secondo piano, dove presero l’ascensore per raggiungere i piani alti e la cardiologia, era situato il reparto d’ortopedia, dove comandava come un principe medioevale il prof. CaligolaGambarotta. Di lui si narravano storie al limite dell’inverosimile. Tra gli addetti ai lavori le storie erano degne di bmovie dell’orrore. La più gettonata e incredibile era legata alle abitudini poco professionali durante le amp… operazioni: poiché era convinto di avere una voce bellissima, modello ‘corvo e volpe, passava da simpatiche canzoncine come “Fin che la barca va.”, a liriche verdiane come “Vendetta tremenda vendetta…”; era abituato a consumare un veloce spuntino prima di utilizzare i ferri del mestiere; chiedeva ai gessisti una colorazione bianco nera a riprova della sua fede calcistica juventina. Nei casi decisamente borderline riusciva a incidere l’osso con le sue iniziali e la data dell’operazione: era un’abitudine narcisistica che metteva in pratica solo nei casi in cui riteneva l’intervento chirurgico un capolavoro. Non era molto amato dagli infermieri, ma soprattutto dai ferristi che avevano dovuto studiare il labiale in una scuola per sordomuti perché utilizzavano i tappi per gli orecchi per proteggersi dai decibel tonanti del dottore durante il processo operatorio. L’unica che riusciva a sopportare gli acuti stridii di quel tenore del bisturi era suor Colomba Di Dio, donna corpulenta e gioviale, capace di ridere in modo irrefrenabile quando il principe del bisturi sbagliava qualche intervento e di suggerire fantastiche soluzioni combinatorie per riparare all’errore. Accadde, e se ne parlò in seguito come fosse una leggenda, che a un paziente con una frattura multipla alla gamba destra venne inserita una piastra di una lega particolare di metallo, sperimentata solo una volta nel New Mexico per sistemare l’arto di un toro da combattimento. I risultati erano stati contradditori e le opinioni sull’efficacia spaccarono a metà il mondo accademico. Una parte riteneva che il tipo di lega poteva alla lunga danneggiare l’osso a cui veniva saldato, gli altri ne dichiaravano a priori la dannosità e per le ossa e per l’organismo tutto, data la presenza di una quantità eccessiva di uranio impoverito che ne evidenziava la carica tumorale (ma solo nel 40% dei casi, come sosteneva il prof. Gambarotta). Il primario non aveva aderito a nessuna delle due correnti perché riteneva che il rischio doveva essere corso, visto che rimetteva in piedi il paziente in sole dodici ore ‘più saldo e più forte che pria’, come giuggiolava l’esimio. Si sussurrava, ma era una calunnia, che la scelta di utilizzare quel materiale della ditta NuevaAssuncionde responsabilidadlimitada era stata condizionata da un versamento di un milione di euro su un conto cifrato in Svizzera.Dava manforte nella sperimentazione suor Colomba, supportando l’uomo con preghiere e discorsi pro lega anti-frattura; la sua bonomia e il suo sorriso ammiccante facevano il resto. Poco importava se il nipote era stato assunto dalla ASL senza concorso e se la sorella aveva vinto l’appalto per le pulizie del nosocomio dedicato alla SI (i più erano convinti che fosse l’acronimo di Santa Innocenza, ma qualche studioso, frugando nell’archivio risalente al ‘500, trovò il nome vero e capì il perché le autorità nel passato avevano nascosto la dedica alla Santa Inquisizione: non sta bene che un ospedale sia dedicato a chi la vita la toglieva con la tortura e il rogo.), la suora non si era fatta condizionare dai favori ricevuti.
Lasciarono quel luogo di sofferenza e raggiunsero il settimo piano, dove era sistemato il reparto di cardiologia diretto dal luminare di origine francese François Trompecoeur, noto in tutto il mondo per l’operazione a ‘cuore spalancato’ che ancora non aveva dato i risultati sperati.Però il cardiochirurgo non disperava e, certo, i fallimenti non scoraggiavano i tentativi. Le agenzie di pompe funebri sponsorizzavano il dottor Trompecoeur e non per la crescita esponenziale dei loro affari, ma solo ed esclusivamente perché credevano in quello scienziato così poco accettato e rispettato dai suoi colleghi. Quell’uomo imponente, con due mani in grado piegare barre di ferro, ma in apparenza poco adatte alla chirurgia cardiaca, si fece incontro ai due e li salutò con enfasi eccessiva per quel luogo; era un allegrone convinto che fosse necessario trasmettere ottimismo ai pazienti e ai parenti. Il ragazzo si presentò educatamente al responsabile del reparto e ringraziò l’infermiere per la cortesia mostrata. Il primario poggiò una mano sulla spalla del giovane e raccontando amenità varie lo condusse verso la stanza dove stava il padre. Il locale era sobriamente arredato ed era sistemato in fondo al corridoio, dopo il bagno dei medici, per non dare troppo nell’occhio: purtroppo le nuove disposizioni, volute fortemente dai partiti populisti e dai sindacati operaisti, avevano abolito, per la difesa di uno pseudo egualitarismo,le stanze singole per chi aveva buonadisponibilità economica (i più attribuivano la cosa all’odio di casta, il classico odio dei poveri incapaci di realizzarsi nei confronti di chi ce l’aveva fatta). Il giovane riconobbe il padre avvolto da tubicini multicolori e un sondino nel naso. Il medico sorrise e tranquillizzò il familiare del paziente: «Figliolo, non ti devi preoccupare! Tuo padre ha solo avuto un lievissimo scompenso cardiaco: lo teniamo in osservazione per un eccesso di prudenza, ma può tornare a casa quando vuole.»
«Mi sento sollevato, professore! A casa eravamo preoccupati per i problemi che la cosa ci stava creando: la mamma ha un torneo di bridge da completare e ha buonissime chance di vincere, mia sorella ha un party da organizzare per festeggiare il suo ventesimo compleanno ed io mi sono già dovuto assentare quest’oggi dalle prove del musical ‘Essere ricchi non è peccato’, organizzato dalla locale chiesa calvinista ‘Chi è senza cupidigia scagli la prima pietra’, fondata dal profeta di Wall Street Gennaro Mc Arraffamoney, di origine napoletano/scozzese che aveva avuto una visione straordinaria durante un’operazione di brokeraggio a favore e contro (non è una contraddizione: si fanno gli interessi del cliente e, nel contempo, quelli della società del broker).»
Andrebbero spese alcune pagine per spiegare l’importanza di questa nuova e illuminante religione rivelata, ma mi limito a quanto riporta Wikipedia in una pagina intermittente come le idee che propagandava. In un giorno piovoso, nella triste e grigia New York, Gennaro Mc Arraffamoney stava trattando la vendita di azioni di alcune miniere di oro nell’Antartide, quando all’acquirente venne più di un dubbio sull’esistenza delle miniere e sulla loro reale possibilità di sfruttamento. Proprio nel momento in cui il compratore stava per rinunciare all’affare deciso a denunciare la truffa alle autorità competenti, un raggio di sole forò le spesse nubi e s’insinuò, attraverso i vetri alle spalle di Gennaro,nella stanza abbagliando il cliente diffidente. Nell’istante stesso in cui quel raggio birichino s’infilò nella stanza, bussarono alla porta e un uomo corpulento s’introdusse con fare sfuggente ad arte: era il compare del broker che gesticolava vistosamente per attirare l’attenzione. Visti inutili i tentativi di attirare l’interesse del cliente, passò dai gesti a mezze parole fintamente criptate: «Chiudi, chiudi! Mi ha telefonato John Smith della Smith e Thompson che… laggiù… nello scavo… Non so se hai capito.»
«Siamo sicuri che scavando ha trovato…», incalzò Mc Arraffamoney.
«Certo! Sicuro! E anche in grande quantità.» confermò il socio. «Quando viene quel signore delle miniere ricordati di dirgli che non se ne fa più nulla. L’affare ce lo gestiamo noi senza coinvolgere estranei.» aggiunse per concludere l’operazione ‘Esca per polli’.
Gennaro si rivolse, fintamente contrito, al suo interlocutore: «Mi spiace, signor poll… Poldo, ma per quell’affare dell’Antartide la faccenda dobbiamo considerarla chiusa. E poi, a quelle gelide temperature come si può scavare? Mi sentirei disonesto proponendole l’affare per via delle difficoltà evidenti del luogo e per il clima tutt’altro che mite. È stato un piacere conoscerla. Eventualmente mi farò vivo qualora mi capitasse qualche affare semplice e appetibile.»
Il signor Poldo cadde nella rete tesagli da quei due furboni: «Credo di avere diritto di concludere l’affare così come me l’aveva prospettato lei. Non può tirarsi indietro ora. Un broker vende, propone affari, consiglia investimenti, non si mette in…»Non concluse la frase pensando che stava scoprendo le sue carte. Trattò, propose e alla fine si concluse. I due soci finsero disperazione per la perdita di un affare colossale, il compratore firmò con la sua Mont Blanc una truffa di cui era stato volontario protagonista. Gennaro ricordò quel raggio di luce che aveva traversato la stanza abbagliando il sig. Poldo. Capì che il divino aveva scelto lui per trasmettere al mondo la sua religione, e si confermò in questa convinzione quando vide che la brioche che gli aveva portato il cameriere del bar ‘Il bucaniere ubriaco’ aveva l’aspetto di un viso rigato dal sangue (poco importava se il sangue era un rivolo di marmellata alle ciliegie esondato dalla brioche spremuta distrattamente dal cameriere). Il raggio di luce e l’immagine di un dio rigato di sangue erano più che sufficienti per creare il clima giusto per aspettative ultraterrene. La foto del cornetto sanguinante fu pubblicata su Facebook e divenne oggetto di vero e proprio culto: fu travolta da cinque milioni di visioni e 3.171.131 ‘mi piace’. Nacque così la nuova corrente filo-calvinista del ‘Chi è senza cupidigia scagli la prima pietra’. Questo era dovuto per informare i dubbiosi sulla vera e unica religione rivelata nel modo della finanza creativa, e per spiegare gli sviluppi futuriinnescati dal dottor Rapaci con il suo poco opportuno scompenso cardiaco, dando una svolta alla trama del musical impantanata nelle ovvietà per sterilitàd’ispirazione e di contenuti.
Ildericco (la doppia ‘c’era un auspicio) guardò il padre immobile in quel letto candido d’ospedale ed ebbe un tuffo al cuore: «Questa del letto bianco mi sembra una genialata per il musical. Si potrebbe impostare il pentimento del sindacalista sul letto di morte, quando nel finale riconosce il diritto al suo rivale di arricchirsi mettendo a repentaglio la vita dei suoi operai per combattere ad armi pari contro le imprese, supportate dalla criminalità organizzata, stracolme di operai asiatici e africani totalmente in nero.» Si allontanò dal letto formando un rettangolo con i diti indici e medi incrociati per visualizzare la scena in modo cinematografico; fece alcuni passi verso il letto, riprese di nuovo la scena cercando d’inquadrare l’allettato e lo scarno mobilio intorno. «Sì, sì!» ripeteva il giovane Ildericco.«Credo che possa essere un finale degno: ne parlerò con il regista.»
Il padre dormiva perché era stato sedato con una pillola di Lungosonno e il giovane lasciò la stanza con il medico che gli disse che era stato particolarmente fortunato ad avere pazienti come il padre e il noto regista Federico Grandangolo, sistemato nell’altra stanza singola del reparto, di fianco all’ambulatorio delle visite. Gli occhi di Ilde s’illuminarono di fronte a quel nome trasudante storia del cinema. Senza farsi notare s’infilò nella stanza e vide uno dei suoi idoli, genio della settima arte, disteso sul letto, anche lui in preda a Morfeo dopo una dose adeguata di Lungosonno. Sedette di fianco al letto e si beò della visione del genio della macchina da presa. Passarono le ore e lui, molto furbescamente, non si mosse di lì, fingendo una conoscenza che non aveva. Ma era il grande Federico Grandangolo e tutti i mezzi per entrare nelle sue grazie erano leciti. Si dimenticò completamente del padre sul letto della stanza accanto e si appisolòsulla sedia. Entrarono nella stanza medici, suore, infermieri e parenti, e tutti notarono quel giovane così gentile e buono che aveva passato la notte accanto a uno sconosciuto solo ed esclusivamente per generosità innata. La storia di quel ragazzo così altruista fece rapidamente il giro dell’ospedale e tutti si recarono in quella stanza per conoscerlo. Al risveglio una suora dalle gote rubizze gli portò una tazzona di latte con cioccolato e due cornetti della sua riserva personale. Il giovane ringraziò cortese: «Grazie, sorella! Ma quello che ho fatto è stato solo un gesto di umana carità di fronte alla sofferenza. Non merito attenzioni particolari.»
«Sei troppo buono e non ti rendi conto della dolcezza del tuo gesto. Visitare gli infermi è una delle sette opere di misericordia corporale, una delle più trascurate, in particolare dai giovani.»
Quando il regista si svegliò e vide quel giovane a lui sconosciuto, si guardò intorno perplesso. Incontrò lo sguardo benevolo della suora che si chinò per raccontargli quanto aveva visto, e lo ragguagliò su quel giovane che, benché non lo conoscesse, aveva passato la notte accanto a un infermo per manifestargli la sua solidarietà disinteressata.
Ildericco si schermì, e, come un attore consumato, bisbigliò commosso: «L’ho fatto d’istinto, non ho pensato mai che potesse essere un sacrificio. Penso che debba essere dovere di tutti aiutare chi sta male.»
Mentre stava lisciando l’uomo importante, sentì la voce del padre che salutava calorosamente il primario e gli andò incontro nel corridoio. Appena lo vide lo salutò felice: «Ildericco, che ci fai qui a quest’ora?»
«Senti, papà, nella stanza lì accanto c’è, ricoverato, il grande regista di‘Buio nelle tenebre’ Federico Grandangolo. Ho pensato che restando nella sua stanza fingendo di occuparmene mi sarei meritato la sua riconoscenza. Ho barato volgarmente e ho trascinato dalla mia parte tutto il personale, compresa suor Cunegonda Gallina. I tuoi insegnamenti mi sono serviti per mettere su questa pantomima dei sentimenti. Se non ti crea problemi resto ancora qualche tempo finché non realizza che sono io la persona che si sta occupando di lui quando non c’è il personale ospedaliero.»
«Non porti problemi, figlio mio. Resta pure, io ho già chiamato un taxi. A casa c’è Maria la domestica, perché mamma non ha ancora finito il suo torneo. Fammi sapere come vanno le cose.» Percorse lentamente il corridoio del reparto fino alla porta, oltre la quale disparve.
Forte della solidarietà paterna rientrò nella stanza e tornò accanto al letto, e l’infermo parve racconsolato. E Ildericco ricominciò a far l’infermiere; ricominciò a dargli da bere, ad accomodargli le coperte, a carezzargli la mano, a parlargli dolcemente, per fargli coraggio. Lo assistette tutto quel giorno, lo assistette tutta la notte, gli restò ancora accanto il giorno seguente.Conobbe tutta la famiglia dell’uomo e da questa ebbe solo parole di ringraziamento.
Il malato si riprese e riconobbe i parenti. Guardò perplesso quel giovane che gli sembrava una persona conosciuta ma non ricordava dove poteva averla conosciuta. Pensava fosse una conseguenza del suo fragile stato di salute.
La moglie raccontò di quel giovane che si era commosso nel vederlo sofferente sul letto. Aveva deciso di restare ed era rimasto lì anche di notte a fargli compagnia, pur non sapendo chi fosse; «solo per spirito di carità cristiana», aveva aggiunto suor Cunegonda Gallina. Si era inoltre diffusa nel tessere gli elogi di quel giovane generoso e disinteressato, impegnato nel far del bene agli altri. Concluse con un «abbiamo bisogno di persone così: il mondo sarebbe migliore se tutti seguissero il suo esempio.»
Grandangolo guardò con occhi benevoli Ildericco e nella sua mente creativa già srotolava scene e inquadrature per un possibile film sull’altruismo e sulla bontà.
L’astuzia del giovane era servita per ottimizzare il suo piccolo sacrificio: divenne collaboratore fisso del grande regista, di cui raccolse anni dopo l’eredità artistica.
La morale di questa storia è semplice: cogliere l’occasione quando si presenta è basilare per chiunque voglia scalare posizioni di potere. Non ci si deve fermare di fronte a problemi morali che sono d’ostacolo alla carriera. Risulta infine fondamentale l’insegnamento della famiglia nell’indicare la giusta strada alla propria prole.
L’officina
Febbraio 18, sabato
Cilindri venne ieri sera a rammentarmi che andassi a vedere la sua officina, uscendo con mio padre, mi ci feci condurre un momento.Mentre noi ci avvicinavamo all’officina, ne usciva di corsa Garuffa, con un pacco in mano, che conteneva fregi di auto di lusso avuti in dono e che rivendeva a collezionisti non troppo schizzinosi. Capitava di tanto in tanto, quando le automobili particolarmente costose dovevano essere rifatte in modo irriconoscibile. Ah! ora sapevo dove andava a procurarsigli stemmi delle autoquel trafficone di Garuffa!Affacciandoci alla porta, vedemmo Cilindri, sedutodietro una scrivania di metallo mentrecompilava un registro della motorizzazione civile. Molto incuriosito m’informai della stranezza: «Come mai la motorizzazione dà a voi il registro automobilistico?»
«Ciao, Enrico! Sono proprio contento che sia venuto a trovarmi in officinacosì potrai vedere dove lavoro dopo la scuola. Mio padre mi sta iniziando al difficile mestiere del meccanico carrozziere riciclatore, come è solito autodefinirsi.
Questi registri, dici?Ce li fornisce un dipendente della Motorizzazione per… agevolare il lavoro dei colleghi: io li compilo con le targhe delle nuove auto e lui li archivia direttamente nei file ufficiali dei mezzi di trasporto circolanti in Italia. Io do una mano a lui e lui…»Si arrestò temendo di aver detto troppo, non sapendo con certezza se poteva pienamente fidarsi di me e di mio padre. «Seguitemi e vi mostrerò dove lavora mio padre e dove lavorerò io da grande. È un’attività molto redditizia con un unico difetto: non devi mai allentare la guardia. Devi essere, inoltre, disponibile al lavoro notturno perché nel nostro settore sono le ore più proveccióse; si potrebbe dire che il chiarore della Luna ha l’oro in bocca.»
Rise di gusto per la sua capacità di volgere a suo favore un noto proverbio e per l’allusioneneanche troppo cifrata al lavoro notturno particolarmente vantaggioso.
Illustrò con tono quasi monotono, e si capiva che la cosa non lo entusiasmava, l’ampio locale che fungeva da officina: in fondo, alla destra di chi entrava c’erano due postazioni con banco di lavoro divise da un compressore; una gru a ponte e un paranco nei pressi di un ponte sollevatore; alle pareti, in ordine meticoloso, brillavano cacciaviti, martelli, chiavi fisse, serie chiavi maschio esagonali, chiave a cricchetto reversibile, chiavi per candele; sui banchi di lavoro erano sistemati in bella esposizione caricabatteria, cavi misti, pompa a pedale, oliatore, lime, chiavi a brugola, guanti di lavoro,chiavi a catena, trapano; in contenitori a cassetti trasparenti s’intuivano bulloni, dadi, viti e ogni altra minuteria necessaria in un’officina.
Mi colpì la pulizia del locale e l’ordine maniacale che vi regnava. Rimasi stupito anche dall’assenza di veicoli in attesa di essere riparati, ben sapendo che il lavoro non mancava visto che lavoravano anche di notte. Manifestai le mie perplessità a Cilindri che sorrise e m’indicò la porta di un armadio dietro il ponte sollevatore: «Questa è l’officina di rappresentanza, quella vera è dietro quella porta in metallo verniciato laggiù. Ci teniamo a offrire un’immagine di ordine e di pulizia ai clienti. In sostanza questo locale viene anche utilizzato per le pratiche amministrative, come magazzino per gli attrezzi di ricambio, come sosta per le riparazioni emergenziali. È quello che chiamiamo lavoro diurno e legale. Una sorta di pronto soccorso automobilistico. Seguitemi e vedrete la vera officina dove mio padre lavora quasi h24, permettendoci di vivere in modo più che dignitoso.»
Mio padre annuì perché sapeva come funzionava la cosa e perché il presidente della banca aveva acquistato dal signor Cilindri una Porsche Cayman 987 blu metallizzato a metà del prezzo di mercato. Nell’occasione mio padre e il padre di Cilindri si erano accorti di avere più di una cosa in comune, oltre la reciproca simpatia istintiva: entrambi pensavano che sulla strada degli affari non esistevano sensi vietati.
Oltre la porta mi apparve un mondo che mai avrei potuto pensare esistesse: l’ambiente era immenso, diviso in zone che, come mi spiegò il mio amico, ospitavano le auto in base alla cilindrata. Nessuna auto di meno di 1800 cc trovava posto in quel supermercato automobilistico per vip e…da vip perché la fetta di mercato coperta da Cilindri padre consumava motori degni della formula uno. Le attrezzature erano dimensionate per soddisfare tutte le esigenze meccaniche. In una sala attigua erano sistemate due cabine di spruzzo e una cabina forno. Gli attrezzi erano di altissima precisione, come era possibile vederne negli stabilimenti della Ferrari o della Lockheed. Ai lati, simili alle cappelle delle chiese, si aprivano dei locali che ospitavano pneumatici, parti di carrozzeria, motori. Tutto era organizzato in modo perfetto, e i lavori si sviluppavano in modo coerente e meticoloso. A quell’ora il turno della notte era terminato e le autovetture erano partite all’alba su due bisarche anonime; alcuni meccanici erano rimasti per riordinare i locali, pulire gli attrezzi e il pavimento.
Sia io, sia mio padre eravamo impressionati dalla grandezza di quell’ambiente e giravamo la testa ora qui ora là per mettere a fuoco quanto ci circondava. Il mio amico seguiva divertito il nostro impaccio e ci guardava, con una cert’aria altera, come per dire: «Vedete come lavora mio padre!»
Il padre era reduce da una brutta infezione presa lavorando in una macchina di provenienza incerta. Pare che il proprietario precedente fosse un trafficante di medicinali taroccati di provenienza cinese e che trasportasse prodotti ad alto rischio inquinamento. Cilindri senior piegò le labbra in un sorriso misurato e sollevò le mani quasi a schermirsi: «Il lavoro mi piace e senza mi sentirei quasi inutile. Con le auto di qualità sono riuscito a realizzare il sogno di una vita: riesco a trasformare mezzi di trasporto anonimi in autentici pezzi da museo. Gli stessi vecchi proprietari non sarebbero in grado di riconoscere le loro ex automobili. I guadagni, grazie a Dio, sono consistenti e posso permettermi di assumere del personale: per lo più si tratta di bravi ragazzi, svelti nel fiutare gli affari e altamente competenti sulla gamma alta delle autovetture. I miei collaboratori sono sostanzialmente divisi in due categorie: i più giovani, spesso supportati da personale professionale e competente, in particolare nel processo di formazione, esercitano all’esterno e si occupano di fornire la materia prima, i più anziani lavorano in prevalenza all’interno dell’officina e sono addetti alla riconversione delle autovetture. Tutto questo viene svolto nelle ore notturno. Di giorno lavora solo l’officina esterna, e tratta quasi esclusivamente auto di piccola cilindrata e motociclette.»
Mio padre si complimentò con il signor Cilindri per quella meraviglia di opificio e per la sua indiscutibile abilità imprenditoriale. Salutammo cortesemente e ci avviammo verso l’uscita. Cilindri mi raggiunsee mi disse: «Scusami, ho trovato dentro una Mercedes, dimenticato dal proprietario, questo iTablet della Apple e mi farebbe piacere che lo avessi tu. Io non posso tenerlo, mi ha detto babbo, pare per questioni di rintracciabilità.»
Ringraziai, pur non capendo bene il perché non lo potesse tenere, per il dono e di fianco a mio padre guadagnai l’uscita.
«Ecco un uomo che sa farsi valere. Come avrai potuto notare ognuno può realizzarsi anche con il classico lavoro manuale, purché non si perda mai di vista l’organizzazione. Ricordalo, Enrico, le opportunità vanno costruite senza stare troppo a guardare per il sottile.» Condividevo ogni parola della riflessione di mio padre e annuii in segno di approvazione.
Il piccolo chierichetto
Febbraio 20, lunedì
Tutta la città era in ribollimento per il carnevale, che era sul finire, in ogni piazza sivedevano maschere di ogni tipo che sfilavano lungo il Corso Garibaldi come un fiume in piena. Risate, strepiti, applausi facevano il controcanto a petardi di potenza inusitata. Tutto secondo le consuetudini carnascialesche. Qua e là qualcuno sbroccava di brutto aiutato da notevoli dosi di alcolici ingurgitati a garganella; ma era carnevale e, come si sa, ‘ogni scherzo vale’. Nessuno si sognava di rimproverare quei ragazzacci che lanciavano castagnole fra la folla che assiepava i marciapiedi, ridendo sfacciatamente per le reazioni disordinate e preoccupate delle persone. Era la festa del disordine e della confusione con uno slabbramento evidente dei paletti educativi, e quei discoli alla fin fine erano figli di tutti.
Unica nota stonata in quel caos festaiolo era la presenza di un gruppo di strani personaggi che circolavano fra i presenti per distribuire un volantino dal contenuto a dir poco terroristico. Mi colpirono alcuni passaggi farneticanti che percorsero come un brivido la mia spina dorsale e che sarebbero stati i miei incubi più opprimenti per un certo tempo a venire. Lessi e mi sentii sprofondare in un abisso di terrore. «Dio punirà con pene feroci, ben oltre le fiamme dell’Inferno, chiunque dedica parte del suo tempo alle feste e alla gioia. L’amore per il divino deve condurre il credente al sacrificio e i piaceri devono essere visti come il gorgo del male.»Così debuttava quel foglietto che in poco tempo, anche con l’utilizzo di bambini, fu distribuito in modo capillare. Quasi tutti appallottolarono quell’insulso volantino e lo lanciarono, insieme ai coriandoli e alle stelle filanti in quella sarabanda di colori, sulle maschere che sfilavano. La maggioranza neppure lesse quel delirante messaggio, ma altri, pochi, divennero vittime di quel contenuto minaccioso sull’aldilà fatto di punizioni senza fine e di dolore eterno.Sfilavano nei pensieri di molti suggestionabili dei demoni che infilavano i peccatori nel girarrosto o li facevano rotolare giù da un ripido monte cosparso di ogni sorta di ostacoli: dalle lame affilatissime di spade da samurai al filo spinato sistemato sotto una pioggia di aceto, sale e peperoncino Trinidad MorugaScorpion; la fantasia malata degli sprovveduti immaginò ogni sorta di ostacolo potesse venire in mente alla creatività diabolica dei padroni di casa. Molti risero di quel messaggio apocalittico e ricamarono di fino sulle finalità delle sette religiose che, con la prospettiva di un aldilà fuoco e fiamme, cercavano di conquistare il maggior numero di proseliti e un ‘di qua’ pieno di gioia e di soddisfazioni pagati con le offerte dei credenti sprovveduti. Poche sette lavoravano con il metodo ‘love-bombing’, la maggior parte utilizzavano la paura del dopo e la visione di un dio vendicativo e crudele. Il dio di questi fanatici autodefinitisi ‘Unici e veri’ era raffigurato come un vegliardo con gli occhi minacciosi ‘di bragia’ che galleggiava sopra l’esplosione del Big Bang e intorno, a mo’ di corona, il detto latino ‘Ego sum alpha et omega, principium et finis’ (ripreso dall’Apocalisse di Giovanni) e poi in francese, a dare un tono d’internazionalità alla setta, ‘Sans moi le deluge’. Si riunivano, ne riportava la notizia il Quotidiano Nazionale del Partito Unico di Maggioranza, in gran segreto nella chiesa sconsacrata di S. Flagello e utilizzavano la cripta per i loro riti sado/maso: i sacerdoti del rito punivano i peccatori, dopo una seduta pubblica in cui costringevano i traviati ad autodenunciarsi delle loro nefandezze, dopo aver preso coscienza di aver offeso l’onnipotenteColui-che-punisce-l’uomo-che-pecca, in modo rigidamente prescrittivo (il rapporto castigo/colpa era rigidamente descritto nel Libro che poteva essere interpretato solo dal sacerdote). Il processo di espiazione era scritto nel libro sacro, ispirato da Colui-che ecc.in una notte di plenilunio d’agosto, quando il caldo era caldo, sulla Collina del Tormento Eterno, in una caverna di cui non si trovava più traccia perché era diventato uno dei sette tabù della setta (1. Ti ho conosciuto nelle viscere della terra in luogo che deve restare ignoto; 2. Sei Unico e Vero; 3. Ti sei rivelato al tuo servo riempiendo la grotta di effluvi animali; 4. Obbedirai sempre senza discutere al tuo Ottam; 5. Esprimerai le tue opinioni dopo averne avuto l’autorizzazione dal tuo Ottam; 6. Devi credere senza obiezioni a quanto scritto nel libro e eseguirai quanto prescritto; 7. Non devi mai dubitare dell’esistenza dei luoghi rivelati e sacri.). Rimase sempre un mistero l’origine del nome del gran sacerdote o Ottam; qualcuno sosteneva che derivasse dall’antico indo/nepalese in una successiva traslitterazione aramaica, qualcun altro parlò di qualcosa di molto più recente e fece risalire il nome al figlio del primo Ottammoderno che, giocando con le letterine dell’alfabeto, aveva composto la parola matto e che le tessere con le lettere erano cadute dal tavolo formandoappunto la parola Ottam. Il padre nel vedere quel nome sul pavimento gridò: “È un segno! È un segno! Ho trovato il nome adatto per chi dovrà guidare la religione che sto sviluppando dalle ceneri della vecchia e poco efficace setta.”
Nel volantino s’invitava la cittadinanza a partecipare a una Kermesse per lodare la divinità e chiederne il perdono.
Noi avevamo sotto le finestre un circo di tela, dove dava spettacolo la setta con il suo Ottam, famoso nel giro delle religioni nomadi per la sua indubbia capacità oratoria. Si narra che sia stato capace, in un incontro fra predicatori nella cittadinaWaidhofen an derYbbs nella Bassa Austria, di parlare nel locale palazzetto dello sport per oltre dieci ore, elogiando il dio e i suoi sacerdoti, e minacciando pesantemente l’ira divina contro i non credenti. Sempre fidandosi dei si dice, intorno alla mezzanotte tutti i partecipanti abbandonarono il palazzetto, tranne un anziano signore che aveva dimenticato di ricaricare le batterie dell’apparecchio acustico; l’uomo, resosi conto di essere l’unico rimasto per l’insistente sguardo del predicatorefisso su di lui, si alzò e gridò, non potendo valutare correttamente il tono della voce: “Io ho un impegno e sono costretto a lasciarla sola. Si ricordi, prima d’andar via, di spegnere la luce.” L’Ottam fu colpito da una serie di disturbi dissociativi, che solo il grande psicologo Malinconico Recupero Malori, dopo una serie interminabile di sedute di pranapsicosillogismo, riuscì a sanare solo parzialmente le conseguenze del convegno diWaidhofen an derYbbs e della feroce ironia dell’anziano sordo: di tanto in tanto, e senza preavviso alcuno, poteva capitare di sentirlo citare lunghi passi della noiosissima opera omnia di Uggioso Sonnolento tutta incentrata sulla descrizione della barba del profeta, il primo Ottam BarbosoI (perché, ovviamente, era il primo; se fosse stato il secondo o il quarto la cosa sarebbe stata diversa).
La Kermesse aveva lo scopo prioritario di convincere i partecipanti che solo Colui che (eccetera ancora una volta) era il dio originale, quello che aveva creato l’Universo e i suoi componenti. L’uomo e tutti gli esseri viventi erano stati forgiati per il gusto feroce di vederli soffrire (ma era la visione riduttiva della corrente ascetica e apocalittica). C’era la possibilità di salvarsi, come si poteva leggere nel libro sacro, devolvendo parte delle proprie ricchezze all’Ottam vivente. Va da sé cheuna istituzione che vive e opera per il bene degli altri non può fare a meno del denaro. Tutte le offerte erano gradite e si accettavano anche quelle di piccola entità. Il meccanismo era oliato e funzionava come un orologio svizzero di una stazione svizzera: la richiesta di denaro riusciva a rimpinguare le casse della setta in modo costante e sostanzioso, permettendo ai sacerdoti di condurre una vita decorosa. Anche se i perfidi oppositori sostenevano che l’aver aperto conti correnti cifrati in vari paradisi fiscali era una cosa sospetta assai, l’Ottam dichiarava che ogni centesimo sarebbe stato usato per il bene dei bisognosi. Che cosa ci fosse di male poi nell’utilizzare i paradisi fiscali per depositare i soldi delle donazioni non si riusciva a capirlo visto che il paradiso era la destinazione finale dell’umanità. Anche se per Colui-che (ancora eccetera) il luogo finale per chi seguiva le sue leggi era chiamato L’arrosto infinito e prometteva ogni sorta di beatitudine alimentare, la finalità era in fondo la stessa: tu obbedisci e io (inteso come Colui eccetera) ti premio. Il libro (Va ricordato che era scritto in una lingua non ancora interpretata e che il suo contenuto veniva descritto dai vari ottam interpretando il volo degli uccelli e, talvolta, i mal di panciadegli stessi, dopo un’abbondante pranzo divinatorio a base di fagioli rossi.) parlava, e qui la parola dei sacerdoti era fede cieca e assoluta, di tempi lontani, quando l’umanità dipendeva in tutto e per tutto dalla volubilità del clima. Allora, quando la tecnologia era accendere un fuoco per riscaldarsi o cuocere del cibo, la religiosità si manifestava con richieste di protezione contro la natura malvagia e con l’auspicio di avere sempre cibo sufficiente.
In tempi molto più recenti, quando la nuova religioneassunse le caratteristiche di religione monoteista e apocalittica, i problemi da risolvere erano diventati tutti interni e si potevano sintetizzare in un bisogno impellente di denaro per pagare i sacerdoti e il proprio ottam.
Mio padre commentò la cosa con un pittore transrealistico notoriamente ateo e feroce nell’affrontare ogni discussione sul divino, e gli propose di scrivere un articolo liquidatorio, che facesse aprire gli occhi agli ingenui. Bruno Tavolozza, il pittore miscredente, lo guardò perplesso:«Bottini, nessun giornale pubblicherebbe un mio articolo! Tutti conoscono la mia partigianeria e la mia assoluta mancanza di moderazione quando parlo di religione. Per questo penso sia meglio che l’articolo lo scriva tu; se vuoi io posso creare il disegno a corredo dell’articolo.»
E così fecero. Mio padre scrisse un articolo, bello e pieno di scherzi, in cui descriveva con feroce ironia il baraccone mediatico messo su da una troupe d’imbroglioni; e il pittore schizzò un ritrattino dell’ottam davanti al tendone, che fu pubblicato sabato sera. Si ottenne, potenza della pubblicità, l’effetto contrario! Ed ecco, alla rappresentazione di domenica, una gran folla che accorse.
Anche noi cedemmo alla curiosità, al desiderio di vedere cosa avrebbe raccontato il sacerdote e c’infilammo sotto il tendone. Mio padre mi condusse nei primi posti. Accanto all’entrata avevano affisso la Gazzetta. Il circo era stipato; molti spettatori avevano la Gazzetta in mano. L’ottam era contento. Figurarsi! Nessun giornale gli aveva mai fatto tanto onore, e la cassetta dei soldi era piena.Mio padre sedette accanto a me. Tra gli spettatori trovammo delle persone di conoscenza.Si era realizzatoquanto da sempreavevaaffermatolo scrittore Oscar Wilde:“There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about.” (Al mondo c’è una sola cosa peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé.) Il pienone era la riprova di questa massima: poco importava se della gente si parlava male, purché se ne parlasse.
C’era vicino all’entrata il maestro di Ginnastica, Corso Saltamuri; e in faccia a noi, nei secondi posti, Papaverino, col suo visetto tondo, seduto accanto a quel gigante di suo padre. Un po’ più in là vidi Garuffa, che contava gli spettatori, calcolando sulle dita quanto potesse aver incassato la setta. C’era anchenelle seggiole deiprimi posti, poco lontano da noi, il povero TonySbrindellato, quelloche salvò il bimbo dalla motocicletta, con le sue stampelle fra le ginocchia
Uno ronzio gracidante emesso da quattro altoparlanti sistemati su vistose piantane perforò la coltre di fumo e di polvere che i presenti avevano sollevato nell’incedere, e causato dall’inveterata abitudine a fumare in ogni luogo dove non era espressamente vietato. Una musica new age avvolse i presenti. Con un passo teatrale e misurato fece il suo ingresso l’Ottam preceduto da quattro giovani serventi, infilati in una tunica azzurro cielo, che creavano una cortina di fumo d’incenso agitando ritmicamente un turibolo. Arrivato al centro del tendone il sacerdote, impaludato in una tonaca rossa trapunta d’oro e d’argento e con il capo infilato in un berretto improbabile, levò le mani al cielo, quasi ad invocare la benedizione divina sulle parole che stava per dire. Ruotò su sé stesso e si avvicinò a un microfono piantato al centro della scena. Guardò i presenti con aria ispirata e parlò: «Figlioli (è la prassi di ogni comunicazione fra il posseduto dal soprannaturale e tutti quelli che vengono insufflati con l’alito divino tramite le parole del posseduto), vi parlo in nome di Colui-che-punisce-l’uomo-che-pecca, del creatore dell’Universo, dell’entità pura che compenetra ogni cosa. L’uomo, e si sa,poiché corrotto e corruttibile, pecca e fa peccare. Solo attraverso l’intercessione di santi uomini dediti alla preghiera e alla meditazione si ottiene il perdono divino, che non può essere uguale per tutti: chi contribuisce con maggiore generosità avrà una corsia preferenziale versol’Arrosto infinito e potrà godere a piacimento di ogni leccornia; chi contribuisce al benessere della nostra chiesa con somme più modeste andrà ugualmente nell’Arrosto infinito, anche se dovrà sperare nelle preghiere dei sacerdoti,che i parenti dovranno finanziare per facilitarne il passaggio all’ultimo e ambito cielo.
Leviamo una prece al dio ‘Unico e vero’, sperando che ascolti l’invocazione dei propri fedeli.»
I quattro chierichetti con i turiboli inondarono la scena con il fumo d’incenso, creando, almeno così pensavano, un’ambientazione mistica, funzionale al piano di arricchimento di cui ogni giovane religione ha bisogno per espandersi e farsi conoscere.
Quei giovani riuscivano ad attirare l’attenzione del pubblico meglio del sacerdote: si esibivano in piroette con i turiboli degne degli acrobati del Cirquedu soleil; ma uno in particolare ricevette fiumi di applausi e contribuì a riempire la cassetta delle offerte. Riuscì a far restare immobile in aria il contenitore dell’incenso capovolto per un tempo che sembrò interminabile per quella sfida alla forza di gravità e si esibì in una serie di esercizi degni di un ballerino cosacco, con un plié profondo, quasi grandplié e poi ritornò in piedi con un piccolo saltello, i talloni puntati a terra e le ginocchia tesissime. La difficoltà stava nel far passare la catenella del contenitore sotto le gambe nella fase di plié senza versare né fuoco, né cenere; va aggiunto a questa configurazione da follia ginnica il roteare contemporaneo del piatto per le offerte sul dito mignolo della mano libera. Tutti guardammo ammirati quell’esibizione al limite delle capacità umane (era il dio che l’ispirava?) e non potemmo trattenere un lungo e caldo applauso.
Il piccolo fece meraviglie, e ogni volta che saltava giù, tutti gli battevan le mani e molti gli tiravano i riccioli.
Ma quando non c’era il ragazzo, pareva che la gente si seccasse.A un certo punto vidi il maestro di ginnasticache parlò nell’orecchio delsacerdote, e questi subito girò lo sguardo sugli spettatori, come se cercasse qualcuno. Il suo sguardo si fermò su di noi. Mio padre se ne accorse, capìche il maestro aveva dettoch’era lui l’autor dell’articolo, e per evitarepolemiche se ne scappò via, dicendomi: «Resta, Enrico; io t’aspetto fuori.»
L’Ottam voleva ringraziare mio padre per la cortesia fattagli con l’articolo sulla gazzetta, anche se le intenzioni ironiche potevano sortire un altro effetto. «Ma Colui- eccetera decide, a volte in modo incomprensibile, quale sarà il percorso migliore per divulgare le informazioni e la Verità.»Parlò a tutti, ma il suo sguardo venne rivolto versoil maestro Corso Saltamuri.
Questi voleva sorridere di quell’ultima baggianata, ma si trattenne per continuare a gustarsi quello spettacolo degno del mago della Val di Fiemme.
La preghiera fu un capolavoro della letteratura italiana, un testo in rima alternata che avrebbe fatto tremare le vene e i polsi dello stesso fondatore della lingua italiana.
Signore ascolta il tuo servitore,
Che ti parla da questo tendone,
Della tua religione appaltatore,
Dammi la forza della persuasione.
Volgi il tuo sguardo sui tuoi diletti
Per mostrare loro la strada
Verso un futuro senza difetti,
Qui, ora e in ogni contrada.
Al termine del predicozzo comunicò ai fedeli acquisibili che si sarebbe tenuta una riffa e sarebbero stati sorteggiati tre numeri, e ai vincitori sarebbe stata consegnata una pergamena che riportava in caratteri gotici e inchiostroencaustum (gallotannico) l’assoluzione plenaria ed eterna da tutti i peccati. E c’era anche il vantaggio del ‘pecco oggi sapendo di essere assolto domani’! Qualcuno del pubblico meditò la possibilità di aderire a questa curiosa religione che, in cambio del vil denaro, perdonava ogni peccato. Inutile ricordare che la lotteria ebbe un successo clamoroso: i giovani accompagnatori faticarono parecchio nel riportare i vassoi stracolmi di denaro.
Gli altoparlanti diffusero una soave musica indostana per accompagnare l’Ottam fuori scena. Il volto rapito non riusciva a nascondere una terrena soddisfazione per i fondi raccolti che avrebbero dato alla sua chiesa maggiore forza di penetrazione fra gli infedeli, e ulteriori e non trascurabili nuove entrate finanziarie.
L’ultimo giorno di carnevale
Febbraio 21, martedì
Che triste scena vedemmo oggi al corso delle maschere! Finì bene; ma poteva seguire una grande disgrazia. In piazza San Carlo, tutta decorata di festoni gialli, rossi e bianchi, s’accalcava una grande moltitudine; giravan maschere d’ogni colore; passavano carri dorati e imbandierati, della forma di padiglioni di teatrini e di barche, pieni d’arlecchini e di guerrieri, di cuochi, di marinai e di pastorelle; era una confusione da non saper dove guardare; un frastuono di trombette, di corni e di piatti turchi che lacerava le orecchie; e le maschere dei carri trincavano e cantavano, apostrofando la gente a piedi e la gente alle finestre, che rispondevano a squarciagola, e si tiravano a furia arancie e confetti; e al di sopra delle carrozze e della calca, fin dove arrivava l’occhio, si vedevano sventolar bandierine, scintillar caschi, tremolare pennacchi, agitarsi testoni di cartapesta, gigantesche cuffie, tube enormi, armi stravaganti, tamburelli, crotali, berrettini rossi e bottiglie: parevan tutti pazzi.
Ilcorteo dei carri allegorici, organizzato dalla pro loco e sponsorizzato dalla locale sezione dei massoni della superloggia di rito besciamellico francese, si snodava nel Corso Roma. L’argomento scelto per la sfilata, dopo dibattiti asfissianti e tediosi, ruotava su l’Esposizione mondiale dei prodotti ittici: il mare la faceva da padrone. Il primo carro, in rappresentanza del quartiere ‘Mordi e fuggi’ (Deve il suo nome alla presenza nel quartiere di un folto gruppo di persone dedite, ma era una volgare calunnia, allo scippo e alle truffe ai turisti), era una straordinaria realizzazione del Maestro di Montelepre e imitava alla perfezione una seduta di un organo politico: su un lato sedeva a scrannaun corpulento signore con parrucca pel di carota e un doppio petto istituzionale, come si addiceva a un vero presidente, sparsi a mucchio selvaggio una decina di scalmanati che si flagellavano a vicenda impersonavano una normale giornata parlamentare; ad imitare il pubblico, sistemato su triclini di sapore neroniano, un gruppetto di ballerine brasiliane; dal carro si levava alta l’inconfondibile melodia del samba che coinvolgeva la gente assiepata sui marciapiedi e che non riusciva a tenere fermi i piedi che sembrava vivessero di vita propria. Affranti, che mai saltava le manifestazioni goderecce, sembrava affatto a suo agio, un pisello nel baccello. Seguì il carro saltando per cercare di toccare le gambe delle ballerine, e ricevendone in cambio grandinate di coriandoli e stelle filanti. Durò cento metri il tentativo ginnico del mio compagno e alla fine esausto rinunciò.
Il secondo carro era la riedizione di una trasmissione televisiva di gran moda: un uomo su un cubo ballava e cantava e una folla indistinta di donne gridava frasi gentili nei confronti dell’essere che dopo l’esibizione si sistemava su un trespolo al centro della scena. Di fianco all’uomo era piazzato un essere barbuto impaludato in una sontuosa veste verde, all’uso arabo,una kandura (كَندورَة) lunga fino alla caviglia, sul capo una keffiyeh (كوفية) a scacchi quadrati bianchi e rossi; l’abito doveva ricordare gli schiavisti mediorientali, quelli che vendevano donne e uomini, ma principalmente le prime, nei mercati di schiavi. L’uomo sul trespolo sfoggiava un piumaggio variopinto degno di un pavone, e di un pavone faceva la ruota per attirare l’attenzione di quello stuolo di schiave trasportate dal carro. La trasmissione messa alla berlina si chiamava ‘Uno per tutte: sceglierne una e mettere in aspettativa le altre’ e andava in onda sul canale satellitare 7117 del grande magnate della finanza internazionale Sparviero Crudele. La trasmissione era condotta da Mariolina Vaga, una virago di dimensioni XXXecc.L esperta di cucina grassa e ipercalorica, funambola del foie gras immerso in salse allo strutto e al miele, geniale inventore del dolce tutto zucchero e panna costruito utilizzando il phi di Fidia e sviluppato in una forma a chiocciola avvalendosidei principi matematici della spirale aurea, aiutata nella fase di progettazione dal grande fisico delle particelle sparse Tagiko AsininAskart, perché le spirali dovevano autoreggersi e raggiungere la incredibile altezza di un metro e trenta centimetri (roba da premio Nobel della dieta diabetica).
Gli informati raccontano che nella fase di progettazione si era tentato di infilare una copia esatta, usando i dovuti contrappesi, della Mariolina Vaga, ma il carro veniva sbilanciato in modo irrecuperabile e per due volte le ruote erano scoppiate all’improvviso. Non è un segreto che le idee importanti abbiano il loro peso.
Affranti cercò di scalare il mezzo con l’aiuto di Scorretti ma fu respinto da una pioggia di coriandoli impastata con un liquido giallastro che garantivano fosse aranciata.La gente applaudiva convinta, riconoscendo nell’ironica ricostruzione la nota trasmissione televisiva, e qualcuno rideva di gusto nel vedere che la conduttrice era stata sostituita da un cartello che ne riportava il nome sotto una sagoma dipinta: era chiaro a tutti che quel carro non era idoneo al trasporto dei cetacei. I soliti ragazzacci lanciarono petardi “per vedere l’effetto che fa” e ottennero soltanto risposte poco british che coinvolgevano i parenti fino alle loro più lontane origini, e qualcuno riuscì ad andare oltre rifilando acrobatiche pedalate ai dinamitardi più vicini.
La sfilata proseguì gioiosa per ore sotto una pioggia ininterrotta di coriandoli e stelle filanti, fra il vociare disordinato e allegro dei partecipanti, quando si vide in fondo alla piazza un uomo, che gridava frasi incomprensibili, con una bimba piagnucolante in braccio. A mano a mano che l’uomo riusciva a fendere la folla verso il carro dei moschettierila gente realizzava che quella piccola si era smarrita e si cercava di portarla verso il carro da dove i suoi accompagnatori avrebbero potuto vederla più facilmente. Sul carro l’afferrò un signore sontuosamente vestito da cardinale Richelieu e la mostrò al popolo per facilitarne il riconoscimento. Nessuno si fece avanti, nonostante la partecipazione corale alla ricerca, sino a che alcune persone non si avvicinarono alla bimba bionda e al cardinale Richelieu e comunicarono che una signora dall’aspetto dimesso (“sicuramente un’extracomunitaria”, sottolinearono molti in coro) si accompagnava a quella bambina. Una donna con forte pronuncia baùscia intervenne vomitando un disprezzo per i diversi (= poveri) da far rabbrividire anche un negriero del Texas: “Una donna vestita modello Caritas, con i capelli biondi slavati e lisci di quelle delinquenti dell’est, ha mollato quella creatura in mezzo alla folla perché non sono esseri umani ma bestie. Dovevate vedere con quale odio ha allontanato quella bambina, sembrava un’invasata uscita da un film di terza visione sulle streghe medioevali. Avrei potuto anche fermarla, ma aveva abiti tanto lisi che mi sono ben guardata dal toccarla; e poi al giorno d’oggi è facile, con questa gentaglia poco raccomandabile e incurante della possibilità d’infettare gli altri, beccarsi qualche malattia tropicale. Dio ce ne guardi!”
La descrizione poco precisa della choosy, pur sommaria ma sempre descrizione, portò la folla desiderosa di partecipare a sottoporre all’identificazione della donna una serie di persone con in comune la bionda chioma. Nell’ordine furono fermate e inquisite: una parlamentare di un gruppo di opposizione che della povertà aveva fatto la sua ragione politica e culturale; una donna di dimensioni ragguardevoli che operava come volontaria in una mensa per indigenti e si trascinava, come una nuvola aromatica, l’olezzo di olio rancido delle cucine; una sofisticata signora dai lineamenti ristrutturati dal bisturi e dal botulino; una turista tedesca con le gote rubizze e uno zaino modello militare, lunghe trecce e scarponi Heidi che mostravano il deterioramentoper il tempo e per l’uso; una passeggiatrice dalle forme generose in vertiginosa minigonna in plasticato leopardato e una chioma di pura elaborazione scultorea, tenuta su da esorbitanti quantità della famosa lacca fissariccioli Brunelleschi pubblicizzata con lo slogan: “Se l’avesse conosciuta, anche Brunelleschi l’avrebbe usata per tenere su la sua cupola”; manciate di badanti ucraine e moldave; una top manager in divisa Wall Street di taglio maschio rampante; e ogni altra chioma bionda vista transitare nelle vicinanze. Il pubblico era meticoloso e voleva partecipare a questa particolare caccia al tesoro. La piccola aveva smesso di piagnucolare e forse dentro di sé pensava che chiunque poteva essere meglio della sua mamma che non le dava da mangiare a sufficienza e le lesinava ogni più piccola soddisfazione. Stava già per decidere su quale collo stringere le sue braccine e mettere in atto la tattica del ricatto sentimentale, quando si sentì un urlo straziante di donna: fendendo la folla come un siluro impazzito una mora dalle caratteristiche mediterranee, infilata in un tubino di gran sartoria e sulle spalle una svolazzante pelliccia di zibellino, si avvicinò al carro per recuperare la figliola. Tutti guardarono quella signora uscita dalle pagine patinate di Vogue e cercarono d’inserirla nell’identikit fornito dalla testimone: era come inserire un cannone nella fondina di una pistola. «Dov’è mia figlia, dov’è?» urlava disperata. Il cardinale Richelieu, senza mostrare alcun senso del ridicolo visto l’abbigliamento che sfoggiava e il luogo, guardò la presunta madre con perplessità manifesta e le chiese in modo fin troppo brusco: «Come può garantire di essere la madre visto che una testimone ha descritto una persona completamente diversa da lei. La bimba non sembra molto interessata a lei, e quale figlio mostra tanto disinteresse per il proprio genitore?»
«Ci mancherebbe fossi simile a Irina (Ирина) Inessa (Инесса), la baby-sitter moldava. La bambina è un po’ confusa perché è convinta che la madre sia quella sciattona soltanto perché ci vediamo pochino per via dei miei impegni mondani, e anche perché le normali attività di supporto alle esigenze della piccola è lei, la cicciona bionda, che se ne fa carico. Che vuole farci, caro cardinale, la servitù non è più quella di una volta: zitta, sottomessa, ubbidiente e senza grandi pretese economiche. Pensate che dicono di avere, le tapine, gli stessi diritti dei lavoratori italiani. Mio Dio, che tempi!»
Un lungo e convinto applauso condivise le ultime parole, vagamente razziste della donna in zibellino.
Il cardinale Richelieu, convinto dalle argomentazioni un tantino intolleranti verso i dipendenti e gli extracomunitari, consegnò la piccola che fino all’ultimo mostrò di non essere entusiasta di tornare da quella signora che diceva di essere la madre e che per lei non aveva molto tempo a disposizione.
La signora volle dimostrare la sua gratitudine secondo la moda dei vip: chiamò l’autista che la seguiva a distanza di rispetto e fece consegnare al cardinale e agli altri componenti del carro allegorico tre casse di champagne ‘Diamant de la veuvetombée’. (Una leggenda era alla base di quello strano nome. Secondo lo storico dell’enologia François Cabernet nell’alto medioevo il duca De la Buvette, di alto e antico lignaggio nobiliare e di altrettanta grande scarsità di mezzi finanziari, aveva sposato Madame De La Richesse, donna di scarso profilo nobiliare e d’immensa disponibilità economica. Fra i tesori posseduti dalla madame vi era una straordinaria collezione di diamanti dalle grandezze spropositate,che erano stati il motivo principale delle nozze De La Buvette/De La Richesse: un matrimonio squisitamente d’amore. Il duca decise di eliminare la consorte per entrare in possesso di quella eccezionale collezione di diamanti, e per ottenere questo risultato si era rivolto a una società anonima normanna con sede a Palermo. La ‘commissione’ venne eseguita con la massima serietà professionale e la signora abbandonò questa valle di lacrime senza neppure rendersene conto: il duca divenne vedovo. Avvenne però che madame aveva fatto la stessa richiesta a una società sempre anonima di Catania, e così anche il duca marito passò a miglior vita. Rimase insoluto il dilemma su chi dei due avesse lasciato per primo la vita terrena per raggiungere le celesti praterie: la storia ufficiale è di fatto divisa. Ma il fatto che lo champagne si chiamasse Diamant de la veuvetombée fa pendere la bilancia per la dipartita prioritaria del duca per poter rendere la moglie prima vedova e poi tombée/uccisa. Questa era anche la posizione ufficiale di Antoine L’Ivrede Beaujolais, storico di fama acclarata e strameritato premio DomPérignon. Ma questa è la Storia e a noi interessa relativamente.).
I membri della corte di re Luigi non si fecero pregare e bevvero a garganella, irrigando i lati della bocca e innaffiando gli abiti.
La folla proruppe in applausi,Richelieusi rimise la maschera, i suoi compagni ripresero il canto, e il carro ripartì lentamente in mezzo a una tempesta di battimani e d’evviva.
Febbraio 23, giovedì
Il maestro è molto malato e mandarono in vece sua quello della quarta, che è stato maestro nell’Istituto dei ciechi. Felice Crudele era considerato un maestro particolare, molto particolare, capace di ogni forma di estemporaneità; noto anche per le sue indubbie doti creative applicate alla didattica.
Appena entrato nella scuola, vedendo un ragazzo con un occhio bendato, s’avvicinò al banco e gli domandò che cos’aveva. «Bada agli occhi, ragazzo», gli disse.
E allora Debossi gli domandò: «È vero, signor maestro, che è stato maestro dei ciechi?»
«Sì, per vari anni», rispose. E Debossi disse a mezza voce: «Ci dica qualche cosa.»
Il maestro s’andò a sedere a tavolino. Scorretti disse forte: «L’istituto dei ciechi è in via Nizza.»
«Voi dite ciechi, ciechi», disse il maestro, «così, come direste malati e poveri o che so io. Ma capite bene il significato di quella parola? Pensateci un poco. Nessuno sa dare una risposta soddisfacente al cento per cento, primo perché è difficile immedesimarsi nel ruolo e poi perché è necessario vivere con loro come ho fatto io per molto tempo. Ne ho seguito i movimenti cercando sempre di migliorarli sottoponendo i bambini a prove di deambulazione sempre nuove e irte di ostacoli. Era un principio didattico poco apprezzato mutuato dal grande pedagogista cinese Ndocojocojo: il fine era abituare quei pargoli diversamente abili a vedere con l’occhio della mente. Io lavoravo sulla scorta di un sillogismo perfetto o categorico di scuola aristotelica che ancora oggi ritengo molto ben strutturato: se il politicamente corretto porta gli esperti a non usare più il termine handicappato e sostituirlo con l’espressione ‘diversamente abile’, si tratta di trovare questa diversa abilità per superare la disabilità; per i non vedenti esiste un occhio della mente di cui molti parlano ma pochi conoscono (ne accenna Pirandello nella lettera all’attrice Marta Abba), ed io provo ad allenare quell’occhio, a costringerlo ad aprirsi al mondo. È difficile e faticoso, ma se si opera con costanza e abnegazione, del maestro e dell’allievo, i risultati non possono mancare.»
Affranti si sforzava di capire e stringeva gli occhi alla ricerca immediata di questo fantomatico terzo occhio, senza risultato.
Debossi, al solito, fece la domanda delle cento pistole, quella che tutti avrebbero voluto fare ma non potevano perché solo gli eletti possono capire le spiegazioni complesse: «Maestro Crudele, è mai riuscito a rendere consapevole un alunno dell’esistenza di questo terzo occhio e gli ha insegnato ha utilizzare questo campo visivo virtuale?»
«Cari ragazzi, purtroppo gli esseri umani brillano per la loro incapacità di capire le scoperte scientifiche e ogni forma d’innovazione. L’invidia poi fa il resto! Pensate che il grande NdoCojoCojo è pressoché sconosciuto nella stessa terra che gli ha dato i natali, figurarsi in questa nostra nazione così restia ad accettare ogni novità. Non mi è stata data la fiducia e il tempo sufficienti. Ma c’ero quasi arrivato.»
Scorretti riuscì ad andare oltre: «Chi le ha impedito di portare a termine il suo progetto innovativo?»
«Ovvio e scontato: i genitori che hanno sollecitato l’intervento delle autorità scolastiche perché sostenevano che utilizzassi metodi irresponsabili, quasi sadici. E questo solo perché frapponevo ostacoli improvvisi al percorso degli alunni, che si procuravano qualche innocente livido. Questo effetto collaterale, necessario per la riuscita del metodo, non influiva in alcun modo nella vita dei bambini poiché non erano in grado di vederlo. Come si dice: occhio non vede corpo non duole. È il destino dei grandi quello di non essere capiti dai propri contemporanei: prima di me Amedeo Modigliani, Vincent Van Gogh, Antonio Santi, Giuseppe Meucci, Francesco Redi, Maurice Hilleman, per citarne solo alcuni, che lungo sarebbe l’elenco; e qualcuno è ancora in attesa di quel riconoscimento che non gli si vuole dare neppure da morto. Io non me la prendo con chi non mi ha capito: sono cose che capitano alle persone intelligenti e professionalmente preparate. Il nostro non è un paese per geni.»
La classe ammutolì. Garuffa guardò di sponda il maestro e lanciò la sua palla: «Com’è riuscito a restare nel mondo della scuola nonostante le denunce, che non saranno mancate da parte dei genitori.»
«…e delle autorità scolastiche tutte, e della stampa di regime.» Aggiunse Crudele.
«Ecco, appunto! Viste le rimostranze generalizzate, come ha fatto a resistere agli attacchi generalizzati?»
«Chi vuole galleggiare, deve saper nuotare, anche in acque perigliose. Per mia fortuna ho parenti potenti sistemati nei piani alti dei palazzi del potere, che possono incidere sulle scelte anche ministeriali. In particolare ha svolto un ruolo essenziale un mio caro zio cardinale emerito e primo cameriere del Papa. Ho accettato una classe comune e ho dovuto dimenticare tutti i miei studi sull’insegnamento ai ciechi. Spero che qualcuno raccolga il testimone e continui la strada finora percorsa. Ho trascritto in un quadernone tutti i tentativi svolti per sviluppare in quei piccoli disgraziati la sensibilità dell’occhio della mente. Ero a buon punto quando mi hanno fermato: tre dei miei alunni più intelligenti erano riusciti a vedere due ostacoli di fila, anche se erano andati a sbattere su un meraviglioso cactus chollaiperspinoso e su uno splendido esemplare di saguaro inviatomi da un mio parente in gita nel Saguaro National Park di Tucson in Arizona. Su questo episodio, importante step verso il superamento dell’handicap, hanno costruito il più spin… velenoso attacco personale. Ho dovuto sopportare ogni tipo di offesa, ma ho saputo reagire con rigore e onestà d’intenti con la consapevolezza che io ero nel giusto e, alla fine, la verità avrebbe trionfato.»
La classe ascoltava estasiata quel maestro anche di vita, ammirata dal suo coraggio e dalla sua rigorosa e indomita volontà. Piacciono ai giovani le persone che si mettono in gioco e che rischiano in proprio, e Felice Crudele era fra questi: uomo, come si diceva una volta, tutto d’un pezzo, anche se i genitori dei bambini ciechi temettero non poco di vedere i loro figlioli tutt’altro che ‘d’un pezzo’ nel flipper casuale degli ostacoli all’interno dell’aula.
Il maestro si entusiasmava quando parlava delle sue esperienze con i ciechi e dei meravigliosi momenti passati con loro. “Bisogna osservarli bene. C’è dei giovani di sedici o diciott’anni, robusti e allegri, che portano la cecità con una certa disinvoltura, con una certa baldanza quasi.”Ripeteva socchiudendo gli occhi per risvegliare nella memoria ricordi di mattinate serene, passate a ridere come matti ogni qualvolta qualcuno urtava gli improvvisati ostacoli. Con particolare divertimento citava il caso di un certo Lucio che era rotolato fuori dall’aula come una boccia da bowling dopo aver urtato con violenza una stufa accesa che il maestro aveva frapposto al suo incedere. Il maestro aveva sperato, e la valutazione era in fondo corretta, che il calore della serpentina sollecitasse il famoso terzo occhio e gli facesse evitare l’ostacolo incandescente.
«Lo spettacolo fu fantasmagorico: il piccolo Lucio incise l’avanbraccio con la serpentina arroventata, descrivendo un meraviglioso quanto strabiliante tatuaggio tribale sul braccio destro. Si gridò allo scandalo per un tatuaggio di cui in futuro sarebbe andato fiero.» S’interruppe e ci guardò con gli occhi velati, quasi commosso per quel ricordo di quei piccoli non vedenti a cui aveva dedicato parte della sua vita scolastica.
Affranti commentò a mezza voce, per non farsi sentire dal maestro: «Che attore! Se non lo conoscessi, crederei sincera la sua apparente commozione.»
Scorretti mise il carico da undici: «L’ho visto io due anni fa ridere come un pazzo dopo aver fatto lo sgambetto a un suo piccolo alunno cieco. Mio padre racconta che è protetto da gente del Vaticano e non possono licenziarlo; ha usato una parola strana, come sarico… sardico… sadiro… Non la ricordo bene ma voleva dire che è uno al quale piace fare del male agli altri.»
«Quando incontrerete un cieco, non chiedetevi ‘che cosa puoi fare tu per lui, ma cosa può fare lui per te’. Vi vedo perplessi e magari trovate la massima un pochino distorta. Se ci riflettete, non troverete la cosa così strana: loro hanno una carica d’umanità straordinaria, figlia della sofferenza, e possono rivolgere agli altri questa carica di bontà. Noi, invece, siamo di fatto egoisti e poco c’interessiamo alla sorte degli altri perché non ci manca il dono della vista e possiamo gestire al meglio il nostro corpo nello spazio. Se quest’assunto è corretto, e lo è, appare evidente il perché dell’adattamento della massima kennediana.»
«Signor maestro, c’è qualche alunno al quale è rimasto particolarmente legato da sentimenti d’affetto?» Chiese timidamente Sgarrone.
«Li ho tutti sul mio cuore e ho qualche difficoltà a citarne qualcuno in particolare. Però…, però…, a pensarci bene uno al quale mi sono oltremodo affezionato c’è: il piccolo Aquila Del Guercio è stato forse l’unico caso di alunno parzialmente recuperato. Sono stato aiutato, in questo caso particolare, dall’assenza della famiglia: il padre era in carcere, dove scontava una pena a nove anni per rapina a mano armata a una gelateria nel mese di dicembre; la mamma doveva raggranellare quanto bastava per tirare avanti insieme ai suoi cinque figli e per realizzare uno stipendio adeguato spesso lavorava notte e dì, ragione per la quale non poteva seguire adeguatamente il lavoro scolastico dei propri figli. Anche se può apparire un’eresia, talvolta l’assenza dei genitori può essere utile all’intervento degli insegnanti liberi da pastoie familiari che troppo spesso impediscono un’efficace azione didattica. Tutte le mattine preparavo percorsi per i miei allievi, ma per il piccolo Del Guercio ero andato ben oltre. Agli ostacoli aggiungevo qualche difficoltà in più: cospargevo il pavimento di olio, acqua, ghiaino, sabbia e diffondevo nell’ambiente il sonoro di un gran premio di formula uno: da Silverstone a Monza, anche se il mio preferito era Montecarlo. L’effetto era strepitoso: le cadute diventavano degli autentici fuori pista e le conseguenze erano amplificate da due microfoni che ne spandevano, tramite potenti altoparlanti, la colonna sonora nell’ambiente, consentendo a tutti i partecipanti non vedenti di godere delle performance del compagno. Era diventato talmente bravo che a momenti sembrava di vedere il grande sciatore Gustav Thöni fra i paletti dello slalom speciale. Purtroppo anche questi trionfi furono messi in cattiva luce da persone invidiose che mal digerivano i miei successi. Come ricordano i Vangeli (Luca 4, 24) ‘Nemo prophetaacceptus est in patria sua’. Io, in pieno spirito evangelico non me la sono mai presa, consolato da uno zio cardinale che mi ha consigliato di passare alle classi comuni per chiudere le inutili polemiche e di perdonare quelli che non capiscono. Con spirito cristiano ho seguito il consiglio e sto proseguendo la mia missione didattica con voi piccoli allievi nella speranza di poter applicare le emergenti didattiche.»
Il maestro aprì la sua ventiquattrore nera dalla forma alquanto strana: era una simbiosi perfetta fra una borsa da strega e quella di un medico; aveva la forma di parallelepipedo arrotondato nella parte che ospitava il manico e una chiusura a scatto con pesante fibbia in ottone brunito rappresentante la testa della Medusa di Caravaggio. Quella borsa impressionava noi alunni che ci aspettavamo contenesse qualche strana diavoleria, qualche oggetto derivato da strumenti correttivi medioevali in uso nelle scuole d’antan.
Con fare misterioso, dopo aver dato uno sguardo furtivo alla porta, fece scattare la serratura e infilò la mano ritirandola con lentezza esasperata. Stringeva fra le dita un orologio molto particolare e ce lo mostrò descrivendoci le sue peculiarità tecnologiche: «Come potete notare non ha i numeri per indicare le ore e i minuti, perché i ciechi non ne traggono alcuna informazione, e la cornice con il vetro si apre spingendo il pulsantino sul lato. Ho personalmente progettato e realizzato con un mio amico orologiaio questo strumento utile ai miei cari alunni. Per poter conoscere l’ora esatta al posto dei numeri ho inserito degli spilli sistemati in modo da indicare l’ora e le due lancette sono state ricavate da una barra di metallo di uranio impoverito che si scalda al contatto, facilitandone l’individuazione.»
Rinfilò la mano nella capiente borsa ed estrasse una targhetta di bronzo. «Come potete constatare reca il testo di uno dei più profondi e indicativi proverbi della tradizione italiana: ‘Non tutti i mali vengono per nuocere’. È una perfetta sintesi della mia didattica. Poiché restava ancora irrisolto il problema dell’incapacità di leggere dei miei piccoli allievi, un messaggio sonoro programmabile nel tempo lo ripeteva con enfasi in tre lingue europee.»
La classe era rapita dal racconto di questo maestro che aveva dedicato la sua vita a chi soffriva e che così poco aveva avuto da chi doveva riconoscergli quei meriti che solo l’ingegno riesce a garantire.
Scorretti ruppe il silenzio commosso: «Come avvenne il suo saluto ai piccoli ciechi?»
«Per dimostrarmi tutto il loro affetto, quando li salutai con un semplice e commosso ‘arrivederci’, mi risposero con un corale e speranzoso: MAGARI!»
Il maestro malato
Febbraio 25, sabato
Ieri sera, uscendo dalla scuola, andai a visitare il mio maestro malato. L’avevo fatto su consiglio di mio padre e l’assenso silenzioso di mia madre. «Ricordati che, sempre, una mano lava l’altra, e mostrarsi gentili con chi può incidere sulla nostra vita non solo è atto opportuno ma doveroso. Farsi furbi è la prima regola della nostra società. Non credere mai a chi ti dice che se hai capacità e talento riuscirai sempre a emergere. Chi comanda, e sono sempre persone che hanno raggiunto il loro livello Peter(1), è solito circondarsi di imbecilli che non gli facciano ombra. Poiché qualcuno deve pur lavorare, chi sta al vertice delega il da farsi a chi mostra qualche capacità. Il compito deidirigenti, per mantenere la loro posizione privilegiata, anche se subalterna al potere, è tenersi prudentemente lontano dal proprio livello d’incompetenza e lavorare nell’ombra per sostituire il capo, impadronendosi dell’informazione. Quindi: sottomesso fino a che non sarai in grado di deporre chi comanda. Mostrati disponibile e sottomesso e nessuno avrà timore di te e delle tue chances.
Poiché il maestro può ancora esserti utile, portagli il vassoio di dolcini che mamma ha comperato nella pasticceria del sig. Dolce Glassato. So che è molto goloso e la cosa non può che fargli piacere.»
«Se sta male, come può mangiare dolci?»
«Tranquillo figliolo! Non sempre ciò che crediamo di vedere o sapere corrisponde alla realtà. Percattivi ha lasciato credere che la sua malattia fosse figlia dello stress accumulato nell’espletamento del proprio lavoro di educatore. Tra i colleghi, più cinici dei genitori, circola la voce che ha deciso di prendersi qualche giorno di riposo perché deve lavorare nella vigna da cui normalmente riesce a ottenere una ventina di ettolitri di stupefacente cabernet e una trentina di possente cannonau. I maldicenti sussurrano che la quantità sia appena sufficiente a corroborare e rivitalizzare le serate culturali nella sua cantina nei fine settimana. Ai cenacoli partecipano i colleghi di sesso maschile e Guido La Baracca, garantendo al gruppo un alto contenuto intellettuale. La presenza del dirigente facilitava le assenze strategiche del maestro e funzionava come una sorta di franchigia: nessuna visita fiscale era richiesta. Ciascun partecipante aveva l’obbligo di contribuire con alimenti diversi, tutti lasciati al gusto personale sempre di altissimo livello gastronomico: si andava dal formaggio super stagionato alla salsiccia piccante, dai sottaceti vari alle olive salate ed essiccate al sole. Così passavano allegramente il sabato sera e ogni altra giornata prefestiva, e, poiché il convivio era tra insegnanti, gli incontri s’intensificavano durante le vacanze natalizie, pasquali o estive.
Le leggende sulle serate erano oggetto di commento in altre serate, secondo la regola dello psicoterapeuta Vincenzo Inconscio (Nel tempo libero si dedicava al suo hobby preferito: la musica hard rock a pulsione stroboscopica con gli amici del Complesso di Edipo): «Parlare male degli altri ti solleva il morale e ti fa sopportare meglio questa vita di merda.»
(1) Laurence J. Peter è autore del saggio The Peter Principle. Tutto ruota intorno al principio d’incompetenza, che mette alla berlina ogni progressione di carriera aziendale: 1) In ogni luogo di lavoro un dipendente viene promosso fino a raggiungere il proprio livello d’incompetenza. 2) Le posizioni di comando sono destinate a essere occupate da dirigenti o funzionari incompetenti per i compiti che devono svolgere. 3) Il lavoro è assicurato dai dipendenti che ancora non hanno raggiunto il livello d’incompetenza.
Il maestro aveva sistemato una telecamera all’ingresso della sua casa per vedere chiunque bussasse alla sua porta. Quando usciva per andare in campagna lasciava un biglietto con scritto ‘Sono dal medico. Torno subito!’.
Mia madre m’aspettò sotto il portone, io salii solo, e incontrai per le scale il maestroErcoatto con una strana macchia rossastra sul labbro superiore che eliminò lesto con la manica della giacca. Salutai educatamente ed ebbi come risposta una specie di ruvido grugnito. Quando lo superai sorrisi divertito per quella macchia rossa di vino sulle labbra che indicava una sosta rifocillatrice.
Io ridevo ancora tirando il campanello, al quarto piano; ma rimasi male subito, quando la serva mi fece entrare in una povera camera, mezz’oscura, dove era coricato il mio maestro. Era in un piccolo letto di ferro, aveva la barba lunga. Si mise una mano alla fronte, per vederci meglio, ed esclamò con la sua voce affettuosa: “Oh Enrico!” Io m’avvicinai al letto, egli mi pose una mano sulla spalla, e disse: “Bravo, figliuolo. Hai fatto bene a venir a trovare il tuo povero maestro. Son ridotto a mal partito, come vedi, caro il mio Enrico. E come va la scuola? Come vanno i compagni? Tutto bene, eh? anche senza di me. Ne fate di meno benissimo, è vero? del vostro vecchio maestro.
Un attore, un vero attore, degno dell’Accademia d’arte drammatica. E quel tocco di classe rappresentato dalla barba lunga e incolta? E la voce flebile dell’uomo sofferente? Un oscar, avrebbe meritato un oscar il mio maestro! S’illuminò solo alla vista dei cioccolatini e si schernì con eccessiva gestualità: «Non dovevi disturbarti, anche se ormai sono l’unica cosa che riesco a mandar giù.» Glieli porsi e mi scusai per averlo disturbato. Prese la scatola e ne lesse il nome, annuendo con un lieve movimento della testa per mostrare il suo gradimento. Emise un sospiro. Io guardavo certe fotografie attaccate alla parete. «Vedi?» egli mi disse. «Son tutti ragazzi che m’han dato i loro ritratti, da più di vent’anni in qua. Dei buoni ragazzi, son le mie memorie quelle. Mi darai il ritratto tu pure, non è vero? Sono i volti di alunni che hanno voluto, come te, mostrarmi tangibilmente il loro affetto. Non vi dimenticherò mai, per la vostra gentilezza e per aver voluto rendermi la vita più gradevole con qualche cioccolatino o altri doni di vario genere.»Percattivi alludeva all’abitudine dei genitori abbienti di foraggiare le insaziabili voglie degli insegnanti e per ammorbidirne il giudizio finale sui propri figli.
Lo salutai in modo composto ed educato, e, guidato dalla domestica, raggiunsi l’uscita. La mamma mi chiese come stava il maestro. «Penso bene!» risposi sornione. «L’ho trovato abbastanza tranquillo, anche perché aveva appena ricevuto la visita del collega Ercoatto con il quale, credo, ha scambiato talune opinioni sull’uso terapeutico dei prodotti della terra.»
La strada
Febbraio 25, sabato
«Io t’osservavo dalla finestra, questasera, quandotornavi da casa del maestro, tu hai urtato una donna. Ho anche notato che hai perso l’occasione per difendere i tuoi diritti chiedendo scusa e proseguendo senza fermarti. Bada meglio a come cammini per la strada. Anche lì ci sono dei doveri. Non puoi perdere le occasioni che la sorte benigna ti dedica. Un bambino attento ai propri interessi sarebbe dovuto rotolare sul marciapiede e simulare dolori lancinanti alla testa, per poi poter impostare un’adeguata azione di risarcimento. Sei giovane e ancora non hai acquisito modelli di comportamento consoni alle situazioni d’emergenza.
Se ben gestito uno ‘scontro’ fra pedoni può essere un vero affare. Devi seguire delle semplici regole. Ricordati, Enrico. Devi evitare accuratamente incontri conun vecchio cadente, un povero, una donna con un bimbo in braccio, uno storpio con le stampelle, un uomo curvo sotto un carico, una famiglia vestita a lutto, perché qualunque giudice darebbe ragione a chi è in apparente condizione d’inferiorità. Seleziona bene le tue ‘vittime’ e sfrutta il vantaggio di essere un bambino al quale non si può dar torto per via della fragilità legata all’età. Noi dobbiamo evitare la vecchiaia, la miseria, l’amor materno, l’infermità, la fatica, la morte. Nella vita quotidiana può capitare, e non è una cosa particolarmente difficile, di assistere a qualcosa che può coinvolgerti in questioni seccanti e pericolose come: un incidente automobilistico, un pestaggio, uno scippo, una rapina, o qualsivoglia altra vicenda di carattere violento. Non devi lasciarti trascinare dall’entusiasmo del momento e prestarti in aiuti poco opportuni, e se vogliamo non richiesti. Tira dritto, quando puoi. Non è mai opportuno essere presenti quando il pericolo è maggiore. Puoi sempre, se non ti sei allontanato troppo, riguadagnare il luogo del fattaccio e cercare, a cose fatte, di prenderti il merito di un intervento generoso ed eroico mai avvenuto. È la prima regola per una vita lunga e sana: stare lontano dai guai finché è possibile.
Quando si è giovani, è facile farsi commuovere da persone in difficoltà o ammalate, da donne disperate che dichiarano di non essere in grado di mantenere i propri figli, da questuanti vari che palesano infermità multiformi. Sappi, ed è la saggezza dell’età che parla, che la stragrande maggioranza di quelle persone meriterebbe un posto nel pantheon degli attori. Studiano a lungo, figlio mio, il sistema migliore per intenerire le persone credulone. Mi ricordo ancora di un vecchio signore che tutti aiutavano perché ritenevano avesse grosse difficoltà economiche. Quando morì, nel pagliericcio del suo tugurio trovarono due libretti al portatore con duecentomila euro ciascuno e settantamila euro in contanti. Gli eredi, che si erano sempre defilati nel momento dell’apparente, oggi lo sappiamo con certezza, bisogno, ricevettero la meravigliosa notizia che il poveretto era anche proprietario di una palazzina di quattro piani in pieno centro, che gli rendeva circa seimila euro al mese di affitti tassativamente in nero.
La maggior parte di quelli che vedi sofferenti agli angoli delle vie o ai semafori negli incroci stradali finge e non ha alcun bisogno di aiuto. Rimangono solo rare eccezioni che potremmo contare sulle dita di una mano. E per pochissimi casi pensi che valga la pena di preoccuparsi? Non mi pare possano esserci dubbi: no, non ci si deve preoccupare! E, del resto, non è mica colpa nostra se qualcuno non sa farsi valere o non riesce a mettere d’accordo il pranzo con la cena.
Se proprio non riesci, per motivi che sfuggono al tuo controllo, cerca sempre di ottenerne un vantaggio personale: un encomio, qualche regalia, una ricompensa in denaro.
Per la strada ti potrebbe capitare di vedere qualche gruppo di persone che sotto sigle disparate chiedono soldi per aiutare questo o quel paese del terzo mondo. Per tua fortuna tuo padre è ricco di esperienza e lavora in banca. Posso garantirti che il novanta per cento delle associazioni serve solo per accumulare denaro da redistribuire fra i propri membri e per sostenere le spese vive della struttura benefica. I loro conti trasudano denaro e quasi mai prendono la strada dei paesi più poveri. Puoi sempre dire, facendoti bello, che già sostieni altre associazioni e che non puoi dare soldi a tutti.
Non dimenticare mai che le vie della città sono frequentate da malviventi alla ricerca di qualche pollo da spennare, in particolare anziani, più facile da manipolare e raggirare.
Fingi sempre di non vedere persone provenienti da paesi del terzo mondo: neri, gialli, mattone e colorazioni varie. Sono maestri nel pigiare il pulsante della commozione e suonare le corde del tuo cuore. Non ti fare ingannare, Enrico, dalle loro voci flebili e disperate, frutto di una scuola della pietà che ha radici lontane nel tempo. Hanno costruito una sorta di filosofia dell’accattonaggio con l’unica finalità di vivere a sbafo. Non che trovi la cosa riprovevole, poiché è una delle possibili forme della furbizia umana, ma è legittimo difendersene con tutti i mezzi. Sappi che tutti gli immigrati puntano al nostro welfare, gratuito e genera-lizzato, che ogni cittadino italiano deve pagare con tasse sempre più elevate. Queste sanguisughe ingolfano gli uffici del nostro Istituto di Previdenza, gestito dall’oculato dott. Costante Prelievo.
E nella città più che in ogni altro luogo crescono e proliferano le associazioni più lucrose: i partiti politici. Non storcere il naso quando ti capita di assistere a qualche comizio, sottovalutando quell’esercizio retorico. Sappi che non esiste strada migliore per arricchirsi legalmente alle spalle degli altri. Se dovessi scegliere di entrare in qualche associazione no profit, orienta la tua scelta verso quei gruppi che hanno più visibilità e movimentano più quattrini: nella confusione generale è facile distrarre fondi e rimpinguare il proprio conto corrente.
Fuori dalla sicurezza della tua famiglia e della tua casa devi diventare un pesce capace di nuotare in qualsiasi acqua, senza fare troppo lo schizzinoso.
Dove troverai astuzia per le strade, troverai ricchezza nelle case. E studiale, le strade, studia la città dove vivi; se domani tu ne fossi sbalestrato lontano, saresti lieto d’averla presente bene alla memoria, di poterla ripercorrere tutta col pensiero, – la tua città, la tua piccola patria, – quella che è stata per tanti anni il tuo mondo, – dove hai fatto i primi passi al fianco di tua madre, provato le prime commozioni, aperto la mente alle prime idee, trovato i primi amici. Essa è stata una madre per te: t’ha istruito, dilettato, protetto. Studiala nelle sue strade e nella sua gente, per difenderti in modo adeguato, per non farti inghiottire dalle trappole tese da pseudo mecenati del ‘magna magna’, per sapere cogliere il meglio da ogni affare ti si dovesse prospettare. La città è un’occasione di business eccezionale, e tu devi saper cogliere il momento giusto per monetizzarla, magari dando una mano al destino quando sembra non volerti favorire.
Tuo padre»
Le scuole serali
Marzo 2, giovedì
Mio padre mi condusse ieri a vedere le scuole serali dove in 150 ore si poteva conseguire la licenza della scuola media di primo grado. Aveva deciso di mostrarmi come l’ambizione può spingere le persone a migliorare la propria condizione culturale, ipotizzando un’uguale crescita economica e sociale.
La scuola media era ubicata nello stesso edificio della scuola primaria, pur avendo ingressi separati. Proprio mentre ci accingevamo a varcare la soglia, sentimmo un improvviso fragore di vetri frantumati. Accorsero di gran carriera tutti gli insegnanti e Guido La Baracca, seguiti con molta flemma da un infastidito Posapiano (Stava leggendo il suo fumetto preferito, un manga giapponese dal titolo indicativo: Il lavoro distrugge il corpo e l’anima.). Tutti erano imbestialiti perché poco prima era stato rotto da una sassata il vetro d’una finestra: il bidello, saltato fuori (si fa per dire), aveva acciuffato un ragazzo che passava (per lui uno valeva l’altro, purché tutto si chiudesse il più rapidamente possibile); ma allora s’era presentato Bastardi, che sta di casa in faccia alla scuola, e aveva detto: «Non è costui, ho visto coi miei occhi: è Affranti che ha tirato, e m’ha detto: ‘Guai se tu parli!’ ma io non ho paura.»
E il Direttore disse che Affranti sarà scacciato per sempre. Poi, rivolto agli insegnanti, memore della sfuriata della mamma del reo e delle minacce dell’avvocato: «Bisogna valutare la veridicità di quanto afferma quest’alunno, senza fretta e con tutta la necessaria ponderazione. E nel caso in cui la colpevolezza fosse accertata senza ombra di dubbio, va valutata anche la possibilità di un gesto non voluto, di un errore di valutazione, di un atto di cui non si sono ben valutate le conseguenze. Potrebbe anche trattarsi di una banale marachella, frutto della giovane età del ragazzo. Insomma, non bisogna essere precipitosi e si deve sempre considerare in modo approfondito ogni possibile sviluppo. Non dimentichiamoci che ogni atto autoritario in età giovanile può avere conseguenze serie sul suo futuro.» Guardò tutti con aria da cane bastonato, lasciando intuire che i suoi margini d’intervento erano minimi: ubimaior, minor cessat, e lui, rispetto alla potenza economica della famiglia Affranti, era proprio minor.
Per distrarre l’attenzione da quell’episodio che avrebbe potuto, se gestito male, creargli non pochi problemi, raggiunse rapidamente l’ingresso, dove già facevano ressa gli studenti-adulti-prevalentemente operai. Salutava tutti con calore e familiarità:«Buonasera, Giuseppe!», «Caro Michele, come va?», «Matteo, com’è andata la tua giornata lavorativa?»
C’era una parola buona per tutti, un incoraggiamento, un segno tangibile della propria stima.
Guardai perplesso mio padre che increspò il labbro in un’ironica smorfia. Mi spiegò più tardi, sulla strada verso casa, che Guido La Baracca teneva ottimi rapporti con tutti i frequentanti le 150 ore provenienti dal mondo dell’artigianato. Aveva usufruito, a titolo gratuito, dei servizi di un idraulico per rifare il bagno, di un meccanico per la manutenzione delle auto di famiglia, di un imbianchino per tinteggiare le pareti, e di decine di altri piccoli favori, tutti a scrocco (ça va sans dire)!
Mi piaceva osservare quel via vai di adulti in una scuola che il mattino ospitava bambini e ragazzi, e mi piaceva pensare che la tortura quotidiana che insegnanti e personale scolastico ammannivano a pargoli innocenti, nelle ore serali, trovasse obiettivi meno malleabili. Non si sentiva il solito urlare degli insegnanti contro indifesi alunni per il timore che quelle mani callose e abituate ai lavori più faticosi potessero accarezzargli le gote; e c’era sempre il diktat di La Baracca che non poteva perdere quelle efficienti mani per la risoluzione di problemi quotidiani che, diversamente, sarebbero costati cifre eccessive per un servitore dello stato. Non va sottovalutata l’influenza che poteva avere nei comportamenti del corpo docente l’utilizzo gratuito e generalizzato dei servigi di quegli artigiani.
I docenti si curavano più delle specializzazioni professionali degli alunni che della necessità d’impartire loro le lezioni dovute. Qualcuno teneva anche un’aggiornata rubrica con i nomi divisi per specializzazione e per disponibilità, marcando, come in una guida Michelin, con delle stelle i più bravi e i più disponibili, gratis naturalmente.
Rimasi meravigliato, quando cominciarono le lezioni, a vedere come tutti stavano attenti, con gli occhi fissi. Non riuscivo a capacitarmi di tanta attenzione da parte di persone che già svolgevano un lavoro retribuito come dipendente o in ‘proprio’ e palesai le mie perplessità a mio padre, anche perché ero convinto che in quegli studenti più che maturi non ardesse il sacro fuoco della cultura.
Il genitore mi guardò bonario: «Caro il mio ingenuotto, questi hanno tutti necessità del titolo di studio minimo previsto dalla legge per ottenere licenze di lavoro o di commercio, per accedere ai famosi corsi sulla sicurezza senza i quali non si può iniziare alcuna attività lavorativa ufficiale. Quanto poi allo stare attenti, la cosa non dipende dal bisogno di apprendere, ma dal contenuto di quelle lezioni: quelle impartite sono veri e propri insegnamenti di vita. Si parla di ciò che avviene in città, degli ultimi pettegolezzi, di come sia facile fare soldi con le giuste conoscenze e la scuola rende più facile conoscere certi canali che portano in quei luoghi dove transitano grosse somme di denaro che aspettano solo di essere dirottate verso le tasche dei più astuti. Quei luoghi si chiamano politica, figlio mio, e sarebbe opportuno che tu fin d’ora te ne occupassi per impedirle di occuparsi di te. Ogni cosa che vedi nella scuola, ed è questo il motivo per il quale ti ho portato qua, è uno spot sui comportamenti da tenere nella vita quotidiana: usa tutta la diplomazia possibile con i potenti, per ottenerne il consenso e i favori, e l’alterigia del potere con i deboli, per spaventarli e farne dei silenziosi esecutori.»
Sul momento il contenuto dei suggerimenti di mio padre mi parve poco chiaro, ma con gli anni e con l’esperienza mi resi conto di quanto avesse ragione.
La lotta
Marzo 5, domenica
Era da aspettarsela: Affranti volle vendicarsi, e aspettò Bastardi a una cantonata, dopo l’uscita della scuola, quand’egli passa con sua sorella, che va a prendere ogni giorno. Mia sorella Silvia, uscendo dalla sua sezione, vide tutto e tornò a casa piena di spavento. Ecco quello che accadde. Affranti corse in punta di piedi dietro di Bastardi, e per provocarlo, diede una strappata alla treccia di sua sorella, una strappata così forte che quasi la gettò in terra riversa. La ragazzina mise un grido, suo fratello si voltò. Affranti, che è molto più alto e più forte di Bastardi, pensava: “Con due ceffoni lo stendo!”
Non pensava, il tapino, che Bastardi da qualche tempo frequentava la palestra di kung fu (era ormai esperto di Tai Chi Chuan e di Shaolin Mei HuaChuan della Cina del Nord) gestita dal grande maestro Li Tai I Pall, cinese con strane commistioni lumbard.
Si piantò in posizione Ma Bu (Posizione del cavaliere) e attese la mossa di Affranti che, stupito, lo guardava in quella postura modello dissenteria. E rise, l’incosciente, avanzando senza difesa e sottovalutando l’avversario che, con una velocità imprevedibile per quel corpo tozzo, lo colpì con una serie di Kung Chien Pu Tan Pien, mulinando le braccia come fruste imprevedibili. Affranti rimase affranto e dolorante dopo quel primo attacco, e guardò confuso il suo antagonista che aveva già riassunto la posizione Ma Bu. Riprovò a colpire l’avversario con tutta la rabbia che aveva in corpo esponendosi alla nuova reazione di Bastardi che aveva già assunto la posizione DingBu (Posizione del Chiodo) in una variante mistica con levitazione antigravità elaborata dal maestro Chu Ein Stein, scopritore della variabilità della gravità terrestre se sottoposta al flusso dei raggi egoici correttamente impostati sulla Griglia Energetica. Era la derivazione eretica della corrente mistico/veggente ideata dalla baronessa russa Galina Prosperova, su ispirazione divina del dio Mainomenos (come lei stessa scrisse in un ponderoso volume dall’indicativo nome: Memorie di una messaggera divina mandata fra gli uomini per redimerli).
Dopo una sosta a mezz’aria scagliò un calcio volante di potenza inusitata sul viso del provocatore e nel ricadere assunse la posizione Shéjiūchánxiàyèlǐzhòngxīnggǒngyuè (secondo il vocabolario del dotto mandarino siculo/cantonese Mi Ziga: Serpente aggrovigliato di notte sotto la luna attorniata da una miriade di stelle.)
Nella strada non c’eran che ragazze, nessuno poteva separarli. Affranti provò a reagire in modo confuso e, bofonchiando parole senza senso, allungò il destro nel tentativo di col-pirlo. Il risultato fu disastroso: una gragnuola di colpi di mani e di piedi lo fece barcollare e cadere rovinosamente a terra. Con un guizzo Bastardi gli fu addosso e lo bloccò a terra con la tecnica HonKesaGatame, modificata con i suggerimenti del maestro di sidereo dan Cin CianPahi che prevedevano una serie d’invettive umilianti tese a demolire la sicurezza dell’avversario. Bastardi diede fondo al suo vocabolario più velenoso e scurrile: «Antipatico, noioso e borioso!» Si dilungò con vari altri improperi uno più cattivo dell’altro fino a concludere con un terrificante: «Tua madre a ogni tuo compleanno manda un biglietto di scuse ai parenti.» Fu il colpo decisivo. Affranti batté ripetutamente la mano per terra in segno di resa, strabuzzò gli occhi anche per la morsa praticata con la tecnica HonKesaGatame, bofonchiò delle poco comprensibili scuse, supplicò, pianse.
La gente seguiva sbigottita quella scena di lotta che era durata pochi secondi e che aveva visto il provocatore soccombere rapidamente di fronte a quello sfoggio di tecnica di lotta orientale. Un signore, non avendo assistito alla prima parte della contesa, voleva intervenire per separare i contendenti e dare qualche salutare scapaccione a Bastardi che riteneva colpevole.
Una donna gridò dalla finestra: “Bravo il piccolo!” Altre dicevano: “È un ragazzo che difende sua sorella.” “Coraggio! Dagliele sode.” L’uomo capì, dopo le spiegazioni dei presenti, che il colpevole era chi le stava prendendo e si scusò per l’errore, aggiungendo un: “Non fargliela passare liscia a quel prepotente.”
Alla fine, soddisfatto della lezione impartita all’arrogante compagno e vendicato l’onore della sorella, mollò la presa e gli fece cenno di alzarsi. “Per me la lezione è sufficiente, puoi anche andar via.” Svelto come un gatto Affranti se la dette a gambe, malconcio. Bastardi guardò fiero gli astanti e sollevò il braccio in segno di vittoria, accanto alla sorella che piangeva, mentre alcune ragazze raccoglievano i libri e i quaderni sparpagliati per la strada. “Bravo il piccolo,” dicevano intorno, “che ha difeso sua sorella!”
Lentamente la piccola folla si disperse e il ragazzo con la sorella ripresero rinfrancati la strada verso casa. Affranti subì una dura lezione e capì che in futuro mai avrebbe dovuto sottovalutare la capacità di reazione dei suoi avversari. Per evitare ulteriori umiliazioni pubbliche s’iscrisse nella palestra di taekwondo del maestro 10° dan ‘N ‘òsseLihSpez, per metà coreano per metà ciociaro, tanto che inserì nel metodo da lui elaborato, seppur misconosciuto, l’utilizzo come armi delle cioce con la punta rinforzata in metallo. Non è dato sapere se ha saputo far tesoro della lezione impartitagli, ma si poteva con certezza ipotizzare una lunga assenza dalle scene per l’umiliazione subita.
La Cadillac
Marzo 8, mercoledì
Vidi una scena commovente ieri sera. Eran vari giorni che ‘l’erbivendola’, ogni volta che passava accanto aDebossi, lo guardava, lo guardava con una espressione di grande affetto; perché Debossi, dopo che seppe degli agganci politici e delle sue altre conoscenze che contavano, prese a benvolere il suo figliuoloVurazzu u russu, quello dei capelli rossi e del braccio morto, e l’aiutava a fare il lavoro in iscuola, gli suggeriva le risposte, gli dava carta, penne, matite: insomma, gli faceva come a un fratello, nella certezza che la cosa gli sarebbe potuta tornare utile. Era leghista, incontestabilmente un duro e puro. Ma, di fronte alla prospettiva di qualche vantaggio personale, attuò la tattica del comparaggio: io faccio un favore a te e tu fai un favore a me. La cosa sembrò funzionare alla grande. Lui si limitava a fare piccoli, piccolissimi favori e in cambio riceveva doni di ogni sorta. Una volta venne accompagnato, fra l’invidia di molti, a casa con una lussuosa Cadillac che aveva seguito il padre di Vurazzu dagli USA. Si sussurrava che fosse un dono da parte del padrino per i servizi resi in quel di Chicago, quando aveva convinto con argomenti estremamente validi il capo di un potente sindacato a organizzare uno sciopero finalizzato a far decadere il presidente di un’importante olding finanziaria, ‘La fate bene ai fratelli’. Il nuovo presidente riuscì a innescare la famigerata crisi dei subprime, che aveva messo in ginocchio le economie del mondo occidentale, favorendo alcuni gruppi molto accorti che, con operazioni audaci e ‘forzate’, avevano gonfiato in modo spropositato il loro portafoglio. Il malloppo… la somma delle perdite causate da quella crisi si aggirava sui 4000 miliardi di dollari. Per la gente comune e per le banche si trattò di perdite, ma per chi sapeva gestire la bolla speculativa si doveva parlare di guadagni. La famiglia del padrino del padre di Vurazzu riuscì a ottenere straordinari guadagni, grazie al presidente della holding eterodiretto dalla famiglia.
Queste operazioni non fanno sparire i soldi, che rispondono come pochi altri al terzo principio della dinamica che afferma, applicato all’alta finanza: «Per ogni somma che una banca o gruppo finanziario A perde, la liquidità movimentata esercita su una banca (off shore) B una spinta all’accaparramento uguale e contraria, causata dalla banca B (sempre off shore) sui capitali della banca o gruppo finanziario A.» Di là della regola generale, significa che i soldi che spariscono da una parte si riposizionano da un’altra, quasi una sorta di legge Houdini: «I soldi non spariscono mai, si trasferiscono semplicemente di conto.» E la Cadillac fu il ringraziamento più evidente, ma non l’unico, per avere contribuito nell’avere rimpinguato i conti correnti della famiglia e degli amici.
Il giovane Debossi era antimeridionale fin nel più profondo del cuore, ma aveva un cervello in grado di aiutarlo a discernere la differenza fra i principi e la realtà. Fece un rapido calcolo mentale e concluse che l’amicizia del padre di Vurazzu valeva la rinuncia a qualche pregiudizio razziale. Ne ottenne vantaggi economici e di prestigio sociale notevoli. Gli stessi insegnanti, che già rispettavano Debossi per la sua astuzia e la sua intelligenza, ebbero per lui maggiore riguardo perché capirono che erano in campo alte protezioni. La cosa fu chiara e lampante quando giunse in visita il ministro della pubblica istruzione on. Saccente Ampolloso. Seguito dal dirigente e da parte del corpo docente entrò nella nostra classe e chiese al maestro chi fosse l’alunno Debossi. Una volta individuato, lo raggiunse e con un gesto paterno gli scompigliò la capigliatura. «So che sei un alunno modello, e mi è stato detto che aiuti in modo disinteressato i compagni. Il tuo altruismo mi è stato segnalato da persona degna di rispetto e onorata, e non è rimasto senza risposta. Io sono qui per dirti grazie per il tuo buon cuore e per la tua generosità quasi francescana. Sarai additato come modello per i tuoi compagni e per tutti gli alunni della nostra splendida nazione.»
Si avvicinò il più possibile a Vurazzu e quasi gli sussurrò nell’orecchio: «Salutami caramente babbo.» Gli accarezzò affettuosamente la gota e uscì seguito dal codazzo di insegnanti e operatori scolastici preceduti dal dirigente.
Il maestro colse l’occasione per cesellare la solita morale tesa a contribuire in modo moderno e adeguato alla nostra crescita, poveri fanciulli inesperti. «Quanto è successo sotto i vostri occhi, va conservato nel vostro cuore ad perpetuam rei memoriam. Spero che abbiate appreso la lezione. Debossi ha aiutato un suo amico di cui aveva intuito le amicizie potenti e importanti. Non ha esitato un momento nel cogliere un’occasione che ha portato, nei suoi attuali sviluppi, vantaggi sostanziali anche alla nostra scuola con la visita del ministro. E, grazie alle conoscenze intrecciate oggi, nel futuro la strada verso il mondo del lavoro sarà lastricata di occasioni. L’on. Saccente Ampolloso ha voluto dare rilievo con la sua presenza all’intelligenza e al meritorio camaleontismo di Debossi, e noi a quel modello ci dobbiamo ispirare. È un’arte saper indossare l’abito da festa dell’opportunismo. Sarebbe bello se la società fosse composta da pari, ma non è così. E allora cerchiamo di stare con chi decide e comanda, con chi detiene le leve del potere.
L’opportunismo è, come sosteneva il grande John Florio (noto a pochi come William Sha-kespeare), come la sedia del barbiere, che è adatta per tutte le natiche.»
Una serata allo stadio
Marzo 13, lunedì
Era giornata di derby. Tutta la città era un ribollire d’iniziative. Le due tifoserie stavano dando gli ultimi ritocchi ai progetti messi in essere fin dal termine del precedente campionato di calcio. Doveva essere la festa della creatività e ciascun gruppo di ultras lavorava in gran segreto per sbigottire gli avversari. Ma, nonostante la minuziosa preparazione, il più era affidato all’improvvisazione del momento.
I rosso crociati erano la squadra blasonata della città, quella che vinceva scudetti e coppe, i giallo blu i cugini poveri, quelli sfigati, con rare permanenze nel campionato di massima divisione e altrettante retrocessioni negli anni immediatamente successivi. Pur rappresentando la stessa città, li divideva una feroce e insanabile rivalità. Erano famosi gli scherzi, anche pesanti, che le due tifoserie si scambiavano con regolarità. Alcuni erano ormai entrati nella leggenda. Si tramanda ancora quanto successe in quello che fu definito annushorribilis da chi non aveva grande interesse per il gioco del calcio e annusmirabilis dai tifosi di entrambe le squadre. I supporter della squadra più titolata coinvolsero il fior fiore dell’intelligencija nazionale. Per mesi architetti, ingegneri, fisici delle particelle, agronomi, informatici, fisici atomici, chimici energetici, periti meccanici, esperti di nanotecnologie, chimici, cuochi, antennisti, politici trombati, netturbini, tronisti televisivi, raccoglitori di erbe selvatiche, chiocciole e funghi s’impegnarono fino allo sfinimento fisico e mentale per studiare qualche scherzo particolarmente efficace da consumare contro e sulla tifoseria avversaria. I fisici e gli ingegneri proposero ogni sorta di diavoleria tecnica per ridicolizzare gli oppositori, ma niente di quanto proposto venne reputato all’altezza della situazione. Fu il raccoglitore di erbe e funghi a partorire l’idea che trovò, con disdoro degli scienziati, tutti d’accordo. Propose di costruire due bancarelle che distribuissero gratuitamente, fingendo di lanciare un nuovo marchio per fast food, panini con patatine fritte e würstel o con prodotti esclusivamente vegetariani. L’inghippo stava nel sistemarne una davanti all’ingresso utilizzato dai rossi crociati con cibo non manipolato chimicamente e una seconda davanti all’accesso per i sostenitori della squadra giallo blu, con panini corretti con dosi abbondanti di lassativo nelle patatine e wurstel fritti nell’olio di ricino. In prima battuta la cosa sembrò non essere particolarmente esaltante. Il fisico Franz Joseph Cassata, noto per la ricerca sull’evanescente particella in grado di collegare la teoria dei quanti con quella della relatività generale, nota come bombolone della Magliana (perché partorita nel bar di ‘ErMagnaccione’ mentre consumava un bombolone che espulse, al primo vorace morso, il suo contenuto di crema pasticciera che gli suggerì la sintesi fra le due teorie), sollevò un’obiezione di merito: «Non mi sembra una grande idea. Il costo dell’operazione mi sembra eccessivo e il risultato potrebbe essere troppo limitato, perché la maggior parte delle persone mangia prima di recarsi allo stadio.»
Anche il raccoglitore ebbe un attimo di titubanza, almeno finché non intervenne un tronista che propose di utilizzare, nella distribuzione dei panini, delle hostess televisive in costume succinto. La proposta fu accolta all’unanimità fra applausi convinti e reiterati. E si diede il via al progetto, che fu realizzato con precisione scientifica.
I giallo blu non restarono con le mani alla cintola. Pur disponendo di fondi inferiori, fecero ricorso alla loro riconosciuta creatività. Gli ultras si riunirono nel bar ‘In vino veritas’ e, tra un mandorlato valpolicella e un sapido cannonau, discussero come organizzarsi per il derby. Scartate le opzioni troppo tecnologiche perché costose, si concentrarono sull’idea lanciata da Mario Pistacchio, gelataio da generazioni, che prevedeva la distribuzione di bibite con buone dosi di diuretico, ovviamente non gratis. Quando si hanno meno risorse economiche, fa d’uopo ingegnarsi per trovarne e poter migliorare il bilancio del proprio club di supporter. Furono sguinzagliati decine di venditori di bibite… corrette, innegabilmente oligominerali, che offrirono agli spettatori di parte avversa a prezzi molto competitivi rispetto al mercato ufficiale. Furono distribuite migliaia di confezioni di birra, aranciata o prodotti di varia provenienza nazionale ed extranazionale. Le due tifoserie furono soddisfatte delle loro genialate e ne aspettarono con gioia e cinismo i risvolti… drenanti. I padri, secondo i dettami di un’educazione adeguatamente partigiana, conducevano seco la propria prole, prevalentemente di sesso maschile; ed era l’occasione per fargli muovere i primi passi nel colorato e variopinto mondo della creatività comunicativa dei tifosi doc.
Nella confusione del derby poteva succedere di tutto e capitava anche che qualche bambino si smarrisse, per la gioia dello speaker che aspettava con ansia il momento di comunicare agli assatanati sportivi che qualcuno si era smarrito, facendo seguire una minuziosa descrizione del disperso.
Sembrava che quella domenica nessun bambino volesse farsi cercare e dare la chance settimanale al povero e annoiato speaker.
Verso la fine del primo tempo avvenne qualcosa di apparentemente inspiegabile, anche se le due squadre non stavano, a dire il vero, dando il meglio di sé. Gli spalti, senza discriminazione di classe e di colori di appartenenza, dalla tribuna vip alle curve, si erano svuotati. Giornalisti e giocatori attribuirono l’assenza del pubblico a una sorta di contestazione contro lo scarso impegno delle due squadre in campo. Le cose non stavano esattamente così. Gli innocenti scherzi messi in atto dalle tifoserie rivali avevano cominciato a sviluppare i loro perniciosi effetti. Tutti i bagni erano occupati e la fila dei ‘bisognosi’ sembrava non avere fine. In quel trambusto si era infilato anche Marietto che, come tutti i bambini, aveva usufruito sia dei panini a costo zero sia delle bibite a tariffa scontata. Era in fila in attesa che si liberasse un vespasiano, ma le cose andavano per le lunghe e il tempo lavorava contro una corretta espletazione dei bisogni corporali. Come una saetta, una voce incontrollata circolò tra quella folla in trepidante attesa: nelle immediate vicinanze dello stadio c’era un oliveto che da anni scarseggiava di frutti. Fu come il classico assalto alla diligenza. Buona parte di quelle persone in fila si lanciò come un’orda selvaggia verso il campo. La truppa si sistemò in quell’ampio oliveto, e in poco tempo ogni angolo e ogni cespuglio fu occupato da un sofferente ospite. Furono, sottolinearlo è d’obbligo, soprattutto quelli che si erano limitati a bere liquidi con diuretico. Per gli altri fu un tantino meno facile e, nell’emergenza, furono aiutati non poco dal possesso di giornali sportivi e di dépliant elogiativi della propria squadra. Marietto, bisognoso di un luogo dove liberarsi, fu coinvolto suo malgrado nella calca che lasciava lo stadio per conquistare l’oliveto. Il padre del bimbo, trascinato dalla folla, si ritrovò in una vicina vigna, dove una parte di quel popolo dolente risolse le proprie urgenze. I calciatori nel frattempo si erano bloccati al centro del campo, increduli per quanto stava succedendo. Mai, a nessuno di loro era accaduto di vedere lo stadio svuotarsi all’improvviso, coinvolgendo entrambe le tifoserie. I cronisti presenti erano stati presi letteralmente in contropiede, e qualcuno si era unito alla folla esondante. I pochi che si ritrovarono un microfono in mano nel momento della fuga, ottennero dalla diaspora, come risposta alle loro domande, una vasta gamma incomprensibile di mugugni. La notizia in poco tempo percorse tutta la nazione, lasciando perplessi e smagati anche i commentatori più navigati. Le tifoserie, con le radioline incollate alle orecchie, seppero quasi in diretta del fatto straordinario e iniziarono a ipotizzare chissà quali motivazioni nascoste.
Nel frattempo nei campi intorno allo stadio si compiva quel rito collettivo che aveva unito nella disperazione due tifoserie contrapposte ferocemente. Tra battute divertite e scambi di fogli di giornale, sembrò nascere un sodalizio imprevisto. Si dice che l’amico si vede nel momento del bisogno, ma lì il detto fu capovolto in ‘il bisogno crea le amicizie’. E quell’amicizia, nata in quello strano modo, si dimostrò più forte di ogni passata rivalità, tanto da portare la frangia estrema dei supporter delle due squadre (Le iene della prateria e Gli avvoltoi di montagna) a proporre la fusione delle due squadre, come momento catartico. (Per il doppio significato del termine. Treccani: “Nell’uso ant., ma ancor vivo nel linguaggio medico e farmaceutico, che ha effetto purgativo” e anche nel significato psicanalitico di “processo di totale o parziale liberazione da gravi e persistenti conflitti o da uno stato di ansia”.)
Il piccolo Marietto era finito vicino a un cespuglio di rovi ed era rimasto impigliato alle spine con il giubbotto con i colori sociali. Ci teneva al suo indumento firmato dai suoi campioni preferiti e non voleva che le spine ne facessero strame. Così, mentre gli altri, sia pure a fatica e pallidi in viso, fecero ritorno nello stadio, il piccolo rimase nel campo per liberare il suo prezioso capo di vestiario, cercando di arrecargli il minor danno possibile.
Il padre molto preoccupato andò in cabina radio e fece dare l’annuncio in quello stadio nuovamente affollato, ma muto come un pesce e fiacco come un sacco vuoto. Il povero padre passava di settore in settore, pallido fra pallidi, e cercava di descrivere il suo bambino. Nessuno sembrava averlo visto. La partita andava avanti stancamente sulle tribune e sul campo; l’unica figura in movimento era quel padre disperato che chiedeva a tutti che rispondevano scuotendo lentamente la testa in senso di diniego.
Nel campo adiacente il piccolo Marietto continuava nella sua opera da certosino per recuperare il suo giubbotto. Spina dopo spina riuscì, quasi alla fine del secondo tempo, a rientrare in possesso del simbolo di appartenenza con tutte le firme dei suoi idoli. Corse verso lo stadio e si stupì perché molti fra gli spettatori gridarono “eccolo, eccolo” indicandolo.
Il padre, che stava dalla parte opposta dello stadio, vide gli spettatori agitarsi, per quello che gli permettevano le forze residue, e capì che il suo Marietto era riapparso. Corse, grattando dal fondo ogni stilla di energia, e raggiunse il suo bambino. Si abbracciarono come se fossero stati lontani un tempo infinito.
Un pareggio salomonico fra le squadre contrapposte e un mesto ritorno a casa delle tifoserie segnò la fine di quella in qualche modo epica giornata.
Se una morale può essere ricavata da quegli avvenimenti sicuramente stravaganti, si può affermare, coniando un nuovo adagio: ‘Non tutto il cibo fa bene al corpo, ma può talvolta migliorare i rapporti umani’.
La vigilia della distribuzione dei regali ai poveri
Marzo 13, lunedì
Oggi è stata una giornata più allegra di ieri. Tredici marzo! Vigilia della distribuzione dei doni ai poveri nel palazzetto dello sport ‘Marcio Lento’, la festa grande e bella di tutti gli anni. Qualcuno di noi sarebbe stato scelto per distribuire, insieme alle autorità, i generi alimentari di sopravvivenza.
Il Direttore venne al finis, e disse: “Ragazzi, una bella notizia.” Poi chiamò ‘Nduja, il calabrese e gli chiese: “Vuoi essere di quelli che portano i pacchi dono ai poveri, domani al teatro?”
‘Nduja si mostrò subito entusiasta. Già pregustava qualche birbonata a danno di quei disgraziati che si sarebbero presentati per ritirare i pacchi dono che i ricchi avrebbero, magnanimamente, consegnato ai poveri.
Guido La Baracca comunicò la presenza alla serata di beneficenza del sindaco Emanuele Panciapiena e dell’onorevole Stanco Tromboni. E c’informò anche che ci sarebbe stato un pantagruelico rinfresco al termine della distribuzione dei pacchi di sussistenza, allietato dalla presenza di noti musicisti di fama mondiale.
Uscito il dirigente, il maestro Percattivi ci chiese di scrivere un testo sulla ricchezza e sulla povertà. Ci diede un titolo che doveva anche essere una traccia: «La società è divisa in ricchi e poveri. Così è stato e così sempre sarà. Indica come si può spiegare ai poveri che la loro situazione economica è una conseguenza diretta dell’incapacità di osare e di fare impresa. Conosci episodi in grado di spiegare questo assioma?»
Il maestro provò a darci altri elementi per svolgere in modo adeguato il testo. Ricorse a metafore spettacolari e a paragoni arditi con il solo intento di farci capire quanto fosse scientificamente fondata la teoria che sosteneva che per consentire l’esistenza di un ricco dovevano lavorare almeno diecimila poveri. E si lanciò in discussioni dotte sul valore della solidarietà, della reciprocità dell’aiuto fra classi sociali differenti, sulla necessità per i subalterni di lasciarsi guidare dai ricchi, che guadagnavano per il bene della collettività. E a supporto della sua tesi citò l’umanista medievale Poggio Bracciolini che si chiedeva: «Di chi è meglio che sia piena la città: di ricchi, che coi loro mezzi aiutano sé e gli altri, o di poveri, che né a sé né agli altri sono di aiuto?» Aggiunse una piccola variante a questa sacrosanta questione: «I poveri non possono aiutare sé stessi, ma possono agevolare i ricchi e farli diventare più ricchi, in modo tale da essere poi aiutati a sbarcare il lunario.»
Durante la pausa commentammo fra noi la straordinaria cultura del nostro maestro.
L’insegnante di religione Rosario Fiorito non volle essere da meno e, con tono vescovile, sentenziò: «Se Dio, che tutto può e al quale nulla è precluso, avesse voluto un mondo di soli ricchi, lo avrebbe creato. Poiché esistono i poveri e i ricchi, significa che questo è il desiderio del Creatore. Ci sarebbe qualcuno tanto stolto da opporsi alla volontà del Signore?»
Le parole di Fiorito avevano una loro stringente logica, e noi sposammo la tesi di Percattivi con variante religiosa. I testi furono alla fine un’apologia della ricchezza e il maestro li lesse sorridente e soddisfatto per i risultati eccezionali del suo insegnamento.
La distribuzione dei pacchi di sopravvivenza ai poveri
Marzo 14, martedì
C’era sempre qualche occasione per permettere ai maggiorenti di presenziare a una premiazione o alla consegna di pacchi viveri ai disgraziati, per consegnare medaglie al merito ai bambini o premi alla carriera agli insegnanti. Quel dì si dovevano distribuire pacchi di vettovagliamento ai poveri, perché così sarebbero rimasti buoni, senza lamentarsi delle vergognose condizioni in cui erano costretti a lavorare, nei cantieri, nei campi o negli opifici; e, specialmente, avrebbero sopportato in moderato silenzio la loro precarietà lavorativa. (Questo anche in conseguenza della riscrittura del devastante articolo 17, che tante pene aveva creato agli imprenditori che avevano a cuore la crescita economica della Nazione. Il fantasioso e geniale ministro del lavoro Neghittoso Ninnolone lo riscrisse per eliminare l’antiquata formulazione che faceva pendere la bilancia verso il mondo del lavoro, prevedendo una marginale possibilità di occupazione a tempo indeterminato. Era una cosa inconcepibile in un mondo globalizzato. Il nuovo e finalmente moderno articolo 17 dello ‘Statuto di quelli ai quali è concesso magnanimamente di lavorare’, stabiliva la non licenziabilità dei lavoratori, solo ed esclusivamente nelle aziende con più di cinquemila dipendenti e che non avessero alcun tipo di rapporto lavorativo con nazioni straniere. Erano esentate dall’applicazione di tale articolo tutte le imprese che potessero vantare un utile o, al contrario, abbiano i conti in rosso. Poteva fare appello a forme di deroga l’azienda che dovesse avere manodopera prevalentemente maschile o femminile. Sarebbero state penalizzate con severità eventuali assunzioni di minorenni che non avessero avuto il consenso dei genitori.
Tutti gli altri si sarebbero dovuti attenere rigidamente al disposto legislativo. Le assunzioni dovevano essere tarate su una serie di protezioni ad assetto variabile: nel primo mese il salario sarebbe stato corrisposto al 50%, con un aumento del 5% per ogni successivo anno di lavoro, fino a raggiungere il salario completo dopo dieci anni di lavoro continuativo e soddisfacente, per il datore di lavoro. In base alla riscrittura dell’articolo 17 il datore di lavoro poteva licenziare soltanto il dipendente che non otteneva più il gradimento dell’azienda. Nessun datore di lavoro, e questa era una condizione imprescindibile, poteva licenziare un dipendente di cui aveva stima.)
Si scelse come luogo dell’evento, anche per il presunto notevole afflusso di pubblico, capofilato da sponsor degli onorevoli di turno, il palazzetto dello sport ‘Marcio Lento’, dedicato all’indimenticato campione di maratona della Val Lentina. Lo schema organizzativo era sempre il medesimo: consegna dei premi, piccolo rinfresco, saluto ai presenti e trasferimento dei vip in una sala attigua dove era stato imbandito un ricco buffet. E anche quella volta il copione rimase inalterato. A dirla tutta ci fu un considerevole miglioramento nel rinfresco proletario offerto ai lavoratori e ai loro amici e familiari: i locali supermercati donarono buone quantità di cibo scaduto, quello contrassegnato con il classico ‘consumare entro e non oltre il …’ Gli invitati non si sarebbero accorti di nulla, anche perché di solito quella merce veniva venduta ai clienti con poca disponibilità economica con un ritocco manuale della data di scadenza, e un lieve e accattivante ribasso.
Neanche quella volta il sindaco Emanuele Panciapiena volle mancare alla kermesse, anche se dovette cedere il passo (ubimaior ecc.) all’onorevole Stanco Tromboni, noto per la lentezza nell’affrontare i problemi della nazione e per la velocità nel trasferire nei paradisi fiscali i proventi delle oneste e probe bustarelle.
Il palco era allestito in modo schematico: un lungo tavolo su un palcoscenico montato dagli operai del comune al centro del palazzetto, fiori senza risparmio, microfoni e luci professionali per gestire i quali si era mossa la televisione di stato (l’onorevole era anche membro del consiglio di amministrazione della tv pubblica, oltre a ricoprire, tutti remunerati lautamente, altri 126 incarichi in aziende pubbliche e private). Nella sala si muovevano con gentilezza e professionalità hostess e steward in splendide divise disegnate dalla gloria nazionale della sartoria Trapunto Cucito.
Ai lati del palco troneggiavano appariscenti cartelli pubblicitari dei supermercati donatori quasi volontari che sostenevano, tutti, che i loro prodotti erano i migliori sulla piazza e potevano vantare una genuinità unica. Il più efficace, ad avviso dei più, era quello dell’ipermercato ‘La spesa voluttuaria’ che dichiarava, come fosse un merito, che la propria frutta e la propria verdura erano irrorate solo con anticrittogamici garantiti dal Centro di Salute Pubblica, presieduto dal figlio del capo del governo. Pare che secondo le ricerche effettuate dall’Istituto di Analisi e Profilassi Settaria, costola efficiente e funzionale dell’Organo d’Indirizzo Sanitario Nazionale, i fitofarmaci e i pesticidi usati fossero, se correttamente miscelati, dei supporti straordinari per alcuni dei più gravi problemi dell’uomo come i calli e la leuconichia (le macchie bianche sulle unghie). Veniva citato il caso del signor CicoJuicio Adelante, sofferente di calli a entrambi i piedi, tanto da costringerlo a calzare scarpe realizzate su misura da un calzolaio di fiducia, che, dopo essersi rivolto, inutilmente, ai più importanti podologi spagnoli, si recò in visita a una sorella che gestiva una hacienda specializzata nella produzione di acetosella e dragoncello nell’Estremaura. Proprio in quel periodo si stava procedendo alla protezione dei campi con un miscuglio di sostanze spacciate per salutari per l’uomo. Rotenone, tolilfluanide, bifenthrin, chlorthal-dimethyl e rifiuti tossici di una vicina fabbrica di prodotti ospedalieri erano il cocktail per difendere la produzione dall’attacco feroce e devastante di coccinelle e moscerini. Cico passeggiò a lungo nei campi proprio quando s’irroravano i campi con quel miscuglio incredibile. Dopo pochi giorni, e la cosa fu documentata da noti dermatologi, i calli scomparvero e i suoi piedi divennero rosei come quelli di un pupo. Era la dimostrazione palpabile che alcuni prodotti definiti nocivi da ambientalisti partigiani potevano anche avere effetti positivi. Vi fu un piccolo danno collaterale: CicoJuicio Adelante dopo poche settimane passò a miglior vita, ma con i piedi più belli che mai essere umano avesse posseduto.
Un’orchestrina raccattata in qualche balera funzionò da preludio e suonò finché il palazzetto non fu stracolmo in ogni ordine di posti. Chiuse con un pezzo strappalacrime, ‘Sperare è legittimo, avere è un sogno’ della grande musicista cieca ChiaraDel Sordo che trasformò in note una poesia del poeta/filosofo Concetto Strano. Si sprecarono i fazzoletti quando il cantante cesellò il ritornello: «Io ci ho sperato, io ci ho provato, ma prima di me hanno sistemato quell’ebete di suo cognato.» Terminata la breve esibizione, il pubblico tributò una standing ovation molto particolare: si alzò e riempì l’improvvisato palco con ogni genere di ortaggi.
Alcuni inservienti ripulirono rapidamente e sistemarono quei prodotti della terra inaspettati nelle buste dei premiandi. «Non si spreca il ben di Dio.»
Era solito ripetere l’onorevole Bustarella, e quel dono del Signo… del pubblico andava recuperato e riciclato. Che c’era di meglio di quella pubblica donazione?
Il sindaco precedette il corteo dei dignitari che salirono sul palco e rimasero in piedi finché non fece il suo ingresso l’on. Stanco Tromboni, che salutò il numeroso pubblico e si accomodò nella poltrona al centro, lasciata libera dal gruppo dei servitori ossequiosi. Una volta che l’onorevole sedette nella sua rossa poltrona di velluto, concesse, con ampi gesti, agli altri di occupare le sedie sistemate dietro il lungo tavolo.
Il sindaco Emanuele Panciapiena rimase in piedi per presentare l’ospite: «E ora, signore e signori, ho il piacere di presentarvi l’ospite d’onore della nostra meravigliosa serata di beneficenza, l’onorevole Stanco Tromboni. Si è degnato di venirvi a salutare rinunciando ai gravosi impegni della carica e non ha pensato minimamente al basso livello dell’uditorio. Quando una persona importante come il nostro ospite si degna di venirvi a trovare, dovete solo dirgli grazie ed esprimere riconoscenza per il suo donarsi senza alterigia o supponenza. Accogliamolo con un lungo e caloroso applauso. E che Dio ce lo conservi il più a lungo possibile.»
Un volontario e scrosciante applauso coprì le ultime parole. Si levarono sempre più numerosi gli ‘evviva’ di quel popolo fortunato, ripreso e fotografato nella fase adulatoria da persone in divisa e in borghese. Circolò voce che si trattasse di agenti della SC (Squadra Civetta, che aveva il compito di vigilare sull’inosservanza dell’obbedienza al potere e ai suoi rappresentanti secondo l’articolo 13 della riformata Costituzione, che recitava: «La libertà personale non sempre è inviolabile. Con atto motivato del ministro del Controllo Sociale può essere ammessa qualche forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, o qualsiasi altra restrizione della libertà personale. Sempre su disposizione del ministro del Controllo Sociale l’autorità di Pubblica sicurezza adotta provvedimenti provvisori di limitazione delle libertà singole o collettive. La legge obbliga il ministro a stabilire i limiti massimi entro i quali la carcerazione preventiva deve diventare effettiva e durevole.»)
Tutti erano consapevoli che quei signori con telecamere e fotocamere che circolavano fra il pubblico e riprendevano i presenti non erano operatori televisivi o fotoreporter inviati dalle varie testate giornalistiche. La gente sapeva e si adeguava, e, quando si rendeva conto di essere ripresa, aumentava in modo spasmodico gli applausi e ricamava qualche coro a favore del potere, concluso con un torrente di tonanti ‘evviva’.
L’onorevole ringraziò con finto imbarazzo: «Troppo gentili… grazie… troppo gentili… grazie!» Lasciò che gli osanna si protraessero per alcun i minuti per soddisfare il suo ego illimitato e utilizzò le mani per sollecitare il fermo applauso.
«Gentili signore e signori, mi sento in dovere, dopo il ringraziamento per la vostra cara e calorosa accoglienza, di tranquillizzarvi circa il futuro dell’assistenza ai bisognosi. La questione centrale tratteggia un adeguato riconoscimento dei bisogni della persona, al di sopra di interessi e di pressioni di parte, abbassando i toni del confronto e al tempo stesso migliorando, a monte e a valle della situazione contingente, il coinvolgimento attivo di operatori e utenti. Il bisogno urgente prefigura la ricognizione del bisogno emergente e della domanda non soddisfatta, senza pregiudicare l’attuale livello delle prestazioni, potenziando e incrementando, in un’ottica preventiva e non più curativa, un indispensabile salto di qualità. Su questo fronte ci siamo e ci saremo. E ora, grazie al contributo delle catene di supermercati, i cui nomi sono visibili nei manifesti sulle pareti, possiamo iniziare la distribuzione dei pacchi dono.»
Un nuovo e più vigoroso applauso con annessi lampi di flash salutò l’incomprensibile e tortuoso discorso dell’onorevole. Il sindaco riprese la parola per ringraziare personalmente l’on. Tromboni e per ricordare ai beneficiari che insieme al pacco dono, «per soli cinquanta fortunati, ci sarà un buono per dieci sedute nella palestra del maestro di bodybuilding Muscolo Floscio, dove potranno usufruire di un personal trainer specializzato nel rassodamento delle fasce muscolari delle pance denutrite.»
Un mormorio perplesso attraversò il palazzetto che solo la presenza delle fotocamere riuscì a trasformare in uno schizofrenico applauso generale.
E allora dalle gallerie, dai palchi, dalla platea tutti i ragazzi s’alzarono e tesero le braccia gridando verso le maestre e i maestri, i quali risposero agitando le mani, i cappelli, i fazzoletti, tutti ritti in piedi e commossi. Dopo di che la banda sonò ancora una volta e il pubblico mandò un ultimo saluto fragoroso ai politici e ai notabili presenti, che si presentarono al proscenio schierati, con le mani intrecciate, sotto una pioggia di mazzetti di fiori.
Litigio
Marzo 20, lunedì
Eppure, no, non fu per invidia ch’egli abbia avuto il premio ed io no, che mi bisticciai con Scorretti questa mattina. Ma quella era la versione ufficiale, quella buonista, quella candeggiata per il pubblico credulone. Fu invidia, eccome! Non sopportavo che quel pallone gonfiato mi avesse superato nell’elaborazione di un testo sulle opportunità della vita. Il maestro aveva elogiato spudoratamente quel verme e a me aveva dedicato solo qualche accenno en passant. Provai in diversi modi a nuocergli, infastidendolo, muovendo il banco quando scriveva. Ho persino tolto un supporto di gomma da una delle gambe della sua sedia, costringendolo a un disarmonico movimento ondulatorio. La mancanza del tacchetto di gomma dalla gamba della sedia accompagnava ogni movimento con un fastidioso e ritmico rumore sonoro, creato dallo sbattere del metallo sul pavimento. Percattivi sulle prime fece finta di niente, anche perché punire un allievo che aveva appena premiato avrebbe macchiato la sua scelta; ma non poteva lasciare che quel ‘tic-toc’ continuo disturbasse il lavoro della classe, suscitando l’ilarità di quei discolacci. La decisione fu presa, sia pure a malincuore.
«Scorretti, capisco il tuo entusiasmo, ma non mi pare il caso che tu lo accompagni con questa cantilenante sonorità da stadio. Sii rispettoso anche di chi non è stato premiato, pur avendo svolto il proprio compito con solerzia e correttezza.»
Scorretti guardò il maestro con aria interrogativa. Non riusciva a spiegarsi il perché di quell’accusa. Pensò a una risposta adeguata, ma lasciò immediatamente perdere perché a Percattivi non era possibile replicare. Decise, e me ne accorsi in seguito, di vendicarsi con l’autore dell’azzoppamento del banco. Intuì, senza particolare difficoltà, che l’autore della manomissione della sedia ero io e pensò, con tutta la cattiveria che solo un bambino inviperito poteva mettere in campo, a un modo particolarmente efficace per vendicarsi. Io, ingenuo e inconsapevole, godevo della mia monelleria. Mai avrei supposto che quel diabolico compagno avrebbe individuato in me il colpevole e, soprattutto, che sarei stato l’oggetto di un monumentale scherzo.
Mi guardò e i suoi occhi sembrarono emettere lampi d’odio. Era forse solo una sensazione, tuttavia la cosa mi mise particolarmente a disagio. Archiviai quella sensazione come molesta e infondata, e proseguii il mio impegno scolastico, ridacchiando di tanto in tanto per gli esercizi d’equilibrio del mio compagno sulla sedia traballante.
Arrivò finalmente la pausa, la tanto sospirata ricreazione, essenziale per ritemprare le forze di quella banda di scolari. Andai in bagno per espletare le mie funzioni corporali, ormai troppo stringenti. Dopo qualche minuto di routine scherzosa con i compagni e i soliti scherzi da caserma nei confronti di quelli delle classi inferiori, ritornai verso l’aula per consumare la mia merenda. La mamma si era superata e mi aveva messo in borsa una fetta di torta con crema chantilly, una confezione di fragole di cui ero particolarmente ghiotto, due succhi di frutta alla pera. Mi attovagliai con grande cura, sistemando sulla salvietta di Dylan Dog le leccornie che avevo idealmente trangugiato durante le prime due ore di lezione.
Avevo, però, commesso un errore imperdonabile. Quando si danneggia un compagno, non si può sperare di farla franca: ogni azione molesta richiede, come forma di compensazione, una risposta adeguata. Ero talmente soddisfatto della mia bravata nei confronti di Scorretti che avevo trascurato ogni prudenza. Non mi allarmò neppure lo sguardo sornione della mia vittima, non interpretai in modo corretto quel suo saluto eccessivamente amicale. Azzannai la mia fetta di torta con crema ed ebbi immediatamente la sensazione che qualcosa non andasse. In bocca si diffuse uno strano sapore amarognolo che, nel volgere di pochi secondi, trasmise alle papille gustative un’ondata di calore vulcanico. La gola cercò di reagire occludendosi e innescando un principio di soffocamento. Gli occhi tentarono di sganciarsi dalle orbite e rotearono vorticosamente. Le gote assunsero un festaiolo color porpora. I capelli, ritti come fossero percorsi da una scarica elettrica, contribuirono a dare della mia testa l’idea di un puntaspilli. Sputai quanto avevo avidamente ritagliato dalla fetta di torta e lo sputai sul tovagliolo di Dylan Dog. Provai a spegnere l’incendio che si era scatenato nel mio cavo orale con un’ampia sorsata di succo di frutta, ma fu solo il sollievo di un attimo: le fiamme ripresero lena e mi arsero la gola. Gli occhi si ostinavano a voler abbandonare le orbite di appartenenza. Dopo aver bevuto mezzo litro di acqua, che avevo sottratto a Bastardi, sentii la sensazione di bruciore diminuire. Mi voltai e intravidi il viso sorridente di Scorretti. Compresi che quanto mi era accaduto non era stato frutto del caso, ma nascondeva la regia neanche occulta del vendicativo compagno. Solo dopo seppi, perché se ne vantò, che aveva messo del peperoncino rosso di Cayenna, che lui portava in una bustina dentro lo zaino per utilizzarlo nelle eventuali rappresaglie, nella mia torta e, con l’ausilio di una siringa, che il maestro conservava nel cassetto della cattedra per le attività scientifiche, ne siringò un frullato nei miei succhi di frutta. Imparai la lezione (la scuola serve precipuamente per questo) e da quel giorno non lasciai mai più la mia merenda incustodita, facile preda di compagni vendicativi. Evitai, per una legge non scritta ma tacitamente accettata all’interno della classe, di lamentarmene con gli insegnanti. Anche a casa tenni il medesimo comportamento, giustificando la poca voglia di mangiare come conseguenza di una festa di compleanno a scuola e l’ingestione pantagruelica di tartine, pizzette e dolcini. Poiché tutto ha una morale, ne dedussi che non si deve mai colpire un nemico senza avere la certezza che non possa mai nuocerti (Machiavelli docet!).
Mia sorella
Marzo 24, venerdì
«Perché, Enrico, dopo che nostro padre t’aveva già rimproverato d’esserti fatto offendere da Scorretti e di averne sopportato in silenzio le reazioni spropositate al piccolo scherzo della sedia ‘a dondolo’, hai provato a sfogare la tua frustrazione su di me? Mi duole vedere la tua incapacità nel mettere in pratica i suggerimenti di nostro padre, che, riportando il grande e insuperato Machiavelli, ricordava sempre che il nemico va messo nelle condizioni di non nuocere, perché feroce sarebbe stata la sua risposta. Tu non immagini la pena che n’ho provata. Sono sempre stata dalla tua parte, ti ho difeso quando esageravi con le molestie nei confronti dei tuoi compagni o quando commettevi marachelle indicibili in casa e fuori. Sono arrivata a mentire per coprirti, ma tu non hai mai mostrato un minimo di riconoscenza. Una volta mi hai risposto: “Perché dovrei ringraziarti, se, in fondo, tu stessa hai affermato di esserti divertita un mondo per gli scherzi pesanti che commettevo ai miei inconsapevoli compagni o ai fiduciosi vicini?”
Non sai che, quando nostro padre e nostra madre non ci saranno più, potrai contare solo su di me? In un mondo egoista e individualista non potrai contare su amici o parenti, perché ciascuno penserà al proprio orticello, e noi potremo essere forti se coesi e solidali.
Il mondo, come ci ha insegnato nostro padre, deve temerti per consentirti di fare il tuo comodo.
Fai tuo l’insegnamento del grande fiorentino e non ne avrai che giovamento: “E li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai.” (Niccolò Macchiavelli, Il Principe, cap. XVII)
La letteratura e lo studio dei grandi del nostro passato sono fonte inesauribile di conoscenza, purché si sappia leggere correttamente e applicare i suggerimenti in modo giusto.
Per poter avere ragione del popolo pecora si deve essere uniti, almeno fra noi. Sappi che troverai in me tutto l’aiuto possibile per sopraffare i tuoi nemici, per renderli servizievoli e innocui, morbida creta nelle tue mani. Il popolino non pensa, non progetta, non sogna, ha bisogno di qualcuno che lo faccia per lui. E te ne sarà perfino riconoscente, se riuscirai a realizzare quanto auspicato nei versi di Giovenale “duas tantum res anxiusoptat / panem et circenses.” (Satire: ‘Il popolo due sole cose ansiosamente desidera / pane e i giochi circensi’. Per questi ultimi si può attingere al sistema radiotelevisivo che già contribuisce, e non poco, all’annebbiamento del pensiero collettivo.)
Di citazione in citazione, ricordati che ‘Quant’è bella giovinezza /che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / del doman non c’è certezza. … / Chi vuol esser lieto, sia: / del doman non c’è certezza.’ Segui il suggerimento di Lorenzo Il Magnifico, portati in modo da prendere oggi quello che potresti prendere domani, perché “del doman non c’è certezza”. Per potere avere il massimo devi eliminare ogni possibile concorrenza, colpendo senza esitazione chi ti ostacola. Ma ricordati di non consentirgli alcuna reazione. Così facendo onorerai le lezioni dei tuoi insegnanti e dei tuoi genitori.
Se hai capito, rispondimi su questo stesso quaderno. Tua sorella Silvia»
«Con le tue idee e il mio cinismo faremo grandi cose. Enrico»
Sangue romagnolo
Racconto mensile
Quella sera la casa di Ferruccio era più quieta del solito. Il padre, che teneva una discoteca molto ben frequentata, era andato nella Grande Città a far delle compere, e sua moglie l’aveva accompagnato con Jessica, una ragazzina con velleità artistiche e l’ambizione di esibirsi nella trasmissione televisiva Ybox, scatola magica alla ricerca di talenti in qualsiasi campo dell’agire umano, per portarla da uno specialista in chirurgia estetica per fare qualche ritocchino qua e là e inserire del botox nei posti giusti; e non dovevano ritornare che la mattina dopo. I genitori tenevano in modo particolare alla piccola Jessica e per farla partecipare alla trasmissione non avevano esitato a rivolgersi all’onorevole Giggìn o’ Mariuòlche si vantava di poter sistemare i suoi elettori nei vertici della pubblica amministrazione (e bisogna dire, a onor del vero, che ci riusciva benissimo). Mancava poco alla mezzanotte. La domestica africana, legalmente in nero, che veniva a far dei servizi di giorno se n’era andata sull’imbrunire. In casa non rimaneva che la nonna, paralitica delle gambe, e Ferruccio, un ragazzo di tredici anni. Era una villa su due piani, circondata da un giardino all’italiana di soli cinque ettari, frutto del duro lavoro del padrone di casa. Certo, di tanto in tanto, si presentavano alla porta dei signori biondi con corpo tatuato, di cui s’intuiva l’estensione dai colori che spuntavano dal colletto della camicia e carezzavano le orecchie. Il loro modo di parlare, contrappuntato di ‘da’ e ‘niet’, ne suggeriva la nazionalità. Il padre di Ferruccio consegnava ai biondi tatuati una busta rigonfia e rientrava commentando: «Anche questo mese la merce è stata pagata.» Alle domande dei figli sull’identità di questi signori rispondeva sorridente: «Sono i procuratori del mio socio Ivan di Vladivostok. E poi dicono che gli stranieri non investono in Italia… Sarebbe sufficiente offrire vere opportunità di guadagno e gli investimenti non mancherebbero certo.»
Mancava poco alla mezzanotte, pioveva, tirava vento. Ferruccio e la nonna, ancora levati, stavano nella stanza da mangiare. Ferruccio non era rientrato in casa che alle undici, dopo una scappata di molte ore, e la nonna l’aveva aspettato guardando in televisione un film da un canale a pagamento sorseggiando uncuba libre e sgranocchiando pistacchi e noccioline. Di cosa facesse il nipote poco le importava, anzi, a dirla tutta, sperava che rientrasse il più tardi possibile per potersi dedicare al suo hobby preferito: chattare su internet con giovani fisicamente prestanti spacciandosi per una diciottenne procace, aggiungendo al suo profilo Facebook la foto di una nipote piuttosto belloccia. Il suo profilo era frequentato da torme di giovani squinternati ai quali sapeva tenere testa con piglio giovanilista. Per la bisogna aveva seguito il corso on line tenuto dal guru dell’approccio Beppe Branco, ottenendo il voto finale di 100/100 e il plauso dei docenti, in particolare quello di ‘Camminata seducente’.
Pioveva e il vento sbatteva la pioggia contro le vetrate: la notte era oscurissima. Ferruccio era rientrato stanco, infangato, con la giacchetta lacera, e col livido sulla fronte; aveva fatto il solito giro fra gli scommettitori non sempre soddisfatti del trattamento ricevuto, eran venuti alle mani, secondo il solito; e per giunta aveva giocato e perduto tutti i suoi soldi, anche quelli che aveva recuperato dai perdenti. Il ragazzo, su consiglio del padre, che sperava di vedere il suo piccolo diventare uomo e raggiungere una posizione di rilievo nella società, nel tempo libero si dedicava alla raccolta di scommesse clandestine per conto di un bookmaker locale, tal ArsèneTrottoir Béchamel, pronipote del più noto Lupin.
La nonna, con la telecamera posta all’inizio del vialetto, vide il nipote rientrare e con gesti secchi ed efficienti chiuse il collegamento a internet, spense il computer e si sistemò nella sua sedia a rotelle per rientrare nel personaggio della vittima, della povera invalida ipovedente e paralitica. Per queste infermità percepiva la pensione e l’assegno di accompagnamento da ormai venti anni, ottenuti con la connivenza poco disinteressata di una commissione medica corrotta. Il parere favorevole fu agevolato da un assegno a sette zeri delle vecchie lire. Nella famiglia di Ferruccio vigeva il principio base del capitalismo: «Arraffare è un dovere per ogni cittadino e tutti i mezzi per arricchirsi sono leciti.»
E tra le cose poco lecite i genitori e la nonna ne avevano studiata un’altra per incassare i soldi dell’assicurazione sulla casa. Avevano assoldato due extracomunitari di oscura nazionalità che avrebbero avuto il compito di asportare oggetti preziosi e gioielli. Di fatto quegli oggetti avevano già preso la strada per la Grande Città sulla Porsche Cayenna di famiglia e su un rimorchietto portabagagli trainato dall’auto. In quel viaggio presero il volo un quadro di Gauguin, un disegno di Michelangelo, una tela del Tintoretto, una manciata di De Chirico, mezza dozzina di Aligi Sassu, e un pot-pourri di Renato Guttuso, Emilio Vedova, Piero Annigoni, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Remo Brindisi, Carlo Carrà, Michele Cascella, Filippo De Pisis, Lucio Fontana, Salvatore Fiume, Ottone Rosai, sculture dei fratelli Pomodoro. Da non trascurare preziosi reperti archeologici: una coppia di veneri bronzee etrusche, vasellame e armi di bronzo e ferro provenienti dall’antica Roma, dall’Etruria, dalla Sardegna nuragica e fenicia, e da località site lungo il Mediterraneo come l’Egitto. I gioielli erano tutti di grande oreficeria: Bulgari, Cartier, Tiffany, Vacheron Constantin, ecc.
Messi in sicurezza i pezzi di valore presso uno zio che possedeva una stanza blindata costruita sotto il pavimento della sua villa, si poteva dar corso alla seconda fase dell’operazione ‘rapina in villa’. L’appuntamento con i ladri era fissato per la mezzanotte e tutto era stato perfettamente organizzato. Solo Ferruccio era stato tenuto all’oscuro dell’operazione perché, come tutti i giovani, non reggeva la finzione e avrebbe potuto rovinare, con un intervento improvvido, tutto il lavoro perfettamente organizzato.
Alla nonna non sfuggì lo stato pietoso del giovane. Essa amava con tutta l’anima quel ragazzo.Quando seppe ogni cosa, si mise a piangere per la rabbia e per l’immaturità dimostrata dal nipote.
«Caro Ferruccio, sono veramente delusa dal tuo comportamento. Pensavo che i saggi suggerimenti di tuo padre e lo stage sui modelli di comportamento da tenere negli scontri sociali organizzati dall’ex guardia del corpo del noto imprenditore del ramo assicurazioni ‘attività commerciali e vita’ Gegè il Becchino. A che sono serviti i soldi spesi per iscriverti al corso a numero chiuso, se non ne hai tratto i giusti insegnamenti? Io sono vecchia e sto terminando il mio percorso su questa terra, ma vorrei, prima di lasciare questa valle di lacrime, vederti sistemato, avere la certezza che nel tuo futuro c’è un posto da primattore e non da ballerina di fila. Tutti, quando sei nato, e mi ricordo ancora la gioia perché eri un maschietto, avevano festeggiato perché speravano che tu avresti rinnovato, magari migliorandoli, i fasti familiari. Tuo padre, di cui dovrai sempre andare orgoglioso, ti ha indicato la strada e a te non resta che seguirla.»
«Ma, nonna, ho solo cercato di riscuotere le quote delle scommesse. Non è colpa mia se qualcuno cerca di non pagare e devo convincerlo con qualche ceffone. La possibilità che le argomentazioni per convincere i debitori possano condurre alla rissa è tutt’altro che remota. Quei tre, perché erano tre, mi hanno circondato e mi hanno aggredito a turno. Gliele ho suonate, ma non ho potuto evitare del tutto le reazioni di quegli scalmanati.»
«Ah! no,» disse poi, dopo un lungo silenzio; «tu non hai cuore per la tua povera nonna. Non hai cuore a profittare in codesto modo dell’assenza di tuo padre e di tua madre per darmi dei dolori. Tutto il giorno m’hai lasciata sola! Non hai avuto un po’ di compassione. Bada, Ferruccio! Tu ti metti per una cattiva strada che ti condurrà a una triste fine. Ne ho visti degli altri cominciar come te e andar a finir male. Si comincia con il perdere l’altrui rispetto, fare a botte con gente di poco conto, non saper valorizzare il proprio nome e l’appartenenza familiare; poi, a poco a poco, dalle botte si passa alle coltellate, dal poco rispetto all’arroganza, dalla troppa familiarità alla dipendenza. Tu sei destinato a un futuro da capo e non puoi permettere a chicchessia di discutere con te alla pari. Ti devono rispettare al punto da non aver bisogno di chiedere. Tu sei tu, gli altri devono capire che sono nessuno! Non rovinarti il futuro, figliolo, non dare questo dispiacere alla tua povera nonna che ha previsto per te un futuro radioso.»
Ferruccio stava a ascoltare, ritto a tre passi di distanza, appoggiato a una poltrona Luigi XV, col mento sul petto, con le sopracciglia aggrottate, ancora tutto caldo dell’ira della rissa. Aveva una ciocca di bei capelli castagni a traverso alla fronte e gli occhi azzurri immobili.
«Dalla disponibilità alla mancanza di rispetto,» ripeté la nonna, cupa in volto. «Pensaci, Ferruccio. Pensa a quel malanno qui del paese, a quel Vito Mozzoni, che ora è in città a fare il tirapiedi; che a ventiquattr’anni è stato due volte in prigione, facendosi beccare come un pivellino, e ha fatto morir di crepacuore quella povera donna di sua madre, che io conoscevo, che aveva riposto in quel nullafacente tutte le sue speranze, e suo padre è fuggito in Svizzera per disperazione, unendosi alla famiglia Mazzetta in posizione subalterna pur di restare nel giro che conta. Pensa a quel tristo soggetto, che tuo padre si vergogna di rendergli il saluto, sempre in giro con dei scagnozzi peggio di lui. Ebbene, io l’ho conosciuto ragazzo, ha cominciato come te. Pensa che ridurrai tuo padre e tua madre a far la stessa fine dei suoi.»
Ferruccio taceva. La sua poca dimestichezza con il comando derivava piuttosto da sovrabbondanza di vita e d’audacia che da mal animo; e suo padre l’aveva avvezzato appunto per questo, che ritenendolo capace, in fondo, di azioni brillanti e remunerative, ed anche, messo a una prova, d’un’azione forte e generosa gli lasciava la briglia sul collo e aspettava che mettesse giudizio da sé. Si pentì e provò a farsi perdonare: «Sì, ho torto, non lo farò più, te lo prometto, perdonami.»
La donna provò a sciorinare tutta la sua bravura da martire piagnucolante, quella stessa arte che le aveva consentito, senza difficoltà, di spacciarsi per cieca e invalida durante la visita presso la commissione medica dell’istituto di previdenza e che le aveva consentito di ottenere pensione e accompagnamento. Il viso rugoso contribuiva non poco alla riuscita della finzione. Gli occhi tristi e languidi completavano il quadro, iscrivendo quel fiore di guitta fra i candidati all’Oscar come attrice non protagonista (tenere un profilo basso è sempre una dote spendibile nel mondo degli affari). «Ah Ferruccio!» continuò la nonna, vedendolo così muto. «Non una parola di pentimento mi dici! Tu vedi in che stato mi trovo ridotta, che mi potrebbero sotterrare. Non dovresti aver cuore di farmi soffrire, di far piangere la mamma della tua mamma, così vecchia, vicina al suo ultimo giorno (nel dirlo la mano destra scivolò dietro lo schienale della sedia a rotelle e piegando verso il palmo il medio e l’anulare esibì un ossuto surrogato delle corna).» Ancora una volta la nonna fece appello a tutto il suo piagnucoloso rosario di lamentazioni. «La tua povera nonna, che t’ha sempre voluto tanto bene; che ti cullava per notti e notti intere quand’eri bimbo di pochi mesi, e che non mangiava per baloccarti, tu non lo sai! Io dicevo sempre: ‘Questo sarà la mia consolazione!’ E ora tu mi fai morire! Io darei volentieri questo po’ di vita che mi resta, (e di nuovo quel gesto scaramantico dietro lo schienale!) per vederti tornar buono, obbediente come a quei giorni? Allora volevi bene alla tua povera nonna. E ora che sono paralitica e che avrei bisogno della tua affezione come dell’aria per respirare, perché non ho più altro al mondo, povera donna mezza morta(e via con gli scongiuri)che sono, Diomio!»
Ferruccio, pur di far tacere quel fiume di melensaggini, era disposto anche a un duetto shakespeariano con la nonna, quando un rumore, proveniente dal giardino, attirò la sua attenzione. La nonna, che sapeva l’origine di quel rumore, cercò di tranquillizzare il nipote. «Non devi preoccuparti per ciò che può succedere. Abbiamo una cosa che pochi possono vantare: i soldi. Qualunque cosa sia noi possiamo pagare la nostra sicurezza. È sufficiente non fare gesti inconsulti e tutto si mette a posto.»
Il giovane guardò perplesso la donna. Non capiva quel discorso strano sulla possibilità del denaro di comprare la sicurezza, non capiva il suo riferimento alla necessità di evitare ‘gesti inconsulti’. Era ancora preso dai suoi pensieri, quando si materializzarono nella stanza due energumeni in passamontagna e abbondante tuta nera, per rendere difficile l’identificazione, esibendo una Desert Eagle nel calibro 50AE (12.7 mm) e un fucile ungherese Gepard in grado di sputare proiettili da 14 mm.
L’uomo più corpulento guardò la nonna con uno strano sorriso e poi, con gli occhi fissi sul giovane, sibilò minaccioso: «State buoni e non vi succederà nulla.»
La voce era chiaramente modificata da qualche apparecchio elettronico sotto il passamontagna, e si intuiva dal tono metallico. Quello più basso, di almeno due spanne più alto di Ferruccio, prese una fune che teneva in una borsa, nera come l’abbigliamento, e si accinse all’immobilizzazione della nonna sulla sedia a rotelle. Le funi, come da accordo, non furono strette in modo eccessivo e nel farlo l’uomo sussurrò un ‘ok’ d’intesa nell’orecchio della vecchia. Ferruccio, dopo un iniziale sbalordimento per il coraggio di quei due nel minacciare la sua famiglia che poteva vantare amicizie potenti e in grado di punire chiunque osasse oltraggiare quel giro di persone influenti di cui facevano parte, pensò a come reagire, al modo di capovolgere la situazione in quel momento sfavorevole. Pensò e ripensò, mentre l’uomo legava la nonna, non trovando soluzione alcuna, anche perché l’uomo lo teneva sotto tiro. La vecchia cercava di invitare il giovane alla calma perché ne conosceva il carattere violento e irascibile. Impacchettata l’invalida, fu il turno di Ferruccio che fu legato come un salame. Non si accorsero i due, anche perché si trattava di un furto ‘concordato e autorizzato’, che il ragazzo aveva frapposto fra sé e la corda il suo ipad nascosto sotto la giacca. Non appena i due uscirono dalla stanza il giovane con movimenti sussultori riuscì a far scivolare per terra l’iPad, liberandosi d’incanto dalla stretta delle corde. Dopo essersi reso conto che i due malfattori erano al piano superiore, corse in cucina e prese il contenitore del detersivo per i piatti e una bottiglia d’olio d’oliva; raggiunse le scale e cosparse con quei liquidi ogni gradino. Per completare l’opera sistemò in fondo alle scale due scatole di chiodi a quattro punte. Raggiunse la piccola palestra ricavata nel piano interrato e prelevò una mazza da golf rinforzata in metallo.
La nonna, che era a conoscenza della messa in scena, cercava di dissuadere il nipote dal tentare gesti inconsulti: «Lascia stare, Ferruccio, rischi la pelle per degli oggetti che si possono ricomprare. Non dare alla tua povera nonna anche questa preoccupazione. Siediti e fai finta di niente.»
Il giovane, baldanzoso e arrogante, sorrise e provò a tranquillizzarla: «Sii serena, vedrai che non succederà alcunché di cattivo. Sono due imbecilli: non si sono accorti che avevo frapposto il mio iPad tra le funi e il mio corpo. Vedrai che riuscirò a metterli in fuga questi dilettanti.»
La donna avrebbe voluto rivelare l’organizzazione fasulla del furto per impedire che succedesse qualcosa di tragico, ma tentennava nella convinzione che tutto sarebbe andato liscio lo stesso. Le cose stavano precipitando per il desiderio di Ferruccio di mostrarsi coraggioso.
I due ladri, che avevano solo il compito di fingere il furto e creare una confusione conforme, dopo aver aperto i cassetti e le porte degli armadi del piano superiore e aver sparso sul pavimento il relativo contenuto, imboccarono le scale per raggiungere l’uscita e dileguarsi. Il secondo gradino fu fatale: ruzzolarono verso il basso in una rovinosa esibizione degna del Cirquedu soleil. Nella caduta persero le armi, che fra l’altro erano inutilizzabili perché scariche, e furono scaraventati, dopo due involontarie ruote degne delle migliori scuole di ginnastica acrobatica, contro la parete del piano inferiore, all’interno di una cassapanca in pesante noce della Transilvania, che il padrone di casa ostentava come oggetto di grande pregio artistico e culturale (ne faceva ascendere l’antica proprietà al conte Vlad III di Valacchia, più noto come Dracula). Il coperchio, preventivamente aperto dall’astuto giovane, si chiuse pesantemente rinchiudendo all’interno i due malcapitati. La nonna si disperava, pensando ai due sodali rinchiusi in quella bara di legno, e non vedeva via d’uscita a quell’imbarazzante situazione.
«Hai visto come ho sistemato quei novellini? Li ho anche chiusi a chiave così non potranno più scappare.» gridò trionfante Ferruccio.
La nonna non riusciva a nascondere la sua disperazione, che il nipote scambiò per paura. Provò a consolarla, l’accarezzò come fa ogni buon nipote, utilizzò tutte le frasi rassicuranti che il suo limitato vocabolario gli consentiva (la promozione era assicurata dal censo e non dallo studio e dalla preparazione pressoché nulla).
La nonna, in un sussulto di lucidità ebbe un’idea ovvia ed efficace per liberare i due prigionieri nella cassapanca. «Ferruccio, sto notevolmente meglio e credo che quei manigoldi non potranno scappare dal loro provvisorio sarcofago. Per evitare eventuali altri rischi e chiudere rapidamente la questione sarebbe opportuno che tu andassi ad avvertire la polizia. La cosa mi tranquillizzerebbe ulteriormente.»
«Come faccio? Il motorino è rotto e non saprei come raggiungere la caserma.»
La vecchia, consapevole della necessità di allontanare al più presto Ferruccio per non rovinare un piano perfetto per frodare l’assicurazione, solleticò la sua vanità: «C’è in garage la nuova Ducati di tuo padre? Puoi sempre usare quella.»
Gli occhi del giovane s’illuminarono all’idea di cavalcare la rombante motocicletta, ma manifestò le sue perplessità sulla sua idoneità alla guida di quel mostro ruggente, e fece notare che non poteva arrivare in caserma senza patente e alla sua età con quel mezzo.
La nonna lo rincuorò: «È una situazione d’emergenza, e l’emergenza giustifica piccole irregolarità. Avremmo potuto telefonare, ma, come hai verificato tu stesso, sono dei professionisti e hanno messo fuori servizio ogni strumento atto alla comunicazione: dai telefonini ai computer. È gente che sa il fatto suo, e prima interviene la polizia meglio è.»
«Forse hai ragione. Sarò di ritorno in un battibaleno!» Il ragazzo scomparve oltre la porta che conduceva al garage dopo aver dato un ultimo sguardo al possente lucchetto che bloccava la cassapanca/prigione. Dopo pochi secondi si udì il rombo della Ducati che si allontanava a tutta velocità. La vecchina si alzò dalla sedia, afferrò le chiavi rimaste all’interno di un trumeau Luigi XV sistemato all’ingresso, aprì il lucchetto e sollecitò l’aiuto dei due all’interno per sollevare il coperchio. Il coperchio si spalancò come in una magica riedizione di una resurrezione e due figure doloranti emersero dal buco nero che li aveva inghiottiti con un grandjeté disneyano.
Con le mani appoggiate sui fianchi, in un inutile tentativo di lenire il dolore alle ossa e al bacino, scavalcarono il bordo della cassapanca. Guardarono la vecchia con aria perplessa e interrogativa. Il più basso dei due manifestò le sue perplessità in modo lamentoso: «Perché siamo stati aggrediti se tutto era stato pianificato in precedenza? C’era bisogno di tutta questa violenza per rendere più reale la rapina?»
«È stato quel deficiente di mio nipote che voleva dimostrare di essere coraggioso. Ora, però, andate via immediatamente perché l’ho spedito in questura a chiedere aiuto. Per il disturbo e gli intoppi dirò a mio genero di aumentarvi la ricompensa. Prima di andare via, vi prego di danneggiare il coperchio della cassapanca per dimostrare che siete riusciti a scappare da soli.”
Felici della promessa di un conguaglio sul pattuito, distrussero con colpi ben assestati la cassapanca e lasciarono un coltello come prova del misfatto, dopo averlo ripulito dalla presenza di eventuali impronte digitali. Erano professionisti, che diamine! Salutarono la donna e si dileguarono nella notte, certi che la pioggia che veniva giù copiosa avrebbe cancellato ogni traccia.
Passarono dieci minuti e un’orchestra di sirene annunciò l’arrivo in grande stile della polizia locale. Un’intera squadra di g-man con mitra e pistole spianate fece il suo rumoroso ingresso. Quello che doveva essere il comandante guardò la nonna immobile sulla sedia a rotelle e urlò: «Dove sono quelle due merdacce che hanno osato far del male a questa deliziosa signora? Cercateli e portatemeli qua: intendo spazzolarli per bene perché capiscano che bambini e anziani non si toccano.»
«Hanno distrutto la cassapanca e sono scappati.»Disse lei con un filo di voce, rispolverando tutta la sua capacità di commuovere.
Ferruccio appena rientrato guardò lo stato pietoso della cassapanca e pensò al rischio corso dalla nonna in quella situazione di pericolo.
I due malfattori, com’era ampiamente prevedibile, non furono mai arrestati, l’assicurazione pagò obtorto collo una somma spropositata di risarcimento, e del fatto restò un titolo a due colonne sul giornale locale: “Rapina in villa. Due malviventi tengono in ostaggio una vecchia invalida per ore. La polizia brancola nel buio.”
Papaverino sofferente
Marzo 28, martedì
Il povero Papaverino era malato; il maestro ci disse d’andarlo a vedere, e combinammo d’andarci insieme Sgarrone, Debossi ed io. A dirla tutta non stava poi così male, ma, poiché doveva evitare alcune interrogazioni particolarmente difficili da superare, aveva deciso di mettersi a letto e fingere una malattia abbastanza invalidante: gastroenterite causata da salmonelle presenti in una torta che gli aveva preparato la zia Cunegonda Chicchirichì. La zia si era giustificata, reggendo quella straordinaria pantomima, sostenendo che aveva utilizzato una partita di uova provenienti dal mercato cinese. Il padre avrebbe voluto utilizzare le sue conoscenze per far avere al figlio voti non meritati, ma apprezzò l’intraprendenza di Papaverino e ne resse il gioco.
Bastardi pure sarebbe dovuto venire, ma siccome il maestro ci diede per lavoro la descrizione del Mercato Civico, decise di andarci per descriverlo in modo adeguato, magari inserendo nel racconto anche qualche foto di corredo scattata con la Superdigital Lince comprata da uno zio nel mercato del falso/autentico di Shanghai. Così per prova invitammo anche quel gonfionaccio di Pronobis, che ci rispose: «No, senz’altro.»
Stirato pure si scusò, forse per paura di macchiarsi il vestito nuovo con qualche vomito improvviso. Solidarietà all’amico sofferente, ma non fino al punto di rovinare i suoi splendidi e costosissimi abiti. I genitori, sapendo che andavamo in visita al povero malatino, diedero loro dell’argent de poche per comprare qualcosa al loro sofferente amico.
Per la strada Sgarrone si fermò e disse con la bocca piena di patatine: «Cosa si compera? Mia madre mi ha dato 50 euro, ma mi sembra un’esagerazione spenderli tutti per quell’attore.»
Sia io, sia Debossi fummo d’accordo e concordammo per un’elargizione di dieci euro a testa per l’acquisto di un vassoio di paste, scelte rispettando il nostro personalissimo gusto. Nessuno di noi considerò che a un ammalato di gastroenterite potesse essere vietato il consumo di dolciumi, o forse era proprio quella la speranza.
Salimmo al piano dove abitava Papaverino. Davanti all’uscio Debossi si chiese se fosse adeguato il dono che avevamo portato. Picchiammo, ci aperse il padre.
«Chi siete?» domandò. Sgarrone rispose: «Siamo compagni di scuola di suo figlio, che gli portiamo le paste.»
«Ah! povero figlio mio,» esclamò scotendo il capo, «ho paura che non le mangerà le vostre paste!»E si asciugò gli occhi col rovescio della mano. Solo dopo, quando ci rendemmo conto della finzione architettata dal nostro compagno, apprezzammo la capacità del padre e della madre di tenere bordone al figliolo e accreditare in modo smaccato quell’incredibile messinscena. Ci fece andar avanti: entrammo in una camera da letto, dove vedemmo il nostro compagno che sembrava dormire. Posammo le paste sul comodino vicino al letto. Sgarrone guardò il malato con gli occhi chiusi immobile su un lettone eccessivamente barocco che ne impiccioliva l’esile figura. «Ti abbiamo portato le paste, ma credo che si sia sbagliato perché tuo padre ci ha fatto capire che tu non potrai mangiarle.” Mosse le palpebre e sollevò la mano sinistra facendo roteare l’indice per indicare il dopo. Debossi, che aveva capito benissimo, provò a barare, anche perché volevamo partecipare da protagonisti allo spuntino dolciario (non avevamo scelto un prodotto di nostro gradimento perché altri ne godessero in esclusiva): “Scusi, signora, non capisco che cosa vuol dire.»
La mamma di Papaverino guardò perplessa Debossi e sembrò quasi offesa. Sgarrone, da sempliciotto qual era, ripeté l’osservazione del compagno: «Noi abbiamo agito d’impulso nell’acquistare i dolci, ma, visto il suo malessere, forse abbiamo commesso un errore.» E poi il capolavoro: «Se lo ritiene opportuno, anche per non indurlo in tentazione date le sue gravi condizioni di salute, potremmo riprenderci il vassoio e, se sarà opportuno, riportagliene un altro più avanti, quando le sue condizioni di salute lo consentiranno.»
«Bravo, Sgarrone, pensai. Sei sempre il migliore.»
Avvenne il miracolo. Papaverino, intuendo che le paste potevano prendere il volo e che le nostre argomentazioni erano vincenti, giocò una carta quasi disperata: «Mamma,» disse con un filo di voce, «quei dolci, anche se non potrò mangiarli, saranno per me un segno tangibile dell’affetto dei miei carissimi compagni, e mi aiuteranno certamente a guarire.» Calcò in modo eccessivo su ‘miei compagni carissimi’ per comunicare a noi tre che aveva capito perfettamente le nostre intenzioni e il nostro maldestro tentativo di riappropriarci di quei dolci scelti con grande cura, in modo che piacessero soprattutto agli acquirenti.
Sgarrone sferrò un altro colpo basso, ben coadiuvato da quel volpone di Debossi: «Ha parlato, ha parlato! Sta decisamente meglio, mi pare.»
«Certo, è un sintomo inequivocabile di miglioramento. Poiché noi teniamo in modo particolare alla salute del nostro amico, resteremo qui a fargli compagnia. Anche perché è stata la voce di Sgarrone ad averlo destato dal suo torpore.»
Incastrato dalla sua stessa finzione, il malato non poté che reggere la commedia e accettare la compagnia degli amici. Con una voce flebile ma sempre più chiara esternò il suo desiderio ai genitori, aggiungendo: «Sarebbe bello che voi mi lasciaste solo con i miei cari compagni.» I genitori sorrisero e lasciarono il figliolo con gli amici.
Fu Debossi a rompere il silenzio: «Caro mio, come hai intuito, ci hai imbrogliato solo all’inizio, poi abbiamo capito che stavi magistralmente fingendo.»
Papaverino ci guardò con i suoi occhietti vivaci e interrogativi. «Come avete fatto a capire che stavo fingendo? Mi sembrava che tutto fosse perfetto, soprattutto dopo aver ottenuto la complicità dei miei genitori.»
Lo guardai con una leggera aria alla Sherlock Holmes: «La prossima volta che fingi una grave malattia evita di infilarti sotto le coperte vestito di tutto punto, e soprattutto evita di utilizzare collegamenti a internet a siti di videogiochi tanto rumorosi da segnalare la loro presenza anche sotto una pesante coltre.»
Sgarrone rideva e guardava con occhi adoranti le paste sul comodino; e con saggezza osservò: “Però a qualcosa è servito. I nostri genitori hanno sganciato i soldi per comperarti qualcosa e noi abbiamo scelto i dolci.”
Una risata generale e fu assalto al vassoio. Mangiammo con golosità pensando alla faccia che avrebbero fatto gli insegnanti e i compagni se avessero assistito a quella scena pantagruelica e così poco edificante.
Il padre poté anche raccontare che fu la voce di Sgarrone a riportarlo in qualche modo in vita. «Un miracolo, raccontava a tutti, un vero miracolo!»
Furtivo Penso conte di Strozzapopoli
Marzo 29, mercoledì
«Ayn Rand fondatrice della corrente filosofica dell’oggettivismo, assertrice dell’individualismo e dell’egoismo razionale, ha sempre affermato che il capitalismo senza limiti è espressione di libertà. A questa sontuosa e lungimirante economista si era ispirato il grande epigono nazionale: Furtivo Penso conte di Strozzapopoli. La nazione era e sarà sempre riconoscente a quest’uomo che riuscì, utilizzando le teorie economiche della Rand, a far crescere in modo esponenziale la ricchezza dei ricchi, il benessere dei benestanti, la povertà dei poveri. Aveva conseguito, figlio mio, un equilibrio possibile nella nostra disordinata società, divisa in classi in modo approssimativo e lasciando qua e là qualche varco spazio temporale per permettere ai poveri di tentare, di tanto in tanto, di spezzare le barriere e accomodarsi al banchetto dei potenti. Se non avessimo avuto nel passato l’intelligenza di quest’uomo geniale e illuminato, oggi non potremmo usufruire della ricchezza che ci consente, insieme a pochi altri fortunati, di vivere in una discreta agiatezza. Riuscì a ottenere i suoi risultati migliori quando fu nominato, per volontà del Presidente Arraffador, ministro plenipotenziario per l’economia e la finanza. Inutile che ti racconti l’entusiasmo che accompagnò la sua elezione. Lady Victoria of the Nothing organizzò nel suo castello in Val Spolpata un party al quale parteciparono tutti i vip (ViesimaImenitaia Persona) in circolazione compresa la residua banda di aristocratici russi, come la contessa Mira Galina De Poligonovskij o figure di alto lignaggio come la baronessina polacca Puzka De Odoransk, nota per la sua straordinaria capacità invasiva e pervasiva anche in ambienti abbondantemente arieggiati. Fu una serata favolosa, allietata dal gruppo punk rock Misteria Sfinterica Infinita di Abbiategrasso e dal gruppo rock franco/inglese DepecheToi For Water Diarroic. Lo champagne scorreva a fiumi e il caviale, tassativamente del Don, riempiva centinaia di vassoi d’argento sparsi nel gran salone dedicato al re sumero Akkat A Tell.
La nostra nazione non fu da meno e schierò il fior fiore della nobiltà. La più ammirata fu senz’altro la marchesina Maria Borseggio de FurtisSgraffignantis; il suo ingresso fu salutato da un convinto applauso come si conviene a una vera vip, e le sue parole furono trascritte e registrate per il messaggio altamente educativo che seppe trasmettere alle future generazioni. Ne ho conservata gelosamente una copia per farla conoscere a te, Enrico, perché tu ne possa godere e tramandare ai tuoi discendenti quelle parole che andrebbero scolpite nella pietra. Ne porto in tasca il testo per ricordarmi cosa scrivevano i grandi maestri della nostra bella nazione. Se non ti dispiace, vorrei leggerti un breve sunto del suo albero genealogico così come lei l’ha illustrato.
‘La mia (ovviamente della marchesina), posso dirlo con orgoglio, è una nobiltà di antico ceppo. Discendo, da parte di maman, dal grande e nobile Don Arsene Lupin, noto per la profonda conoscenza di gioielli, con particolare specializzazione in diamanti, smeraldi e rubini. Da parte di papà posso vantare ascendenze illustri che risalgono addirittura all’impero romano. Il mio tri-tris-tris-ecc.-avolo gestiva le casse dell’Impero sotto il grande e nobile imperatore Lucius SgraffignusLadronis. Salendo nell’albero genealogico della mia illustre famiglia s’incontrano persone come il marchese Franz von Scippatoren III di Furtoland, noto per avere curato personalmente la custodia del tesoro del Terzo Reich. L’ha custodito così bene, che ancor oggi lo stanno cercando. Inutilmente, dico io, poiché al tesoro ha pensato il mio grande avo. E sì, signori, sono nobile fin nel più profondo. E infine il ministro dell’economia e della finanza della XXXVI legislatura Antonio de Furfantis, passato ai fasti della cronaca e della storia per essere riuscito a creare un buco gigantesco nelle finanze pubbliche in soli tre mesi e a rimpinguare in modo altrettanto cospicuo il proprio conto in banca.’
Per non parlare dell’immenso, ma solo per le sue sostanze, Barone Emanuele Filiberto Sottiletta Rasoterra de Tappetis o del Principe Tristano Quaresima dei Cipressi Selpocrali in de Profundis, noto per la sua capacità di travolgere le persone con la sua prorompente ilarità.’
E sfilarono politici nel libro paga dei finanzieri e dei potenti, magnaccia, traditori, imprenditori dei soldi degli altri, bancarottieri, giudici comprati, poliziotti corrotti, pulzelle di varie taglie, tutte veline o soubrette, contraffattori, falsari, bugiardi, infingardi, giocatori d’azzardo, atleti coinvolti nel calcioscommesse ecc. ecc.
Era ancora una società troppo permissiva e poco accorta nei confronti della plebaglia. Certo i facoltosi sapevano vivere alla grande, riuscivano a sfruttare al meglio tutte le occasioni favorevoli che potevano capitargli per arricchirsi in maniera smodata, ma peccavano nel non frenare le brame del popolino che pretendeva di vivere in modo decente con un lavoro adeguatamente pagato.
Il grande Furtivo Penso conte di Strozzapopoli, da ministro, riuscì a opporsi alle brame della plebe insaziabile e respingere il suo insano desiderio di eliminare le barriere sociali. Se nella storia dell’umanità tutti gli dei hanno creato gli uomini diversi, sia nell’aspetto sia nella ricchezza, una ragione ci deve pur essere. Non credo che la creazione aspirasse all’uguaglianza; anzi ho la certezza che gli dei abbiano creato gli uomini diversi per non farli annoiare, per rendere più divertente e vivace questo soggiorno sulla Terra.
Quell’uomo, il cui monumento devi descrivere, è un benemerito della Nazione, colui che è riuscito a sedare le tensioni sociali con l’utilizzo attento e misurato delle forze dell’ordine e dell’esercito. Il merito maggiore fu che riuscì ad attribuire la colpa delle violenze della polizia a tutti quelli che protestavano pacificamente, utilizzando un gruppo di agenti in borghese per istigare i pacifisti alla violenza. Poiché ogni tentativo di provocazione era inutile, agirono, su preciso ordine del ministro, in proprio, colpendo i propri colleghi dall’altra parte della strada con finti sassi, e, quelli, secondo copione, si lasciarono cadere con movenze degne di Marcel Marceau; e nel farlo utilizzarono quantità industriali di sangue ‘cinematografico’ per dimostrare le violenze subite. Che colpo di genio! La risposta non poteva che essere rapida e violenta. Le ambulanze lavorarono a lungo quel giorno e gli ospedali faticarono a smaltire il numero esorbitante di feriti e contusi. La lezione fu tale che ogni movimento di protesta fu soffocato, anche con l’aiuto fondamentale della TV e dei social network, asserviti per scelta e per necessità. Serve a poco ricordare che gli strumenti di comunicazione di massa sono controllabili e controllati in modo direttamente proporzionale alla loro diffusione planetaria. Se noi oggi viviamo senza conflitti sociali rilevanti, lo dobbiamo al grande conte di Strozzapopoli, iniziatore della politica del controllo sociale e democratico, di una repressione che colpisce in modo equanime chiunque cerchi di turbare l’equilibrato svolgersi della quotidianità. Molti questori passarono ore terribili nella lotta contro i disubbidienti; ma egli ne passò di più terribili nel suo gabinetto quando l’enorme opera sua poteva rovinare di momento in momento come un fragile edifizio a un crollo di terremoto, ore, notti di lotta e d’angoscia passò, da uscirne con la ragione stravolta o con la morte nel cuore. E fu questo gigantesco e tempestoso lavoro che gli accorciòdi vent’anni la vita.
Quando sarai chiamato a dare il tuo contributo per il bene della Nazione, ricordati che al nostro grande ministro dobbiamo qualcosa di più di una banale riconoscenza. Pensa che, senza la sua puntigliosa e chirurgica lotta contro l’uguaglianza coatta, oggi avremmo al governo i rappresentanti eletti con libere elezioni da tutti, sia poveri sia analfabeti, e la presenza nelle camere di un partito che propagandava, ahinoi, l’uguaglianza fra tutti i cittadini indipendentemente dal censo.
Godi gli agi che questa nostra Nazione consente a pochi privilegiati come noi e ricorda con riconoscenza chi ha reso possibile ciò.
Tuo padre»
Primavera
Aprile 1, sabato
Primo d’aprile! Tre soli mesi ancora. Quella è stata una delle più belle mattinate dell’anno. Io ero contento, nella scuola, perché Scorretti m’aveva detto d’andar a veder arrivare il Presidente della Repubblica, insieme con suo padre che lo conosceva. Che pollo, c’ero cascato in pieno! Era il primo aprile e non avevo capito che quel birbante m’aveva organizzato uno scherzo niente male. La burla riuscì con estrema facilità perché sapevo che Scorretti padre vantava amicizie altolocate e pensavo che fra queste potesse esserci anche l’entourage del Presidente. A parte quel piccolo episodio, sembrava una giornata piacevole e serena: il cielo di un azzurro intenso offriva una morbida coperta ai raggi del sole mollemente adagiato in attesa di un successivo e stupefacente sfavillio. Tutto per la strada interpretava il sorriso del cielo in modo sereno e vitale: arrivavano nell’aula i gioiosi rumori di una primaverile giornata di lavoro. Il ritmo sincopato di un martello pneumatico della ditta che lavorava nell’edificio di fronte alla scuola faceva da ruvido sfondo ai rumori del quotidiano: lo sferragliare del tram, il ciacolaio delle mamme in sosta perenne davanti all’ingresso della scuola che triturava con leggerezza persone e cose, il suono dei clacson delle automobili incolonnate, il vociare dei venditori e dei clienti del vicino mercato di modernariato antico, il classico ‘svuoto cantina e ci guadagno’, qualche simpatico motteggio di una classe che era andata nel cortile con la maestra per festeggiare il sole di primavera.
Il maestro non rideva, perché non ride mai, ma era di buon umore, tanto che non gli appariva quasi più quella ruga diritta in mezzo alla fronte; e spiegava un problema sulla lavagna, celiando. E si vedeva che provava piacere a respirar l’aria del giardino che veniva per le finestre aperte, piena d’un buon odor fresco di terra e di foglie, che faceva pensare alle passeggiate in campagna. Ma l’odore di terra e di foglie non risvegliava nel maestro solo una sensazione di benessere che il buon clima stimolava. Un giorno lo sentii che parlava di una formula equivalente a quella famosissima di Einstein, quell’equazione E=MC² che ha modificato la comprensione della fisica. Spiegò l’analogia con una semplicità quasi degna del genio della scienza. Per lui campagna era l’equivalente di vigna; e vigna era l’equivalente di uva, che a sua volta equivaleva a vino. La formula era solito semplificarla con V (vino) = U (uva) V² (due ettari di vigna). I colleghi e il dirigente ridevano di gusto al pensiero che il prodotto vero e finale di quell’equazione fosse una solenne sbronza colletti-va nella cantina stracolma di botti e di ottimo vino.
«Cari ragazzi, gioire per l’arrivo della bella stagione è cosa buona, ma non dobbiamo dimenticare chi con l’arrivo della primavera deve aumentare l’impegno lavorativo, come per esempio i contadini che hanno trascorso l’inverno in attesa del risveglio della terra.
Il vignaiolo (e tutti col pensiero immaginavamo Percattivi fra le sue amate piante) deve seguire le giovani barbatelle che vanno fermate bene, in modo che si sviluppino armoniosamente. Sulla vite si possono vedere spuntare le prime gemme. Una concimazione va effettuata per aiutare i vitigni nella crescita ed è necessario eseguire i primi sfalci dell’erba, da ripetere altre volte prima della vendemmia.»
Ascoltavamo rapiti quelle descrizioni minuziose sulle attività che precedevano la vendemmia. La magia finì quando Bastardi ci ricordò che, per un oscuro disegno del destino, le assenze per malattia del maestro, almeno quelle ‘lunghe’, coincidevano in modo sovrapponibile con gli interventi necessari alla ‘manutenzione’ della sua vigna. Poiché era evidente l’interesse del dirigente e dei maestri per l’inebriante prodotto dei vitigni di Percattivi, nessuno osava sollevare la benché minima obiezione. A dirla tutta, qualche anno prima un’insegnante ebbe l’ardire di comunicare le sue perplessità su quelle strane assenze al provveditore agli studi dottor Giustino Vigile e la risposta dell’alto dirigente fu rapida e implacabile: la povera maestra fu trasferita in un paesino di montagna. Pare che l’accusa montata dal dirigente (con l’avvallo interessato dei maestri Ercoatto, Felice Crudele, Massimo Della Pena che sottoscrissero testimonianza circostanziata, seguendo i consigli del maestro/avvocato) comprendesse la calunnia e la diffamazione nei confronti di uno stimatissimo e irreprensibile collega; e su suggerimento di Della Pena fu aggiunto, tanto per rendere il quadro accusatorio sufficientemente pesante, ‘turbativa ambientale’, un reato poco noto ai tribunali, ma bastante a spaventare la povera maestra e farle accettare il trasferimento senza discutere. Solo qualche tempo dopo si seppe che anche dottor Giustino Vigile era nel giro etilico messo su dal maestro e dopo ogni vendemmia riceveva il suo ettolitro di vinumFalernum, che diceva lo facesse sentire vicino ai grandi dell’antichità che ne avevano decantate le virtù come Cicerone, Virgilio, Orazio, Tito Livio, Ovidio, Marziale, per restare ai nomi più noti.
Bastardi e Scorretti organizzarono, per onorare il primo aprile, sontuosi scherzi che contribuirono non poco a farci lasciare i banchi scolastici con gioia e la giusta dose di allegria. Alla maestra Epifania Ragnatela fu appeso alla giacca un meraviglioso disegno di una tela di ragno e una straordinaria vedova nera con la testa di una befana, che fu portata con dignità estrema dalla maestra fino a che una mamma non staccò l’opera d’arte fingendo di spolverargli il tailleur. Posapiano fu visto correre come mai era successo durante gli anni scolastici precedenti perché gli avevano costruito una denuncia fasulla su carta intestata del Comune in cui veniva accusato di esercizio abusivo della professione di paresseux. L’uomo non conosceva il significato della parola francesee pensò a chissà quale reato. Si fiondò negli uffici dei vigili urbani, che molto seriamente finsero di dare corso alla cosa, attribuendo la denuncia a qualche funzionario poco attento. Il padre di un alunno della quinta F, sergente dei vigili urbani, uomo con grande senso dell’umorismo, s’impegnò a capire di quali colpe fosse accusato il bidello e ipotizzò qualche reato finanziario internazionale. L’abile contraffazione fu conservata ed esposta nell’ufficio tributi a imperitura memoria di quello scherzo riuscitissimo ai danni di Posapiano, che non si era smosso neppure nell’anno in cui la scuola aveva ospitato il ministro in visita pastorale. Ma, forse, lo scherzo più riuscito e feroce fu quello messo su da Scorretti su suggerimento di Debossi, che pensava le cattiverie ma le faceva eseguire agli altri, ai danni della supplente Speranza Infranta in attesa di nomina da ormai quindici anni. Fece pervenire una lettera falsa/autentica con intestazione del ministero della pubblica istruzione alla scuola con preghiera di consegnarla alla maestra in attesa di nomina in ruolo. La segretaria chiamò Posapiano, che fu riferito essere assente per ipotetici problemi con Spremitalia, inutilmente. Alla fine, dopo un’estenuante ricerca in ogni possibile an-fratto della scuola, il compito della consegna fu affidato alla signora Ondivaga Noncurante, bidella ormai in là con gli anni e in attesa della pensione per inabilità fisica al lavoro tout court, che sbottò infastidita: «Ce l’hanno con me! Sembra che le cose più faticose nessuno le voglia fare. Eppure lo sanno tutti che sono malata e non posso lavorare perché mi stanco facilmente. E glielo ho detto al dirigente che ho la sindone del tunnel campale. Nessuno mi capisce e tutti se ne approfittano.»
Sia pure protestando con grande vigore per quel periodico tentativo della Dgsa di farla lavorare, consegnò quasi al termine della mattinata la falsa nomina di passaggio in ruolo della maestra Speranza. Il primo effetto dell’operazione consegna fu un urlo disumano, impensabile potesse essere emesso dall’esile corpo della supplente. Tutti corsero nei corridoi per capire che cosa fosse successo, temendo qualche improvvisa disgrazia. Nel corridoio vicino alla segreteria si agitava Speranza Infranta e farfugliava parole sconnesse: “Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta! Ora potrò programmare la mia vita. Finalmente!” Le sue urla strozzate dall’emozione erano accompagnate dallo sventolare della lettera di nomina abilmente contraffatta dal duo Scorretti/Debossi. Tutti fecero corona alla ormai datata supplente per festeggiarla: nessuno intuì la verità; l’opera crudele dei due bricconi aveva colpito con precisione chirurgica. Solo qualche giorno dopo si seppe che quella missiva era stata un falso clamoroso, e noi facemmo i complimenti ai reprobi per lo scherzo così ben riuscito. La maestra, resasi conto della cinica burla, non accettò più supplenze in quella scuola e per gli anni successivi presentò domanda d’incarico in un circolo didattico vicino, situato nel più violento quartiere cittadino. Quando dieci anni dopo ricevette finalmente l’agognata nomina, rischiò di perdere quell’ultimo treno pensando fosse ancora uno scherzo; fu salvata dal baratro dal figlio quarantenne che telefonò in provveditorato per avere conferma. Non ci fu alcuna festa, ma solo male parole all’indirizzo di chi aveva architettato la beffa dieci anni prima.
Finì così una giornata che definirei epica, anche per la coda che si trascinò negli anni successivi. Lasciammo la scuola felici e orgogliosi di come avevamo interpretato quel primo aprile e di come avevamo dato colore a una giornata illuminata da un sole radioso.
Il presidente Macello De Pestis
Aprile 3, lunedì
Alle dieci in punto mio padre vide dalla finestra Scorretti e il figliuolo, che m’aspettavano sulla piazza, e mi disse: – Eccoli, Enrico; va’ a vedere il tuo presidente. Io andai giù lesto come un razzo. Padre e figliuolo erano anche più vispi del solito e non mi parve mai che si somigliassero tanto l’uno all’altro come questa mattina: il padre aveva alla giacchetta la medaglia al valore in mezzo alle due commemorative. Il signor Scorretti aveva ottenuto un posto in prima fila nel palco delle autorità. Ci teneva in modo particolare a rivedere il presidente Macello De Pestis che aveva conosciuto dopo la famosa e mai abbastanza celebrata repressione del movimento per la casa a tutti e per il diritto al lavoro poco faticoso e ben retribuito. Il generale Osso Duro, che comandava il 7° cavalleggeri d’Aosta, nel quale aveva prestato servizio il padre di Scorretti come sergente addetto agli approvvigionamenti, non esitò un attimo a fare piazza pulita di quella ciurmaglia urlante slogan irripetibili come ‘la televisione è di tutti, è un diritto avere una chance’, ‘vogliamo essere protagonisti del nostro apparire’, ‘la chirurgia estetica per tutti è un diritto sancito dalla Costituzione’.
La repressione del generale non sarebbe, tuttavia, scattata se quei facinorosi non si fossero messi in testa di occupare una palazzina costruita abusivamente su terreno demaniale dal fratello del presidente Macello De Pestis. Osso Duro non esitò a far squillare la tromba per ordinare l’attacco del suo 7° Cavalleggeri. Lo scontro fu duro e sanguinoso. La folla degli aspiranti occupanti cercò di respingere i soldati in assetto da battaglia facendo mulinare i cartelli e le borsette Chanel ed Hermes. Dopo cinque minuti di scontro selvaggio, sul campo si contarono numerosi feriti e contusi. Fra i manifestanti si annoverarono decine di piedi pestati dagli anfibi dei soldati, quattro messe in piega in completo stato di dissoluzione, undici unghie, capolavoro della nail art delle coiffeuses ‘Sodoma e Gomorra’, irreparabilmente lesionate, due maquillage completamente da rifare; fra le forze dell’ordine: innumerevoli anfibi da lucidare, un probabile e gravissimo caso di sindrome da noia, lo smarrimento di un mazzo di chiavi, un pollice arrossato per caduta improvvida di manganello, e vari altri danni sia pure di lieve entità.
Quando lo scontro sembrava volgere a un sostanziale pareggio il padre del mio compagno afferrò la bandiera, raggiunse la testa del reggimento e, nell’infuriare della battaglia, gridò tutto il suo disprezzo per la mollezza dello scontro e incitò i commilitoni alla pugna con i sacri versi del Poeta, pur modificati con qualche approssimazione stilistica adatta all’occorrenza: “Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir conflitto e violenza.”
I petti dei camerati si gonfiarono d’orgoglio a quelle parole, e travolsero con una carica entusiasmante quell’assembramento sedizioso di ‘olgettine’, dame di compagnia in disarmo, ballerine di can can, fighetti metropolitani, presenzialisti televisivi, anchorman disadattati, circensi in disarmo, politici trombati, marchesi con i conti in rosso, frequentatori diuturni di discoteche à la page, veline, tronisti e perditempo vari. Il generale Osso Duro, dopo un primo momento di giustificata incertezza, colse la palla al balzo e fece suonare la carica. Come da prassi fece eseguire tre squilli di tromba debitamente separati per consentire alla folla di disperdersi, e come da prassi fece scattare l’assalto dopo il primo squillo. Anche questa era la prassi! Per quest’azione fu insignito della medaglia d’oro al merito per il coraggio dimostrato, pur tra pericoli indicibili, nello stroncare i focolai di rivolta. Per la premiazione dei più valorosi si organizzò un meeting nel palazzetto dello sport e fu lo stesso presidente Macello De Pestis a consegnare le medaglie. Fra i premiati ci fu anche il signor Scorretti, che venne premiato subito dopo il suo generale. Il presidente arrotolò i baffi con aria sostenuta e dedicò qualche considerazione alla condotta eroica del sergente: «Mai medaglia fu più meritata. Il suo coraggio e la sua tempestività hanno consentito al reggimento di coprirsi di gloria e alla società di mantenere l’ordine costituito. Noi premiamo un uomo che della lealtà al suo presidente ha fatto una ragione di vita, e che al suo presidente è disposto, in un disinteressato atto d’amore e di devozione, a donare il proprio sangue, se necessario.»
Il padre del mio compagno rispose fiero: «Le accuse facinorose e partigiane a un innocente, al leader del Partito Unico, dell’uomo politico col maggior numero di consensi della Repubblica, al reiterato presidente del Consiglio finché Dio gli concederà vita, al maggior contribuente del Paese, di frode televisiva sono l’Apocalisse della Nazione, la fine del mondo politico e di una parvenza di democrazia nel Paese. È la conferma di un disegno ordito da forze oscure che si annidano nei gangli vitali dello stato, che parte da molto lontano ed è alimentato da poteri e stati stranieri che magna pars hanno avuto nel tentativo di distruzione del nostro e di altri Paesi. Senza il nostro amato Presidente saremmo come ciechi nelle tenebre. Macello De Pestis era ed è il simbolo della lotta per la libertà e per questo cercano d’indebolirne il potere. Oggi, più che mai, ci stringiamo intorno a lui, gli chiediamo di non mollare; e a chi suggerisce di “deporre le armi” replicheremo, come abbiamo risposto l’altro ieri in piazza Martirio e Sofferenza, con la nostra intransigenza e la nostra democratica repressione. Qualcuno paventa possibili ricorsi ai giudici per incolparci di eccesso d’intervento. Noi in quel caso risponderemo: non ci stiamo a farci giudicare da una giustizia parziale e facinorosa, formata da impiegatucci che pensano solo al loro tornaconto. Chiediamo, e parlo in nome di tutto il Settimo Cavalleggeri d’Aosta, che le autorità, guidate dal nostro infallibile Presidente, intervengano fin d’ora facendo votare al parlamento una legge che stabilisca di affidare la nomina dei giudici al nostro Presidente. Se il parlamento tituba, organizzeremo una manifestazione di sostegno e ci faremo sentire, con le buone o con le cattive.»
Fu uno scrosciare di applausi e di urla di approvazione. Qualcunogiàgridava, parafrasando la rivoluzionefrancese: “Ah! ça ira, ça ira, ça ira! /Les parlementaires et le juges on les pendra !”
La folla stava per scatenare un diesirae, quando il Presidente, consapevole dell’inutilità di quell’azione poiché controllava il parlamento per mezzo di una maggioranza galattica e aveva a libro paga quei quattro insetti dell’opposizione che avrebbe potuto schiacciare in qualsiasi momento, invitò tutti alla calma, aggiungendo, a scanso d’equivoci: «Noi siamo democratici e per questo crediamo nei valori della nostra libertà, noi siamo rispettosi delle posizioni di chi non è d’accordo con noi, purché le diverse opinioni rimangano nell’ambito squisitamente personale e non interferiscano con la nostra giusta linea politica. Diversamente sapremo correttamente utilizzare la proposta del nostro sergente e far partecipare alle cose politiche anche le forze dell’ordine. Prometto a tutti, per andare incontro alle richieste della folla e offrire nuove opportunità, d’incrementare le reti televisive e le ore di programmazione, così da ampliare in modo esponenziale la possibilità di partecipazione. Mia figlia, che gestisce la rete televisiva in modo esclusivo, come stabilito democraticamente e all’unanimità dal Parlamento, ha dato in merito ampie assicurazioni.»
Il presidente appuntò la medaglia sul petto di Scorretti e gli strinse virilmente la mano, si voltò verso il popolo osannante e salutò con il braccio destro alzato con la palma della mano rivolta verso il basso e le dita unite.
Erano passati degli anni da quell’episodio intrepido e Scorretti voleva salutare il presidente che lo aveva decorato con medaglia d’oro. Per quell’occasione aveva voluto vicino a sé il proprio figliolo e il suo più caro amico. L’uomo disse che allora chiamava il presidente ‘Macello’, come un camerata. «Sì!» esclamò Scorretti padre, animandosi; «mi fa proprio piacere di rivederlo. Ah! come sono invecchiato presto! Mi pare l’altro giorno che avevo lo zaino sulle spalle e il fucile tra le mani in mezzo a quel tramestio, quando s’era per venire ai ferri.»
Arrivammo alla stazione ferroviaria, dove era atteso il treno presidenziale. La folla premeva per vedere da vicino l’uomo che amava, perché la televisione aveva fatto un ottimo lavoro, convincendo la maggior parte delle persone, quelle più sempliciotte almeno, con i mezzi messi a disposizione dai media, televisione in particolare, che Macello De Pestis era l’uomo della Provvidenza, l’Unto di un dio al quale dava del tu, la risposta alle domande inevase della povera gente. Era riuscito, grazie alle grandi professionalità schierate nelle sue TV, a costruire una realtà virtuale sostitutiva di quella reale, dove anche gli ultimi potevano giocarsi le loro chance e occupare i gradini più alti della scala sociale. Aveva, inoltre, creato negli oppositori il nemico ideale, il nemico da odiare, sul quale riversare le proprie frustrazioni e sul quale far ricadere le colpe per le proprie difficoltà economiche e sociali. Quel popolo candido aveva fatto proprio lo slogan non scritto del partito del presidente nei confronti degli oppositori: ‘Il Partito è buono, ti perdona le sue colpe’.
Riuscimmo a farci strada fra quella folla osannante, anche per le medaglie esibite con fierezza. La folla fece ala a quella figura fiera e maestosa che portava sul petto il segno tangibile di eroe della prima ora. Qualcuno disse: «Era con Lui nella battaglia di Segrate. È uno del 7°!» Al suo passaggio si levò anche qualche applauso convinto. Erano ormai rimasti in pochi quelli di quei tempi eroici, quando la magistratura, che si ostinava a dichiararsi autonoma, cercava di tarpare le ali governative di Macello. Un repulisti generale permise di fare giustizia della Giustizia corrotta e antidemocratica che pensava di poter contare più milioni di cittadini/telespettatori.
La banda d’un reggimento suonava. Scorretti padre ci pilotò verso una posizione favorevole, un luogo privilegiato da cui vedere e farsi notare dal Presidente. Aveva a lungo sognato quel momento, e ora si avverava!
Il treno arrivò preceduto da un lungo e festoso fischio. Tutte le autorità, dal sindaco esibente un’appariscente fascia tricolore bordata d’oro all’onorevole locale circondato da portaborse e ghostwriter che avevano lavorato a lungo per scrivere il testo del saluto, dal capo dei pompieri al responsabile cittadino della gestione del cimitero, e chiunque altro ricoprisse una qualche carica socio/politica, si accalcarono sul marciapiede per non perdere la posizione dovuta per titolo e censo. Subito dopo stavamo noi, grazie a quella medaglia che aveva funzione di passe-partout.
Il treno sembrava mostrare la responsabilità del nobile peso trasportato e ansimando rallentò la sua corsa fino a fermarsi con uno straziante stridere di ruote sulle ferrose rotaie. La banda intonò con impeto consono il nuovo inno nazionale ‘Un popolo, un presidente’ scritto dal maestro Ottavo Mezzacroma. Alcuni inservienti extracomunitari di colore, scelti con grande attenzione dall’arredatrice Santa Gemiti Minuetti, in una scala cromatica dal nero al giallo, sistemarono una scaletta di velluto bianco/rosso/verde e col capo chino attesero la discesa dell’importante ospite. Il capostazione in grande uniforme salì i pochi gradini e aprì la porta del vagone, proprio quando il coro che cantava l’inno con indicibile trasporto attaccò i versi “mai più cadrò nel baratro sociale/mai più scivolerò nel tetro buonismo’. Passò qualche secondo che a tutti parve interminabile, quando apparve sulla porta un uomo d’aspetto corpulento e dalla carnagione giallastra. Un doppiopetto gessato nero copriva un abbondante adipe costretto da panciera autoregolante a distribuirsi nel modo meno evidente possibile su dorso e sui fianchi. L’operazione mascheramento non nascondeva granché quello straripante grasso. La calvizie era adeguatamente sommersa sotto una parrucca compatta con effetto asfalto e la statura subiva la spinta di scarpe adeguatamente taroccate con tacchi da cinque centimetri ben nascosti dai risvolti dei pantaloni e da tre centimetri di soletta interna.
Il presidente occupò l’intera luce della porta della carrozza. Piantò saldamente le gambe divaricate e poggiò le mani sui fianchi. Percorse con uno sguardo circolatorio la folla e salutò con una mano tesa e oscillante.
Un brivido percorse gli astanti: era lì, davanti a loro, l’uomo più importante e ricco della nazione; era per molti l’occasione della vita vedere l’oggetto del proprio amore a pochi metri di distanza. Scorretti padre non stava più nella pelle. «Lo ricordo ancora», disse, «quando c’incitava alla pugna, quando riempiva di sacro furore patriottico i suoi soldati del 7°. Spero si ricordi di me vedendo la medaglia che mi ha appuntato sul petto.»
Lentamente Macello scese gli scalini, complimentandosi per la scenografia umana organizzata dall’arredatrice Gemiti Minuetti, strinse qualche mano e si diresse verso un ambone improvvisato sistemato in prossimità della sala d’attesa della business class. Nel breve tragitto strinse mani d’autorità maschili e femminili, alle quali consegnò il suo numero di telefono privato, ma solo quando superavano un primo sommario esame della propria sex-trainer.
Raggiunto il palco, prelevò nella tasca interna della giacca un foglio dattiloscritto, il cui contenuto, debitamente registrato, fu conservato gelosamente negli archivi cittadini.
«Cittadini e cittadine, sono particolarmente felice di visitare quest’ameno luogo e stringervi virtualmente al mio petto, come un padre affettuoso con i propri figli. Vi ho sempre considerati i miei figli prediletti fra i tanti che amo. Anche quando in passato qualcuno dei cittadini si unì alla canea urlante che chiedeva più diritti, e pretendeva, pensate, che la ricchezza fosse un diritto da distribuire a piene mani. Come ormai tutti sanno, il benessere può essere, per semplici ragioni fisiche, limitato, come limitate sono le risorse. Una distribuzione alla pari fra gli abitanti del pianeta sic et simpliciter non risolverebbe alcun problema e aumenterebbe la platea dei poveri. È necessario che qualcuno gestisca la ricchezza per usarne la forza rivoluzionaria a favore della collettività. È grazie alla ricchezza, acquisita onestamente dalla mia famiglia, che il popolo, il mio amato popolo, può oggi usufruire di spettacoli televisivi che allietano il corpo e lo spirito. Ed è grazie alla televisione che milioni di cittadini diseredati possono partecipare all’agiatezza che il tubo catodico diffonde nell’etere. Se io, prima, e mia figlia Ondamarina, poi, non avessimo costruito, con sacrificio e abnegazione, l’immagine dell’opulenza e non l’avessimo insufflata attraverso gli schermi nelle menti dei cittadini, nessuno oggi godrebbe della macchina dei sogni, che è un primo fondamentale passo verso lo sfarzo nella sua espressione più gratificante, rappresentata dall’apparire. Un esempio per tutti: le trasmissioni gastronomiche cresciute a profluvio. Immaginate una società senza il media televisivo: chi avrebbe potuto avere coscienza o semplicemente l’idea di cibo con prezzi stratosferici che un comune cittadino mai potrebbe permettersi, o vini e bevande dal costo paragonabile alla buonuscita di un dipendente statale? Noi, con queste trasmissioni, abbiamo innescato un percorso virtuoso e virtuale che porta alla conoscenza, che è il primo nutrimento dello spirito. Come disse il nostro grande filosofo pitagorico Clistere da Limone Piemonte “La conoscenza nutre più del pane e non crea problemi digestivi”. E altri hanno detto in modo più degno di me che la miseria è la porta della nobiltà. Ho già pensato di nominare, con un decreto urgente, tutti i cittadini cavalieri dell’astinenza e del lavoro poco retribuito. Pensate: fregiarsi del titolo di cavaliere appagherà il nostro desiderio di crescita sociale. Sarà un nuovo passo avanti verso la realizzazione pratica del percorso indicato diuturnamente dalle mi… vostre televisioni. Alle opposizioni, invidiose e incapaci di far sognare un futuro migliore, rispondiamo con il voto popolare che solo può decidere le sorti di una nazione. Sapremo riorganizzare la società eliminando la confusione fra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Supereremo questa anomalia che ci impedisce di governare utilizzando la rapidità decisionale che può esistere solo se al vertice del potere c’è un uomo solo che utilizza il potere conferitogli dal popolo. Sono uno di voi e per voi voglio governare e rifondare questo Paese. Evviva il popolo, evviva il Partito, evviva la nostra Re-pubblica!» Gli applausi furono così robusti che lo stesso palchetto vibrò a lungo. Fra lo scrosciare degli applausi si potevano distintamente sentire le invocazioni di quel popolo che amava il suo capo.
Finito il breve discorso, attraversò la folla che si accalcava intorno alla tribuna dalla quale aveva incitato i suoi e si diresse verso l’auto che doveva portarlo a pranzo presso la villa dei conti di Tontonia. Scorretti padre, quando il presidente gli passò a non più di due metri, gridò sperando di essere udito: «Presidente, sono del 7° cavalleggeri d’Aosta, ho qui sul petto la medaglia che lei mi ha appuntato per la battaglia di Segrate.»
Macello sembrava non aver sentito o non voler rispondere. Dopo qualche passo si fermò e si voltò. Guardò nella direzione della voce e attraversando la folla raggiunse Scorretti. «Ricordo, soldato, ricordo il tuo eroismo. Ricordo che fosti tu a dare il là alla reazione delle forze dell’ordine contro quella marmaglia urlante. Tu sei il sergente Scorretti e mai dimenticherò il tuo eroismo. Io ti devo molto, la Patria ti deve molto!»Una maschia stretta di mano concluse quell’incontro.
I presenti guardarono l’uomo con ammirazione.
“È uno di Segrate,” dicevano. “È un soldato che conosce il presidente.
“È il presidente che l’ha riconosciuto.”
“È lui che gli ha teso la mano.”
Il mio amico guardò il padre con gli occhi che sfavillavano. Mai avrebbe pensato di vivere un momento come quello. La folla strinse il sergente in modo affettuoso e lo portò in trionfo verso il bar, dove bevettero alla salute del presidente. Il barista offrì da bere a tutti e chiosò: «Gli eroi possono essere riconosciuti solo dagli eroi, e il nostro amato presidente lo ha fatto stringendogli la mano da uomo a uomo. Noi qui elogiamo quest’eroe al quale dobbiamo il nostro presente e il nostro futuro.»
La scuola dell’infanzia
Aprile 4, martedì
Mia madre, come m’aveva promesso, mi condusse ieri dopo colazione nella scuola dell’infanzia di via generale Adalberto Macellai Della Morte, padre della moglie del nostro amato Presidente, per raccomandare alla responsabile di plesso una sorella piccola di Cilindri perché non rientrava nel novero ristretto degli anticipatari (quei bambini che pur non avendo compiuto i tre anni potevano frequentare la scuola dell’infanzia). Poiché il governo stava applicando una severa cura dimagrante alle spese pubbliche, il budget a disposizione delle scuole si dimezzava di anno in anno e le scuole potevano accettare alunni in eccesso (oltre i trenta) nella scuola dell’infanzia se gli insegnanti si accollavano il carico didattico per puro spirito di servizio. Le alchimie del Ministro dell’Economia e delle Finanze Constrictor Tremontibus erano riuscite a far nascere nell’opinione pubblica la convinzione che gli insegnanti erano in genere dei fannulloni inclini al rifiuto di ogni forma di responsabilità e animati da una scarsissima voglia di lavorare, appoggiati, manco a dirlo, dai sindacati che ne riscuotevano le quote di adesione.
Purtroppo per ottenere ciò che sarebbe dovuto essere un diritto, bisognava ricorrere ai mammasantissima e ai loro piccoli epigoni. In questo caso era necessario coinvolgere gli insegnanti perché dalla loro volontà dipendeva la possibilità d’iscrizione della piccola Cilindri.
La responsabile del plesso era la maestra Adalgisa Inflessibile, donna di notoria efficienza e grande senso pratico; mai una volta che avesse rifiutato un favore in cambio di un favore. Mia madre accompagnò la richiesta d’iscrizione della baby Cilindri con la comunicazione che a breve (e voleva dire ‘manus manumlavat’) avrebbe ricevuto la conferma che la richiesta per il mutuo ipotecario presentato presso la banca, dove mio padre svolgeva le funzioni di direttore, era stata accettata e sarebbe stata erogata entro breve tempo. La maestra sorrise: «Ringrazi per la gentilezza suo marito. Potrò finalmente acquistare quella casa nel nuovo quartiere Pollaio Ridente, dove stanno acquistando casa le persone più in vista della città. Ho visto il progetto dell’architetto Alexander Confuso conte di Alzheimer e ne sono rimasta molto impressionata: le linee ardite, che sfidano la fisica e la logica, proiettano verso il futuro gli studi di architettura, e rendono improvvisamente vecchie tutte le tecniche costruttive finora conosciute. Il mio appartamento di circa 120 mq l’ho scelto nella torre centrale ad arco quantico, che non so esattamente cosa sia; mi ha spiegato l’architetto che si tratta di una struttura dove gli oggetti scompaiono alla vista e riappaiono uguali da un’altra parte, creando un alone di mistero intorno all’edificio e alle tecniche costruttive. Ma chi siamo noi per dire no al progresso e alle nuove tecnologie?»
«Sono un po’ scettica sull’utilizzo di queste ardite forme costruttive, ma se a lei piace…»
«Le trovo incantevoli! Per non parlare dei mobili costruiti a misura degli spazi con le cubature che s’incrociano, che scivolano morbidamente verso l’ambiente esterno creando volumi delimitati, ma anche aperti nello spazio. Credo che Alexander Confuso con questo progetto visionario si sia avvicinato in modo sorprendente al famoso Tempo Uovo del grande caposcuola Costrutto Diroccato. Fu il primo a intuire che si poteva espandere il chiuso nell’aperto utilizzando funzioni iperboliche e sfidando l’interpretazione probabilistica dello stato quantico degli edifici realizzati.»
La guardai con un misto di stupore per tanto nozionismo architettonico e il dubbio che la donna non fosse idonea per fare la maestra per eccesso di esternazione instabile. Mia madre sembrava non trovare le parole per replicare e disse un banale ma disimpegnante: «Visiteremmo volentieri la scuola dell’infanzia, anche perché Enrico non ne ha mai visto una, almeno pubblica. Lui ha frequentato presso i frati Piagnucolanti Gaudenti Minori di Castel-hot ed è stata un’esperienza che ne ha consentita una crescita armoniosa.»
«Signora, lei qui è la padrona. Può visitare la scuola senza problemi e, in caso di necessità, sono sempre disponibile a supportarla.»
Con la mamma c’inoltrammo in quello che a posteriori divenne un inferno dantesco, almeno nella relazione che ne fece la genitrice al babbo una volta rientrati a casa. Una campanella squillante annunciò l’inizio della ricreazione, il momento più temuto dagli insegnanti e atteso con gioia dai pargoli. Un urlo avvolgente percorse il corridoio e ci colpì con effetto onda sonora facendoci vacillare: lo stomaco grugnì selvaticamente contorcendosi e sentii il cibo imboccare la strada verso la libertà. Le porte delle aule sul corridoio si aprirono all’unisono emettendo una raffica di ‘sbam’, che funzionarono da preludio a un’onda barbarica di bambini mannari, che sciamarono senza controllo alcuno verso i bagni per espletare uno dei più naturali bisogni umani: fare pipì. Nella confusione generale non tutti riuscirono a raggiungere in tempo l’agognato obiettivo, ma non si persero d’animo: sia pure in modo confuso, tutti riuscirono nell’arduo compito di svuotare nel più breve tempo possibile la vescica, e molte scarpe ne furono testimoni fedeli. Ma nessuno se ne lamentò: a chi tocca, non s’ingrugna. Le femminucce, più moderate e attente, attesero in fila ordinata il loro turno e solo poche riempirono le meravigliose scarpette da bambola di vernice con il liquido caldo e paglierino. Le maestre correvano disperate, cercando di regolare il traffico e spaziando con lo sguardo verso l’ingresso alla vana ricerca dei bidelli. Spariti, erano misteriosamente spariti, quasi fosse un destino segnato da un disegno divino. Avveniva sempre così, e ogni forma d’indagine si era arenata di fronte al tentativo di capire il perché di queste assenze concomitanti con l’orario della ricreazione. Era stato mobilitato anche il mega computer del Cern gestito da un fisico delle particelle evanescenti senza ottenere grandi risultati: gli operatori scolastici erano diventati evanescenti come le particelle studiate dal Professor Louis Buson De Neutrin. Le maestre chiamarono sempre più disperate Placido e Serena, i due bidelli in servizio, ma nessuno rispose al disperato appello di quelle educatrici in balia dell’entusiasmo infantile.
Mia madre si slanciò per supportare quelle maestre apparentemente impotenti di fronte a tanta esuberanza, e si mosse in modo da regolare l’afflusso ai servizi igienici fino a quel momento parodia violenta di un’invasione di campo in un derby calcistico Milan/Inter. Lentamente la situazione tornò alla normalità e lasciò sul campo qualche contuso, grembiuli senza tasche, colletti bianchi ridotti a stelle filanti, capelli scarmigliati che portavano lievi tracce di composte treccine frutto di ore di lavoro di mamme meticolose. Gli alunni un poco alla volta rientrarono nelle aule per consumare la colazione preparata dai genitori: sembrava di assistere alla ritirata di Caporetto, con le truppe stanche e sconfitte che stancamente raggiungevano le retrovie.
La colazione sembrò, almeno inizialmente, riportare una calma insperata. Tutti estrassero dagli zainetti ogni tipo di alimenti: merendine ipercaloriche, panini gocciolanti creme al cioccolato o marmellate, cracker, biscotti milleforme, succhi di frutta (alle vitamine semplici, multiple e complesse), acqua (bicarbonata, solfata, clorurata, calcica, magnesiaca, fluorata, ferruginosa, sodica), e qualche bottiglietta di Cola ricca di caffeina sufficiente per rivitalizzare gli ammosciati comportamenti dei bambini intasati da tranquillanti notturni, utilizzati in dosi industriali dagli stanchi genitori, dai nomi invitanti come Buonanotte, Sognidoro, Sonnotranquillo.
Dopo un primo momento di calma, molto breve, quando iniziò la ricerca e la sistemazione delle provviste in straordinarie tovagliette arricchite da vari animali ricamati da zie e nonne con presunte velleità artistiche, si respirava una strana atmosfera di bonaccia apparente; qualcuno avrebbe banalizzato con un ovvio ‘la quiete prima della tempesta’. Per i piccoli non faceva grande differenza se la tovaglia fosse stata ricamata da zia Maria o dipinta da Leonardo da Vinci, contava solo la funzione per la quale era stata creata: ospitare la colazione finché non avveniva la divisione, parte nello stomaco via bocca, parte sugli arredi e sul pavimento via… aerea.
La mamma ed io fummo invitati ad assistere alla pausa colazione nella classe della maestra Ginetta Spellagatti. Fu un inizio soft, quasi in sordina fra quei dolci piccini dall’aspetto angelico impegnati nell’organizzazione della merenda. Guardai quelle teste piegate sui banchi e non potei non commentare: «Sembrano dei putti raffaelleschi!» Qualche testa bionda e ricciuta diede maggiore credibilità alla mia esclamazione. Ma fu anche un’osservazione prematura perché la stabilità della classe si reggeva su equilibri molto precari: bastava una mosca inopportuna e la quiete sarebbe diventata una tempesta.
E una mosca fu! Almeno così risultò dai racconti confusi del dopo tsunami. Luigino, due occhi d’un profondo blu in un dolce viso incorniciato da biondi capelli ricci, vide un insetto posarsi sulla testa di Beverley e prontamente da cavaliere, e da cacciatore in erba, cercò di colpirla con la bottiglietta d’acqua supergasata. L’effetto non fu quello sperato. L’urto fece saltare il tappo e l’acqua spumeggiante per la dose industriale di anidride carbonica aggiunta rinfrescò una mezza dozzina di compagnetti. Fu come suonare le trombe del settimo cavalleggeri del generale Custer. I piccoli colpiti dall’onda effervescente si levarono in piedi e lanciarono alti strepiti che lacerarono il breve silenzio che aveva caratterizzato il mio ingresso nell’aula. Come un’ola calcistica i piccoli si alzarono per vedere cosa stesse accadendo, e innescarono con i loro movimenti bruschi e poco attenti reazioni a catena dagli esiti tragicomici. Lucio poggiò la mano sulla merendina strozzabambini e la polverizzò spargendone le briciole sul pavimento; si guardò le mani picchiettate di granella e si pulì sul candido grembiulino della sua vicina di banco: il cioccolato si sciolse al contatto con il cotone bianco e realizzò straordinari ghirigori marroni degni di un’estrosa avanguardia pittorica. Il capolavoro di Lucio però non suscitò l’entusiasmo della piccola Loretta che elevò alti lamenti che si conclusero in un pianto dirotto. Un gruppetto di cuccioli curiosi la circondò e cercò di consolarla accarezzandole il viso con mani che avevano toccato ogni sorta di cibo. Cioccolato in crema fluida e marmellata ne erano solo due degli elementi più visibili. Dall’altra parte dell’aula si era formato nel frattempo un capannello di scolaretti che, approfittando dell’impegno della maestra nel calmare Loretta e acquetare il gruppetto più rumoroso, si dedicavano a tentativi improvvisati di addestramento al volo. Mi avvicinai curioso per capire che cosa stesse succedendo. I bambini facevano corona a un banco sul quale era poggiato un panino con abbondante marmellata di fragola aperto per metà come una conchiglia; al centro, con le ali incollate alla marmellata, in un disperato tentativo di decollo, si dimenava un moscone di taglia XXL. Tutti provavano a spingerlo per vederlo riprendere il volo ma ottenevano l’effetto contrario facendolo affondare in quello strato abbondante di confettura rossiccia, e in soprammercato cosparsero di quel prodotto appiccicoso i loro grembiulini immacolati.
Mia madre e la maestra si prodigavano per riportare l’ordine in quella babele comunicativa: tutti gridavano a tutti e nessuno ascoltava gli altri, era una somma smisurata di monologhi incomprensibili.
In fondo all’aula alcuni bimbi avevano deciso di trasformare il reparto giochi in un poligono di tiro: le bambine lanciavano i giocattoli e i maschietti cercavano di compierli al volo con improvvisate mazze da baseball evidenziando una perizia balistica molto approssimativa. Il pavimento dell’aula si stava trasformando in una vera e propria discarica indifferenziata, ma nessuno dei piccoli sembrava essere turbato dalla cosa. L’unico inconveniente, che col passare del tempo creò qualche disagio, fu causato dai giocattoli con le ruote che diventavano pattini impazziti sotto i piedi degli incauti scolaretti. Fu l’inizio dei primi caduti… sui giocattoli e delle dolorosissime sbucciature sulle ginocchia dei funamboli; e alti s’alzarono i lamenti dei feriti. Mia madre era sfinita e la maestra sull’orlo di un apocalittico esaurimento. Io ridevo divertito per quello spettacolo unico e impagabile. Sembrava non ci fosse via d’uscita a quel caos collettivo, quando la maestra, senza altre carte da giocare e nel disperato tentativo di non sprofondare in un’isteria senza fine, urlò con tutto il fiato di cui disponeva, quasi collassando i suoi polmoni, un “basta” da ottavo grado della scala Richter. Tutti i piccoli s’immobilizzarono intimoriti e a me parve che l’urlo avesse ottenuto l’effetto sperato, ma dopo un attimo le bocche dei piccoli si spalancarono in un pianto accorato e inconsolabile.
«Buoni, buoni, per favore!» Gridava accorata la maestra, ottenendo in risposta un pianto sempre più disperato. Poiché le due donne non riuscivano in alcun modo a ottenere un’accettabile calma, decisi d’intervenire. Dalla tasca posteriore prelevai la mia fedele fionda che armai con palline di carta colorata e puntai la campanella preposta alla scansione delle attività quotidiane. Colpii quella scultura d’ottone che rispose con un allegro tintinnio. Quel suono fuori ordinanza fece il miracolo: gli urlatori tacquero d’incanto cercando di capire che cosa significasse quel suono fuori orario e non previsto. Non impiegarono molto a capire che l’autore ero io e che stringevo ancora l’arma ‘fumante’. Mi circondarono stracolmi di curiosità per quel giocattolo così diverso da quelli tecnologici che erano abituati a usare; li stupiva in particolare la forcella di legno, quello strano materiale ormai largamente in disuso. Colsi la palla al balzo e mi lanciai in una lezione sulla costruzione, e sull’uso di quell’arma rudimentale. Risultato: attenzione e silenzio. La maestra, si è insegnanti anche per questo, riannodò lentamente i fili rotti dell’attenzione e guidò con perizia gli scolari verso un comportamento opportuno all’interno della classe. Quando tutto tornò alla normalità e quelle birbe si sedettero composte al loro posto, la mamma e la maestra si guardarono intorno sconsolate: l’aula sembrava un campo di battaglia e la maestra non riusciva a trovare un modo rapido per rassettare. Mentre studiava come intervenire, si materializzarono i due operatori scolastici che fino allora avevano brillato per la loro assenza.
La maestra s’illuminò per l’inatteso aiuto: «Grazie a Dio siete arrivati, così mi aiutate a rimettere ordine in questo bailamme.»
Serena guardò Placido che intervenne deciso: «Credo che non sia possibile perché da questo momento siamo in assemblea sindacale; e per due ore siamo impegnati a redigere le richieste da presentare al Consiglio di Circolo per ciò che concerne i progetti di sostegno alle attività degli insegnanti.»
Mia madre cercò di mediare: «Rimettere in ordine un’aula mi sembra si possa configurare come sostegno all’attività degli insegnanti.»
«Cara signora, mi rendo conto che lei non può essere addentro alla gestione complessiva delle faccende scolastiche. Sostegno significa solo ed esclusivamente essere presenti durante le attività, vigilare perché gli estranei non creino disagi, rendere vivibile la scuola quando gli alunni sono andati via. E qua non mi pare che gli alunni siano andati via. Ora scusateci ma gli impegni sindacali ci aspettano.» Non disse altro il bidello Placido e seguito da un’indignata, per l’assurda richiesta dell’insegnante che non teneva in alcun conto la loro professionalità, collega lasciò l’aula con passo sostenuto. Aiutammo la maestra a rimettere in ordine quell’anticamera dell’inferno e lasciammo felici l’edificio, ripromettendoci di non rimetterci più piede.
«Spero che il signor Cilindri capisca il nostro sacrificio e sappia ricompensarci adeguatamente.» Furono le uniche parole che disse la mamma a commento di quella giornata terribile, fino a sera quando spiegò a tinte fosche l’accaduto al babbo che commentò: «Certi favori impegnano fin troppo la nostra disponibilità, speriamo di averne un ritorno proporzionato alla fatica.»
Alla ginnastica
Aprile 5, mercoledì
Il tempo continuando bellissimo, ci hanno fatto passare dalla ginnastica nella palestra allo spazio attrezzato all’esterno. La mamma di Snelli provò a far esentare il proprio figliolo dalle esercitazioni ginniche. La scusa palese era la struttura gracile del figlio e la sua incapacità, sempre per via del fisico, a lunghi e prolungati sforzi. Il ragazzo aveva una sua dignità e avrebbe voluto dimostrare di essere capace di eseguire anche le esercitazioni più complesse, ma non poteva per una serie di condivisibili ragioni. Era riuscito, con l’aiuto di un politico di un certo peso, a ottenere un’invalidità civile con conseguente pensione e assegno di accompagnamento. La formula magica riportata dai medici dell’Inpf (Istituto Nazionale Pensioni Facili) dichiarava Snelli “permanentemente e totalmente inabile a qualunque proficuo lavoro”. Se si fosse arrampicato alla fune o avesse scalato la pertica, qualcuno fra i compagni avrebbe ripreso la scena e pubblicato il filmato su internet. Da lì alla revoca della pensione e dell’accompagnamento il passo sarebbe stato breve: c’era sempre qualche persona onesta, anche se rara, fra le forze dell’ordine che avrebbe fatto il proprio dovere. Quindi Snelli dovette appoggiare la richiesta della madre di essere esentato dagli esercizi fisici.
Lo spazio ginnico era situato nella parte posteriore della scuola. Era un cortile trasformato in un pretenzioso anfiteatro con qualche impercettibile richiamo greco, inserito nel progetto edilizio dall’architetto Opistodomo Architrave per volontà dell’allora assessore alla cultura Fidia Capitello. Il dirigente aveva fatto mettere una targa d’ottone con il nome dell’architetto e dei politici che ne avevano voluta la costruzione. I soliti maligni avevano sussurrato che era costato come un campo di calcio di seria A, tanto che tutti lo chiamavano con ironia Stadio Olimpico. Che ci avessero fatto la cresta era cosa legittima ed evidente.
Una volta all’aperto ci dedicammo a delle sane burle nei confronti dei compagni più ingenui: dallo sgambetto allo schiaffo del soldato, dalla spinta violenta che proiettava i compagni nella sabbia del campetto alla simpatica e gioviale tirata di capelli. Qualcuno urlava, qualcun altro se ne lamentava con l’insegnante, pochi cercavano di metterla sul piano fisico.
Per l’occasione usufruivamo del supporto di un insegnante inviato dal Ministero dello Sport e dello Spettacolo. Ex olimpionico, ex campione nazionale, ex partecipante ai campionati europei e mondiali: un subisso di ex costellava il curriculum dell’insegnante di ‘Scienze Elastiche’ (secondo la nuova denominazione del ministro dell’istruzione Maria Tanga Ocabella Gemiti). Il professor Astragalo Contorto, con il suo glorioso passato, era diventato un riciclato superpagato dai fondi europei destinati alla coltivazione dell’Ullucustuberosus, detto Olluco. Era in fondo un utilizzo proficuo dei soldi che Bruxelles inviava per aiutare le zone della nazione depresse economicamente. L’onorevole Lucia Botox, alle cui cure era affidata la gestione dei fondi, riteneva che l’operazione fosse anche molto redditizia elettoralmente, e, fatta la dovuta e legale cresta, distribuiva incarichi fra i suoi elettori, senza cavillare troppo sulle competenze. Era solita rispondere ai pochi giornalisti non completamente asserviti: «Le competenze si formano con l’esperienza. Se non li mettiamo alla prova come possono formarsi questa esperienza che in seguito diventa competenza? La storia stessa dell’umanità è stata segnata da grandi geni che si sono formati provando. Pensate cosa sarebbe stato Leonardo da Vinci se non avesse sperimentato le cose che gli passavano per la testa.»
Il professor Astragalo si presentò alla classe e pose l’accento sulla sua amicizia personale e politica con l’onorevole Botox. Nella nostra classe era un biglietto da visita di tutto rispetto, mica eravamo una scuoladi borgata. Con il suo fisico da ex (ancora uno) atleta cercò di impressionare la platea dei presenti. Scorgemmo le maestre spiare dietro i vetri delle finestre i bicipiti del prof Contorto, che non perdeva occasione per farli scattare sotto una tuta acrilica aderentissima, fatta per mostrare più che per nascondere. Organizzò dei percorsi di abilità e ci divise in quattro squadre. Dovevamo correre attraverso il campo, prendere un pallone da basket e lanciarlo nel canestro, fare un salto mortale all’indietro, percorrere 10 metri sulle punte, eseguire un grandjeté e tre pirouette da eseguire sulla demi-pointe e quattro sulla pointe, partendo prima dalla seconda e poi dalla quinta posizione, consumare un rapido spuntino seduti in precario equilibrio su un trespolo, raggiungere la linea di partenza eseguendo una serie di ruote successive, con le ultime tre eseguite con la sola propulsione delle gambe.
Il prof rideva sguaiatamente mentre dava le indicazioni, pregustando i disastri che avremmo causato durante l’esecuzione. Rideva e ci derideva. «Ragazzi, poiché ancora non conosco le vostre capacità atletiche, iniziamo con esercizi semplici, che serviranno come fase di riscaldamento e di verifica. In un secondo momento passeremo a qualcosa di leggermente più impegnativo. Gli alunni che ho seguito lo scorso anno eseguivano percorsi ben più complessi ed esercizi di danza da far tremare le vene e i polsi a dei ballerini del Bolshoi. Alcuni sapevano eseguire un grandjeté bevendo una bibita con la cannuccia e scrivendo una cartolina d’auguri, e, nel rimettere piede a terra, eseguivano una serie di pirouette, dieci destrorse e dieci sinistrorse. Qualcuno durante questa fase riusciva perfino a scattare delle foto molto nitide.»
Le cose non si presentavano per niente bene, e capimmo che Astragalo Contorto aveva intenzione di sbeffeggiarci. Lui non sapeva con chi aveva a che fare, ma noi eravamo ben consapevoli della nostra cattiveria e dell’impunità per tutte le nostre eventuali monellerie, dovutaci per censo. Scorretti, di nome e di fatto, si recò in bagno, dove recuperò un contenitore di detersivo per i pavimenti ultrascivoloso. Snelli, vista la sua esenzione, godeva di grande libertà di movimento. Riuscì a impossessarsi di un barattolo di grasso antipioggia e qualche petardo rimasto inesploso e sequestrato da Posapiano nell’arco dell’anno.
Bastardi (la nostra sembrava essere la classe della nominasuntomina) propose di dare una bella lezione all’arrogante prof ex per eccellenza. Poiché dopo l’ora di lezione con noi doveva recarsi nella vicina scuola media, Bastardi suggerì di cospargere le ruote della spider del vanaglorioso ex con il grasso e iniettarne quanto bastava nei freni per ottenere l’effetto ‘pattinata sul ghiaccio’. La cosa piacque a tutti e si decise di utilizzare la libertà di movimento di Snelli e la competenza tecnica di Cilindri. Con i petardi si riempì un barattolo di vetro e lo si collocò nelle vicinanze dell’auto per simulare lo scoppio di una gomma.
Gli esercizi proposti nell’ora di ginnastica furono un vero e proprio disastro. L’inviato raccomandato del ministero dell’istruzione rideva a crepapelle e non riusciva a capacitarsi del perché noi ridessimo insieme con lui. Noi che ruzzolavamo per terra a ogni tentativo di piroette o di balzo acrobatico, noi che ci sbucciavamo le ginocchia sulla sabbia del campetto, noi che ci lamentavamo per il dolore causato dalle cadute, ci contorcevamo dalle risate immaginando il dopo. Quell’uomo sempre più perplesso ci guardava e non capiva, non poteva sapere che cosa lo aspettava al termine della lezione.
Quando rientrammo in classe con le ginocchia sbucciate, il fondo schiena pestato, vari ematomi sparsi per il corpo, diventammo oggetto dello scherno del maestro Ercoatto.
Astragalo era aduso alla guida sportiva. Strombazzò in modo da richiamare l’attenzione, pompò gas e fece ruggire il motore sportivo da 300 CV turbo e sgommò via. Arrivato all’altezza del cancello, il marchingegno preparato da Snelli e Cilindri fece il suo dovere e i petardi esplosero con un fragore incredibile. Il prof, colto di sorpresa, tentò una brusca frenata ma incappò in una pozzanghera di detersivo abilmente preparata da quei geni dei miei compagni. L’automobile sbandò. Il pilota provò una frenata disperata e il grasso insinuatosi nei ferodi fece il resto: pirouette e grandjeté lo misero in rotta di collisione con il pilastro sinistro del cancello della scuola. L’atterraggio fu tutt’altro che morbido e l’auto cercò di avvolgere come una stola di astrakan il pilastro. Le lamiere emisero un lamento lugubre. Come ciliegina sulla torta il cancello si ricordò che i suoi cardini erano vecchi e arrugginiti, decidendo di crollare su quanto era rimasto della sportivissima auto del professore di ginnastica. Ridemmo a squarciagola per lo straordinario risultato della nostra vendetta. L’uomo fu condotto all’ospedale da un’ambulanza arrivata con un accettabile ritardo di solo mezz’ora e priva del medico, sostituito mirabilmente da un portantino strabico e da un autista zoppo. La barella, come Dio volle, fu posata nell’ambulanza, ma non fu bloccata; il trasferimento all’ospedale fu una vera e propria via Crucis, sballottato senza pietà dalla guida claudicante e poco lineare dell’autista.
Dopo qualche giorno venimmo a sapere che Astragalo Contorto aveva in precedenza passato lunghi periodi presso la clinica ‘Suor Demenza della Paranoia’, dove era stato curato per evidentie manifesti segni di sadismo. Il suo (sarebbe meglio dire della sua famiglia) ammanigliamento con le più alte cariche dello stato ne aveva imposto il reinserimento nel mondo del lavoro. Quei cervelloni del ministero non avevano trovato di meglio che inserirlo nel mondo della scuola. La confusione regnante in quel settore, pensarono, avrebbe sfumato certe stranezze. Per fortuna della scuola fu assegnato alla nostra classe, che lo tolse dalla circolazione per circa un anno. Non potendo mettere in pratica i suoi più bassi istinti, per non stare con le mani in mano e dopo attente letture dei libri di Leopold von Sacher-Masoch, provò a dedicarsi al masochismo, senza ottenere gli stessi soddisfacenti risultati della sua pulsione principale.
Il maestro di mio padre
Aprile 11, martedì
Che bella gita feci ieri con mio padre! Ecco come. Ieri l’altro, a desinare, leggendo il giornale, mio padre uscì tutt’a un tratto in una esclamazione di meraviglia. Poi disse: «E io che lo credevo morto da vent’anni! Sapete che è ancora vivo il mio primo maestro elementare, Vincenzo Meschini, che ha ottantaquattro anni? Vedo qui che il Ministero gli ha dato la medaglia di benemerenza per sessant’anni d’insegnamento. Ses-san-t’an-ni, capite? E non son che due anni che ha smesso di far scuola. Povero Meschini! Sta a un’ora di strada ferrata di qui, a Madovè, nel paese della nostra antica giardiniera della villa di Andirivieni.»
E soggiunse: «Enrico, noi andremo a vederlo.»
E per tutta la sera non parlò più che di lui. Quel nome evocava tempi ormai lontani, momenti di fanciullesca felicità, monellerie fantastiche con gli amici dell’infanzia, eroici scontri con gruppi di bambini di altri quartieri cittadini.
Il viso di mio padre si rilassò fino al sorriso: non lo avevo mai visto così sereno; e il merito sembrava essere il ricordo del suo vecchio maestro, di quell’ottantaquattrenne costretto a lavorare fino a quella veneranda età dalle leggi antioperaie varate dal ministro Assunta Furtero per rimpinguare le asfittiche casse statali. Mio padre ci spiegò perché il maestro fu costretto a lavorare per sessanta anni e raggiungere l’agognata pensione alla fantastica età di 82 anni.
«Le difficoltà del bilancio dello stato hanno costretto vari ministeri a varare leggi tendenti a procrastinare sempre più in là l’età della pensione. Era un ‘dai e vai’ continuo fra i lavoratori e l’istituto nazionale di previdenza. A poco erano serviti i giochi di prestigio dei ministri economici per nascondere il buco nero delle finanze nazionali, idrovorate dalle potenti fauci dei politici e dei funzionari pubblici, in modo proporzionale alla posizione occupata nella scala gerarchica. Vigeva un codice non scritto di cui non parlava nessun contratto di lavoro, ma che per tutti era diventato parte integrante della remunerazione erogata dallo stato: tutti possono applicare una mancia obbligatoria al lavoro svolto a favore del cittadino e della società. Per i politici la mazzetta era più facile da ottenere perché attingeva direttamente ai fondi dell’erario e, quindi, avveniva a monte. Quest’allegro sistema andò avanti per decenni, finché qualcuno gridò che il ‘re era nudo’ e il castello di carte costruito da abili giocolieri governativi crollò rovinosamente. Era necessario mettere una pezza, urgeva che qualcuno pagasse gli storni truffaldini alle casse dello stato. Fu chiesto il parere dei massimi esperti a livello mondiale e la risposta fu una sola: ‘È finito il tempo delle vacche grasse! Chi ha usufruito di un welfare vergognoso ed eccessivo, dando quasi nulla in cambio, deve ripianare i debiti della nazione. Il paese non si può più permettere di mantenere quantità eccessive di poveracci, che vivono, da allegri incoscienti, al di sopra delle loro possibilità. Il governo deve introdurre un nuovo sistema di licenziamento, escludendo dalla fase decisionale, sia i sindacati dei lavoratori sia le forze politiche e sociali dell’opposizione, sempre pronte a seminare odio, per consentire lo snellimento della pletorica macchina burocratica.’
La conclusione unanime fu: ‘Pericoloso e inutile il medico che nasconde la verità al paziente. Si deve intervenire subito per amputare la parte necrotica della società rappresentata dagli impiegati fannulloni e incapaci, vera palla al piede della nostra bella repubblica, senza trascurare i lavoratori troppo tutelati con sostegni e sussidi in caso d’indigenza.’
Il colpo da maestro lo sferrò, con maestria e cinismo, il ministro Assunta Furtero proponendo e ottenendo lo slittamento dell’età pensionabile in modo creativo: mise in atto un meccanismo ‘a inseguire’ che avrebbe impedito a tutti i dipendenti di raggiungere l’agognata pensione anche dopo i 60 anni di onorata carriera. Era un sistema mutuato dalla sua conoscenza geografico/astronomica e riferito alla linea immaginaria rappresentata dall’orizzonte. ‘Poiché l’orizzonte altro non è che una linea immaginaria tra terra e cielo che si allontana quando si avvicina l’osservatore, perché non riportare questo semplice concetto creato dalla natura nel processo pensionistico nazionale? Rispetteremmo una delle nozioni fondamentali della fisica e ridaremmo credibilità scientifica al sistema pensionistico.’ Un’ovazione accolse quelle parole nel salone delle feste continue dell’Associazione dei Rapaci, un gruppo omogeneo di straricchi e squali dell’alta finanza. L’aquila e lo squalo nello stemma rosso sangue posto sopra la tavolata della presidenza sembrava annuissero convinti. (Si narra che quel rosso particolare sia stato ottenuto mescolando mercurio, pigmenti di colore e autentico sangue di minatori durante una rivolta dei primi anni del Novecento che si era conclusa con il massacro di trecento scioperanti.) Il presidente del consiglio dei ministri, ovviamente presente alla celebrazione della ricchezza smodata, chiese una sala appartata per riunire seduta stante il governo per dare gambe all’ingegnosa proposta della Furtero. Fu accolto in Parlamento un emendamento umanitario che spaccò la maggioranza in contrari e in sfavorevoli. Il Presidente puntò i piedi e, obtorto collo, l’emendamento pietoso fu approvato. Con la modifica si poteva raggiungere la pensione con la fatidica quota 142, somma dell’età anagrafica e degli anni di servizio. Il maestro usufruì dei benefici di quell’emendamento.
Questa è la spiegazione, sia pure sintetica del perché il mio povero maestro è stato costretto a lavorare fino a 82 anni. Da rilevare che pochissimi riescono a tagliare quel traguardo e quei pochi che ci arrivano vengono visti come parassiti che non hanno neppure la dignità di morire prima pur di suggere per qualche anno alle mammelle dello stato.»
Capii, insieme alle spiegazioni, quanto fosse importante entrare nel gruppo di coloro che in pensione non devono andare per censo e ricchezze. Mi ripromisi d’impegnarmi sempre al massimo per non essere costretto a cercare un lavoro alle dipendenze di qualcun altro. Quel maestro, troppo onesto per arrotondare il magro stipendio con regalie o bustarelle e che viveva con uno stipendio da servitore dello Stato, che gli consentiva di vivere in bilico tra povertà e miseria, fu costretto a lasciare il lavoro e tirare avanti con una pensione falcidiata da articoli di legge e postille segrete che gli avevano consegnato un mensile pari al 50 % del suo medioevale guiderdone. Sarebbe rimasto volentieri sulla breccia, nonostante i suoi disabilitanti 82 anni, pur di continuare a mantenere il suo sia pur basso tenore di vita. Mio padre continuò la presentazione di quel maestro così diverso dai suoi modelli sociali preferiti. Quell’uomo, lo capii più tardi, fu la sua unica debolezza, un neo in un percorso quasi netto. Probabilmente aveva influito sul suo giudizio il ricordo della sua infanzia e dei suoi genitori che stimavano quell’insegnante. “Un galantuomo. Mia madre gli era affezionata e mio padre lo trattava come un amico. Non mi riconoscerà più, certamente. Non importa, io riconoscerò lui. Quarantaquattro anni son passati. Quarantaquattro anni, Enrico, andremo a vederlo domani.”
Prendemmo un treno ad alta velocità che attraversava la Val Lumaca nella certezza di raggiungere la meta il più velocemente possibile (giova ricordare che il tempo è denaro). Purtroppo mio padre non tenne conto delle manifestazioni organizzate dal Partito Bradipo del Nuovo Avvento e dai movimenti dell’Apatia Progressista Unita. Fu una manifestazione a binario selvaggio. Quel giorno decisero di protestare perché ritenevano il percorso troppo rapido per permettere all’economia locale del ravanello di trovare estimatori. I treni per l’alta velocità erano costruiti in modo tale da non consentire l’apertura di alcun finestrino, modello jet. Cliente non vede, cliente non compra: fu la considerazione dei valligiani. Quelle parole divennero lo slogan degli anti velocità. Per correttezza dobbiamo ricordare che nel passato le cose funzionavano allo stesso modo. Tutti gli abitanti di Val Lumaca per anni avevano lamentato l’assenza dello Stato, avevano chiesto un servizio trasporti adeguato alle esigenze del territorio. In anni precedenti era nato un comitato contro la scelta di un ministro del sud che aveva deciso di far collegare il capoluogo della sua regione con l’aeroporto più vicino. L’accusavano di clientelismo e sostenevano che i meridionali non producevano e a nulla serviva l’alta velocità per dei terroni oziosi. Avevano mobilitato tutta l’intellighenzia dei più vivaci gruppi culturali del nord, dai montanari dediti al recupero dell’attività sportiva basata sul trasporto sullo Zoncolan di una macina del peso di duecento chili (l’attività si svolgeva, inutile sottolinearlo, a squadre) agli intellettuali aderenti al filone Sbronz dediti al rilancio della gara di bevuta di grappa aromatizzata con Leontopodiumalpinum e pino silvestre (che garantiva ai bevitori il bagno interno ed esterno contemporaneamente) stando capovolti su una mano, e cantando tra un bicchiere e l’altro la canzone popolare ‘Mi son alpin’ (Mi son Alpin/ me piasel vin/ tengo l’innamorata/ in fondo al quartier./ Vicino al quartier/ vicino alla caserma/ tengo una bella serva/ per fare all’amore.), dall’associazione ‘Cri-cri’ per la difesa del grillo verdastro badano al Centro Culturale ‘BagnaCauda e Prosecco’, gestito dalla professoressa AdebankeMwangaza Cazzaniga, di natali incerti a causa del colore della pelle non proprio candido, che aveva riscoperto l’utilizzo del vecchio linguaggio paraceltico, basato su due vocali e dieci consonanti (tipico esempio del senso del risparmio dei montanari), dei popoli discendenti dall’eccezionale, e mai abbastanza lodato, Troglodytix, capo dei Gemiti dell’ovviamente Grande Nord. Questi gruppi, uniti in comitato di lotta perenne, prepararono un papier scritto con penna d’oca (la riscoperta del proprio passato è sempre un punto fermo e solido su cui costruire il proprio futuro) e inchiostro ferrogallico preparato con acqua pura del fiume sacro, si riunirono sulla cima del Monte Baciòch, e concionarono per giorni e giorni senza capire granché l’uno dell’altro. La quasi totalità dei rappresentanti delle tribù pedemontane e di pianura parlavano dialetti profondamente diversi; insomma, una torre di Babele. Gli storici raccontano la vivacità dei dibattiti sull’uso corretto della polenta fra la signora Letizia Burlon e la signorina Maria Culot. Dopo anni d’incomunicabilità, il famoso linguista Matteo Esegetico, che aveva assistito alla fase più acuta della contrapposizione culinaria, spiegò ai presenti, utilizzando l’unificante lingua nazionale, che le due donne mai si sarebbero potute capire perché parlavano dialetti completamente differenti, pur vivendo nella stessa via. Spiegò che la linea di demarcazione linguistica passava al centro della carreggiata, e i due dialetti erano di derivazioni diverse: quelli del lato con i numeri pari parlavano un dialetto di misteriosa genesi africana, quelli del marciapiede con i numeri dispari un miscuglio linguistico le cui origini erano ancora oggetto di analisi degli studiosi dell’università della Val Nonso. E su quella falsariga si svilupparono, nell’incomprensione reciproca di quelle divise popolazioni, tutti i dibattiti sulla necessità di modificare i percorsi ferroviari e la tipologia dei mezzi. Il ragioniere Baciccia, nel bel mezzo di un dibattito sul pendolarismo dei giocatori d’azzardo, sostenne, fra applausi e ‘buh’ di disapprovazione (equamente distribuiti), che andava difesa l’imprenditorialità dei casinò del nord inserendo i luoghi nei viaggi organizzati dai tour operator, e propose di utilizzare per lo scopo i treni veloci di ultima generazione, se necessario spostando risorse dai treni per pendolari tout court al supporto al mondo del gioco, risorsa economica in espansione. Lo offesero nell’onore, e se ne lamentò in assemblea, le accuse di GiampiMagnon: «Questo interesse per i casinò mi sembra sospetto poiché il genero è il titolare della casa da gioco ‘Vortice insaziabile’ e lui ne è il contabile.»
Fu subito rissa, e ci volle l’intervento delle forze dell’ordine perché i contendenti si erano divisi in una decina di fazioni, ferocemente contrapposte. Fra un litigio e gli interminabili summit, i mezzi di trasporto continuarono a collegare città e stazioni come previsto dalle autorità nazionali e locali, con buona pace degli arruffapopoli da fiera contadina. L’unico risultato di tanto discutere furono le proteste a macchia di leopardo per i più svariati e spesso contrastanti motivi; uno dei quali rallentò alquanto il viaggio verso la dimora del vecchio maestro di mio padre.
Il capotreno scese dal convoglio ferroviario e provò a convincere i manifestanti a liberare la strada ferrata: «Mi pare che abbiate già raggiunto lo scopo della vostra protesta: tutti sapranno attraverso i telegiornali nazionali che l’Associazione del ravanello libero ha contestato l’attuale sistema dei trasporti. Potreste ora far transitare il treno e consentire ai viaggiatori di raggiungere le loro destinazioni.»
L’intervento del ferroviere non smosse di un millimetro i dimostranti che, anzi, elevarono alti i loro cori di protesta.
Ogni tentativo sembrava destinato al fallimento, anche una non troppo velata minaccia di vendetta divina da parte di un sacerdote/passeggero di una poco conosciuta religione, incavolato per il ritardo. Si stava per innestare la ‘marcia indietro’ per riportare il treno alla stazione di partenza, quando una figura angelica si materializzò dal nulla. I giornali, avuta l’informazione dalle solite fonti ben informate e desiderose di mantenere l’anonimato, avevano cavalcato la notizia intingendo volgarmente la penna nel paranormale: in prima pagina si riferiva correttamente l’accaduto e in terza già si scivolava biecamente nell’ipotesi aliena e in qualche presenza divina.
La signora, vestita con un abito di seta di un bianco candido, si muoveva quasi sfiorando l’acciottolato fra le traversine. I capelli biondi mossi dal vento e un corpo diafano contribuirono a rendere irreale quell’incedere. La donna raggiunse i manifestanti e parlò loro con tono quieto e suadente.
«L’umanità ha dedicato il suo percorso terreno alla ricerca spasmodica del progresso, per vivere meglio ed evitare la fatica. Al centro dei suoi interessi l’uomo ha messo le macchine, individuandole come strumento centrale di ogni progresso. Ma tutto il suo affannarsi non gli ha concesso di raggiungere serenità d’animo e felicità spirituale. Nonostante le sue origini divine ogni essere umano è sempre alla ricerca di piaceri fugaci. Questo illusorio progresso ha portato gli uomini a vivere in modo presuntuoso e contrario alla volontà dei cieli.
Pensare che l’attaccamento alle cose terrene possa soddisfare il nostro spirito è un errore, e offende anche la divinità. Non fatevi trascinare dalla mala erba, estirpate gli alberi del peccato. E per sradicare gli alberi si deve iniziare dalle radici, non dai frutti.
Se l’umanità vorrà raggiungere la sua vera destinazione e ottenere pace e felicità, deve rifuggire come la peste ogni formazione sociale e spirituale basata esclusivamente sulle cose effimere del mondo. Voi, bloccando il passaggio di questa macchina chiamata treno, mostrate di concedere troppa attendibilità alla scienza e al progresso. Ignorate questo sferragliante mezzo che non vi servirà per raggiungere la felicità eterna, che viaggia su ben altri mezzi. Mostrate il vostro disprezzo e fate proseguire questo prodotto decadente della tecnologia.» Sollevò le mani quasi a impartire una sorta di benedizione. La folla, scossa, si ritrasse e concesse al treno di proseguire la sua corsa. Così com’era apparsa la donna diafana scomparve. A dirla tutta io la vidi risalire sull’ultima carrozza, dove avevo in precedenza notato un gruppo di persone stranamente vestite. Mi ricordavano quei gruppi dediti all’ascoltodella musica detta new age e alla ricerca dell’equilibrio psicofisico all’interno delle piramidi o sostando contemplativi sulle rocce di granito. La stampa, alla ricerca sempre di fatti sensazionali, non indagò a fondo e scelse la versione in grado di far vendere più copie. Il titolo della Gazzetta Stampata riassunse pressappoco quelli degli altri giornali: «Donna misteriosa appare agli scioperanti e sblocca un blocco.»
Come Dio volle arrivammo a destinazione. E non ci andò meglio con il taxi, guidato da un ciarliero buffone dal peso considerevole e con un buffo cappello di paglia con una fascia multicolore, che per far volare il tassametro passò tre volte davanti alla stazione e cinque davanti alla cattedrale. Mio padre commentò con un sorriso benigno e comprensivo l’astuzia, sia pure di piccolo cabotaggio, dell’intraprendente autista. Scendemmo dall’auto e c’incamminammo su per una scalinata che portava all’alloggio del maestro. Mio padre era particolarmente emozionato e mi spingeva perché aumentassi il passo. All’improvviso si fermò, e disse: «Eccolo. Scommetto che è lui.»
Veniva giù verso di noi, per la scala, un vecchio piccolo, con la barba bianca, con un cappello largo, appoggiandosi a un bastone: strascicava i piedi e gli tremavan le mani.
«È lui,» ripeté mio padre, affrettando il passo.
Quando gli fummo vicini, ci fermammo. Il vecchio pure si fermò, e guardò mio padre. Aveva il viso ancora fresco, e gli occhi chiari e vivi.
«È lei» domandò mio padre, levandosi il cappello, «il maestro Vincenzo Meschini?»
Il vecchio pure si levò il cappello e rispose: «Son io,» con una voce un po’ tremola, ma piena.
«Ebbene,» disse mio padre, pigliandogli una mano, «permetta a un suo antico scolaro di stringerle la mano e di domandarle come sta. Io son venuto da Torino per vederla, per mostrare a mio figlio i percorsi della vita. Lei ha lavorato con abnegazione e senso del dovere per tutta la vita, e si ritrova in questo paesino sperduto a tirare a campare con una misera pensione da insegnante. Forse il conto di dare e avere nel suo caso non è granché equilibrato.»
Il vecchio lo guardò stupito. Poi disse: «Mi fa troppo onore… non so… Quando, mio scolaro? mi scusi. Il suo nome, per piacere.»
Mio padre disse il suo nome, Alberto Bottino, e l’anno che era stato a scuola da lui, e dove; e soggiunse: «Lei non si ricorderà di me, è naturale. Ma io riconosco lei così bene!»
Il maestro chinò il capo e guardò in terra, pensando, e mormorò due o tre volte il nome di mio padre; il quale, intanto, lo guardava con gli occhi fissi e sorridenti.«Bottino, tu sei Bottino. La mia memoria per fortuna ancora non mi fa difetto e lentamente affiora dal passato l’immagine di un bimbo timido e intelligente. Credo di avere, in qualche modo, ricevuto sue notizie attraverso i genitori dei miei alunni qualche tempo addietro. So che svolge un importante ruolo all’interno della Banca e che sempre si è ricordato degli amici. Mi creda, non c’è maggiore soddisfazione di quella finalizzata all’altrui felicità e benessere. Io ho sempre pensato ai miei ometti come a dei potenziali figli; il loro bene era la mia unica ragione di vita. Lo so, la società con me non è stata particolarmente generosa, non ha considerato valori degni di considerazione l’onestà, la correttezza, l’impegno, la professionalità, l’attaccamento al lavoro. Mi sono sempre considerato un servitore dello stato e mai mi sono lamentato del trattamento ricevuto; ho sempre pensato che chi fa il proprio dovere non deve aspettarsi trattamenti di favore. Ricevo una pensione modesta ma sufficiente per vivere con dignità. Non ho grosse pretese e riesco ad arrivare alla fine del mese, anche grazie alla casetta lasciatami dai miei genitori.»
Ci guardò chinando leggermente il capo, quasi a sottolineare una rassegnazione storica, la consapevolezza di aver dato tanto a un mondo egoista e ingrato senza ricevere adeguato risarcimento. Il dubbio lo assillava: e se tanto sacrificio fosse stato inutile? Sorrise. Non aveva più l’età per pentimenti o dubbi, ciò che aveva fatto sarebbe stato giudicato dai posteri. «Se si ricorderanno di me!» Aggiunse a conclusione delle sue non manifeste riflessioni.
«Mi farebbe piacere, visto che si sono scomodati nel venire a trovare questo povero vecchio inutile, avervi miei ospiti.» Accettammo volentieri.
Viveva in un condominio di edilizia economica e popolare, un parallelepipedo di dieci piani grigio cemento costellato di macchie verdastre fuligginose, prova inoppugnabile di scarsi interventi manutentori e delle limitate risorse economiche degli abitanti. Ci fece strada e c’incuneammo in un tetro androne con pretese lecorbusiane, e raggiungemmo un portone di alluminio anodizzato in brillante rosso Tiziano (Era l’unica cosa colorata in quell’ambiente cupo). Un ascensore con qualche residua traccia di lusso pacchiano ci condusse al quarto piano. Un salone stipato di scaffali stracolmi di libri fece capolino oltre la porta. Un salotto in pesante velluto bordeaux, con un’usura che ne dichiarava gli anni, completava il modesto arredamento della stanza.
Ci sedemmo in quelle sontuose poltrone che c’inghiottirono nella loro soffice imbottitura. Il maestro apparve più minuto in quell’importante e supponente salotto. Mio padre, con molta nonchalance, si piegò in avanti, assunse un’aria di circostanza (conoscevo fin troppo bene quell’espressione che nascondeva un qualche imbarazzo) e provò a sbloccare la discussione non proprio vivace. «Caro maestro, sapesse quante volte ho ripensato a quegli anni felici e spensierati della mia infanzia, ai miei vecchi compagni di scuola, a lei seduto dietro quella massiccia cattedra posata su un’imponente, almeno per noi piccoli scolari della prima elementare, predella che tanto timore c’incuteva. La sua pazienza e il suo sorriso bonario riuscivano a sciogliere ogni nostra preoccupazione.»
Il maestro sorrise mesto: «Oh, ricordo la loro timidezza iniziale. Devo, però, dire che si sono rifatti abbondantemente lei e i suoi compagni. Loro non possono neppure immaginare le reprimende che ho dovuto subire da parte del direttore didattico. Diceva che non ero abbastanza severo, e che l’educazione era un percorso segnato da stretti paletti, bisognoso d’interventi autoritari e repressivi. Ho lavorato in tempi autoritari con atteggiamenti aperti, pedagogicamente corretti, osteggiato dai dirigenti, dai genitori, dai politici. Ho lavorato in tempi definiti genericamente permissivi, e sono stato definito ‘vecchio e superato’, incapace di creare un buon rapporto con gli alunni e poco tollerante con chi non fa il proprio dovere. Insomma sono sempre stato visto come uno fuori dal tempo: comunicativo in periodi autoritari e superato quando la scuola doveva essere a immagine e somiglianza dei genitori; ed io mi ostinavo a fare solo il maestro e a occuparmi degli alunni.»
Mio padre annuì alle obiezioni di Vincenzo Meschini e alla sottolineatura sulla scuola sempre più condizionata da famiglie irresponsabili, ignoranti e arroganti. «Possiamo ormai affermare di essere immersi in un liquido oleoso che impedisce ogni cambiamento coraggioso che possa in qualche modo aumentare i carichi di lavoro di alunni deresponsabilizzati e amorfi, figli di una società videns, modellata da schemi e comportamenti da vertici politici ed economici, che lavorano per sviluppare indefinitamente il processo consumistico. Quelli come lei, caro maestro, sono visti come intoppi nel cammino dello sviluppo controllato, perché fanno pensare, perché formano le menti.»
Era la prima volta che sentii mio padre fare affermazioni così rivoluzionarie e contrarie a ciò che sempre mi aveva suggerito. E mai più avrei sentito parole simili. Era una sorta di licenza poetica che si era concesso di fronte all’unica persona che lui aveva davvero stimato e ammirato; una variazione sul tema che non gli avrebbe tuttavia fatto mutare i modelli di comportamento.
Portammo il vecchio maestro in un ristorante alla moda, e di ciò ci ringraziò a lungo. Volle a tutti i costi accompagnarci alla stazione e ci salutò con grande trasporto, rimarcando che i suoi giorni si avviavano alla scadenza e forse non ci saremmo rivisti più. Dal finestrino del treno mio padre lo rincuorò e prese l’impegno solenne di andarlo a ritrovare l’anno successivo.
Vedemmo il maestro dirigersi curvo verso l’uscita, mentre il treno lasciava la stazione, come in un generico contrappasso, in costante accelerazione. Il convoglio s’infilò in una galleria, e il buio inghiottì il treno e i ricordi.
Convalescenza
Aprile 20, giovedì
Chi m’avrebbe detto quando tornavo così allegro da quella bella gita con mio padre che per dieci giorni non avrei più visto né campagna né cielo! Son stato molto malato. Qualcosa mangiato in quel ristorante molto chic, il giorno della visita al maestro di mio padre, mi aveva creato non pochi problemi. Ero stato ricoverato per tre giorni nel reparto antiveleni, perché mi era stata diagnosticata un’intossicazione da botulino. Mio padre si era dato da fare, sia in difesa della mia salute sia contro quel ristorante gestito con troppa faciloneria: pare non fosse la prima volta che nelle sue cucine, cinque stelle per la rivista ‘Fin che la va’, si partorivano mostri batterici in grado di stendere anche l’organismo più robusto. La regolarità di episodi di gastroenterite suggerirono ai gestori qualche cambiamento nella sistemazione del settore toilette, troppo vicino alle cucine. I bagni furono dislocati in altra zona del locale e completamente riorganizzati con la tecnica del fumo negli occhi: la tavoletta del water fu imbottita e sagomata, si applicò un poggiatesta in morbida pelliccia di castoro, alle pareti si ancorarono dei televisori con possibilità di scegliere fra mille programmi satellitari; il tocco finale fu un bar fornitissimo di bibite, tassativamente al limone, che poteva coadiuvare qualsiasi intervento ‘antidiarroico’ casuale e non preventivabile.
Per la causa che mio padre intentò al ristorante, si attivò il maestro/avvocato Massimo Della Pena in squadra con il noto e costosissimo studio legale Assoluzione, Penitenza & C. (Dove la C. stava per Corruzione. «Avere ragione non è un buon motivo per vincere le cause. Si può battere con certezza l’avversario corrompendo giudici e giurati.» Sosteneva l’ottuagenario fondatore dello studio, detto semplicemente ‘Schedario’ per la sua capacità di ricordare tutte le vicende poco pulite che avevano visto coinvolti giudici e personale del palazzo di giustizia.)
I medici, guidati con perizia e professionalità dal Prof. Dott. Cavaliere dell’Ordine dello Sbarazzo Gaio ed Evacuo, dell’ospedale Madre Addolorata e Piangente fecero il loro dovere. Tornai a casa assai debilitato per le pesanti cure che avevo dovuto subire e per le conseguenze deleterie degli effetti collaterali di una colonia agguerrita e feroce di rotavirus incrociati con spiritosi campylobacterjejuni, annidati probabilmente in un tiramisù decisamente datato, e giunto ormai alla sua quinta presentazione.
Nel mio lettino ebbi modo di apprezzare i piaceri delle coccole familiari. Le visite dei compagni furono un felice corollario alla mia convalescenza. I miei amici, uno dopo l’altro, si alternarono nel cercare di alleviare le mie sofferenze. Vurazzu u russu mi portò dei dolci ricchi di ricotta e canditi fatti arrivare per l’occasione dalla sua regione; Debossi mi fece dono del libro ‘Come diventare ricchi sfruttando i poveri senza provare vergogna’; Sgarrone mi omaggiò un album di figurine di calciatori vinto in una sorta di riffa scolastica; Garuffa volle regalarmi il suo portafortuna: una boccetta per il gioco del biliardo in avorio con all’interno, ben mimetizzato, un triangolo di rame elettroconduttore e alimentato da una mini batteria al torio rimbalzante, che emetteva campi magnetici in grado di deviare le bilie degli avversari; Cilindri quasi si superò consegnandomi lo stemma di una corvette zr1 e una targa automobilistica dello stato dell’Alabama con il disegno di un cappuccio del Ku KluxKlan su un lato e una corda con nodo scorsoio sull’altro, appartenuta al senatore CruelApartheid, noto per il tentativo di trasformare in legge la teoria del dottor Fosco Strozzaneri sulla doppia evoluzione umana: una dei bianchi discendenti da specie animali nobili come il leone o la tigre, e l’altra dei neri discendenti da sottospecie animali come lo scarafaggio o la mosca. (Gli scienziati non vollero prendere in considerazione la nuova e rivoluzionaria teoria perché la consideravano leggermente razzista e poco documentata, anche se le nuove idee facevano proseliti fra gli estimatori del nazismo. Il libro del 1857 ‘Indigenous races of the earth’ degli scienziati J. C.Nott e G. R. Gliddon fu rispolverato dai moderni Lombroso per creare una simbiosi scientificamente credibile con le teorie rivoluzionarie di Fosco Strozzaneri. Nott e Gliddon sostenevano che i neri fossero una via di mezzo fra scimpanzé e caucasici.)
Fui contento dell’affetto dei compagni di scuola, e apprezzai più di ogni altra cosa i regali. Ho una mia teoria sui regali: poiché costano, solo chi ci è veramente affezionato spende per vederci felici. E quei discoli si privarono di un qualcosa a loro caro per contribuire alla mia serenità.
Dopo una settimana di convalescenza ricevetti la visita del primario dell’ospedale Grandi Sofferenti prof. Malcelato Bisognin che sentenziò, dopo aver inforcato gli occhiali, tastato il polso, visionato la lingua: «Il paziente, nonostante i rischi corsi che lo hanno portato molto vicino alla tomba, può essere considerato guarito. Salvo complicazioni, sempre possibili.» Ridacchiando per una considerazione che ritenne spiritosa, ma che non apprezzai granché, aggiunse: «E poi morire così non sarebbe dignitoso per un essere umano.»
Mio padre ringraziò il luminare dell’apparato digerente e chiese sottovoce, quasi vergognandosi dal dover affrontare una cosa così vile con un simile professorone: «Quanto le devo per il disturbo?»
Sorrise ancora e rispose: «Con fattura 400 euro, senza 200.»
La scelta cadde sulla seconda per motivi… matematici.
Mi ripresi rapidamente e nel giro di pochi giorni ritrovai i miei compagni di gioco.
Gli amici operai
Aprile 20, giovedì
«Caro Enrico, vedi di non affezionarti troppo ai tuoi amici perché potrebbe la vita dividervi: non tutti siete destinati a ricoprire lo stesso ruolo sociale. Tu, per censo e disponibilità economiche della famiglia, sei destinato a occupare i gradini più alti della società. Ti capiterà sovente che qualche tuo vecchio compagno di scuola venga a trovarti per chiederti qualche favore, com’è prassi fra i più sfortunati. Valuta sempre come può volgersi il rapporto di dare e avere con gli altri, anche i più diseredati possono ricambiare i favori. Pensa per esempio quanto può rendere una fidelizzazione in campo politico, se nel futuro dovessi decidere di farti eleggere in uno degli innumerevoli consessi politici nazionali. Quindi non sottovalutare mai nessuno, e allo stesso tempo valuta ‘cosa gli altri possono fare per te’.
I tuoi compagni attuali potranno essere domani il trampolino per una scalata sociale inarrestabile, perché, è lapalissiano, per appartenenza di classe nulla ti è precluso, però a certi livelli si arriva solo se si riesce a essere più astuti dei propri simili e, vale la pena di ripeterlo, più cinici. La tua competizione non sarà con i tuoi attuali compagni, esclusi quelli che vivono in condizioni favorevoli e privilegiate, ma con pochi altri che godono dei tuoi stessi privilegi. Non dimenticarli, dunque, perché ciascun essere anche se insignificante può dare un contributo risolutivo al benessere di chi sa blandirlo e sfruttarlo, dandogli l’impressione di essere utile e insostituibile. E questa sottile linea rossa fra imporre e governare che fa la differenza fra un arruffapopolo e un leader.
Vorrei vedere che tu non andassi a cercar Scorretti e Cilindri; dovunque fossero. Tu ci andrai, e passerai delle ore in loro compagnia, e vedrai, studiando la vita e il mondo, quante cose potrai imparare da loro, che nessun altri ti saprà insegnare, e sulle loro arti e sulla loro società e sul tuo paese. Non devi, tuttavia, cercare di commettere il grave errore di assimilare la massa alla tua classe di appartenenza: devi sempre utilizzare gli altri promettendo che “presto, molto presto, anche voi sarete inseriti nella società dei privilegiati, di coloro ai quali si ubbidisce e che non devono mai, dico mai, chinare il capo davanti a propri simili”.
Vedi: gli uomini delle classi superiori sono gli ufficiali, e gli operai sono i soldati del lavoro. Questo aforisma non è scritto ufficialmente da nessuna parte, ma è stampato a caratteri di fuoco nelle leggi di natura. Il soldato ha il dovere di combattere e, se necessario, morire per la sua patria, per i suoi ufficiali, che hanno il compito di impartire ordini e dirigere la truppa indistinta. Rifletti: ti è mai capitato di vedere anche una sola volta un generale combattere in prima linea e un soldato comandare l’esercito? La risposta è ovvia e non merita nessun commento. Anche nel regno animale le decisioni sono prese dai capibranco e gli altri ubbidiscono senza opporsi; noi siamo esseri evoluti e non lasciamo che sia la forza bruta a decidere chi comanda. L’uomo, generato per dominare il creato, ha stabilito una volta per sempre le regole di convivenza: il potere si trasmette in qualche modo per via dinastica, permettendo di tanto in tanto, per dare l’impressione ai sud… soldati/operai di poter aspirare a un possibile passaggio nelle classi privilegiate, la trasmigrazione dei più servili e meno pretenziosi nelle classi superiori. Se stupidi, l’operazione sarebbe perfetta!
Tuo padre»
La madre di Sgarrone
Aprile 29, sabato
Tornato alla scuola, subito una triste notizia. Da vari giorni Sgarrone non veniva più perché sua madre era introvabile. Circolavano voci strane su quella sparizione. Gli adulti facevano capannello e discutevano fitto fitto sottovoce guardandosi intorno quasi a circondare le parole di un’aura di mistero. Scorretti, che in fatto di pettegolezzi non era secondo ad alcuno, quella mattina alla ricreazione ci chiamò in disparte e disse:
«Vi devo mettere a parte di un segreto, prima che rientri Sgarrone.»
Ci guardammo tutti con aria interrogativa, cercando di intuire quale potesse essere questo segreto così segreto da non poterlo riferire davanti a tutti.
«Appuntamento in bagno!» Sentenziò Scorretti.
Uno dopo l’altro lasciammo l’aula per raggiungere gli altri. Quando arrivai, facevano già tutti corona a Scorretti, che si guardava intorno con aria circospetta per avvalorare la segretezza dell’informazione.
Quando fummo tutti presenti, ci trascinò in un angolo del bagno e ci disse con aria solenne: «Ho sentito, in una conversazione fra mio padre e mio zio Peppe. La madre di Sgarrone ha conosciuto un acrobata di un circo, e quando ha levato le tende e lasciato la città ha portato con sé una persona in più.»
Garuffa guardò perplesso l’amico e manifestò le sue difficoltà di comprensione: «Perché la mamma di Sgarrone ha deciso di lavorare in un circo? Se non ricordo male, non aveva particolari doti circensi. E cucinava anche male.»
Cilindri sembrava conoscere meglio degli altri il mondo e quali fossero le debolezze degli esseri umani adulti. Si fece largo nel mucchio selvaggio di compagni e, conquistata l’attenzione del giovane pubblico, sentenziò: «Non è andata a lavorare nel circo.» E guardò le reazioni dei compagni che continuavano a non capire. Si schiarì la voce e aggiunse: «Ha deciso di vivere la sua vita con quello del circo. È chiaro ora?»
Debossi, sempre pronto su altri terreni, chiese, fingendo di avere capito: «E perché non ha portato con sé anche il figlio? Magari si sarebbe anche divertito.»
Cilindri cercò di prolungare il più possibile la soddisfazione di un Debossi che non aveva ben capito. Scosse il capo con palese commiserazione e batté la mano sulla spalla dell’ingenuo e poco sveglio compagno, almeno in quel campo: «Caro Debossi, la signora Sgarrone ha deciso di non essere più la signora Sgarrone. Mio zio ha detto che si tratta di ‘fuga d’amore’: la mamma del nostro compagno ha deciso di risposarsi con un altro uomo. L’uomo del circo.»
Lentamente il gruppetto si sciolse, anche perché aveva fatto la sua apparizione Posapiano per capire quale fosse la causa di quell’assembramento. Rientrammo in classe mesti, senza trovare una motivazione adeguata a quanto successo. Nel corridoio percepii la maestra Ragnatela Epifania parlare con delle colleghe: «Non c’è più moralità. Come può una moglie e una mamma fare questo? Dio la punirà per tutto il male che sta facendo.»
Alla ripresa della lezione il maestro ci disse: «Al povero Sgarrone è toccata la più grande disgrazia che possa colpire un fanciullo. Gli è morta la madre. Domani egli ritornerà in classe. Vi prego fin d’ora, ragazzi: rispettate il terribile dolore che gli strazia l’anima. Quando entrerà, salutatelo con affetto, e seri: nessuno scherzi, nessuno rida con lui, mi raccomando.»
Ci guardammo perplessi per questa nuova e diversa versione di Percattivi. Capimmo più tardi che la scusa doveva valere per noi e, soprattutto, per Sgarrone, perché gli adulti erano convinti che non avremmo capito o che, peggio, saremmo stati ‘sporcati’ da notizie indecenti. Meglio morta che adultera: questa era la logica della cosiddetta gente perbene.
Avevamo ormai capito tutto, anche per le mezze parole che gli adulti si lasciavano sfuggire per il gusto del pettegolezzo; avevamo capito e accettammo di fingere, di partecipare a quella macabra e surreale commedia. Che danni commettono gli adulti quando cercano di proteggere i giovani dalle brutture della vita.
Bacco Tirabusciò conte di Calvados
Aprile 29, sabato
A Sgarrone pesava ancora la scomparsa della madre, anche se sembrava aver intuito la verità; ma non voleva parlarne per non lasciarsi coinvolgere in discussioni sostanzialmente incentrate sullo sfottò, con tutta la ferocia che solo i bambini sanno mettere in campo. Fatti due rapidi calcoli il giovane si era reso conto che gli conveniva far finta di non conoscere l’amara verità per speculare biecamente sulla situazione. Da quando la mamma era ‘morta’, aveva usufruito della solidarietà e della gentilezza di tutti, e non pochi avevano accompagnato questi sentimenti con regali tendenti a colmare la mancanza d’affetto che l’allontanamento di una madre causa. Fra noi c’era un tacito accordo a non fare cenno all’episodio, anche perché ormai a tutti era chiaro come realmente erano andate le cose. Però…, però eravamo tutti bambini e ci bruciava un tantino che per una cosa così banale il nostro amico fosse colmato di regali. Mi capitò una volta di sentire Pronobis affermare sconsolato: “Perché mia madre non fa come la signora Sgarrone? Andrebbe bene anche per qualche mese soltanto, il tempo necessario per fare il pieno di giocattoli.”
Eravamo anime semplici e non sapevamo valutare l’impatto di determinate scelte da parte degli adulti.
Il maestro, fedele al ruolo di consolatore educativo, non poteva esimersi dal processo consolatorio, anche se avevo la netta impressione che non gli importasse granché della scappatella della madre del suo alunno. Ma come si dice: bisogna salvare le apparenze. E quando Percattivi si metteva in testa di toccare tutti i tasti dell’emozione, riusciva a farlo meglio di De Amicis, che impanava la bontà con lacrime e sangue. «Figlio mio, l’esistenza è una prova continua di dolore e tristezza. (Le parole andavano citate insieme, anche perché sarebbe bastato aggiungere nel miscelatore dei sentimenti il termine amore per creare il giusto pathos strappalacrime che sempre ha puntellato ogni imbroglio politico e sociale.) I grandi uomini che hanno costruito il nostro Paese e che hanno dato impulso alla nostra cultura spesso hanno pagato prezzi altissimi. A tutti, prima o poi, viene presentato il salato conto della vita. Ora il fato ha scelto te, mio caro ragazzo, domani sarà un altro a patire le tue terribili pene (vi lascio immaginare i gesti della classe in risposta alla considerazione del maestro). Fa uno sforzo, e scrivi anche tu quello che io detto.»
Tutti pigliammo la penna. Il maestro dettò. «Bacco Tirabusciò conte di Calvados, nato in una piccola baita fra l’Italia e la Francia intorno al 1930, riuscì con la sua indiscutibile intelligenza e la sua scaltrezza ad assicurarsi un’invidiabile posizione nel pantheon dei padri della patria. Fin da piccolo mostrò le sue indubbie qualità socio/politiche facendosi nominare capoclasse corrompendo i compagni che ne chiesero all’insegnante l’elezione. Qualche anno dopo, facendo la staffetta, ora per i fascisti ora per i comunisti, riuscì a massimizzare come pochi il privilegio di stare sempre con i vincitori. Poiché non poteva spendere il proprio cognome, decise di farsi chiamare Giampalla Panzone (un nome comune, un nome anonimo, un nome adatto sia ai fascisti sia ai comunisti, un nome da traditore). Unica variante fu di scambiare il nome con il cognome. Per i comunisti Giampalla Panzone, per i fascisti Panzone Giampalla. Un genio! Le notizie sulla famiglia sono vaghe e talvolta contraddittorie, ma le informazioni, accettate come credibili, fanno riferimento a una mamma che lo abbandonò quando era ancora in fasce per seguire un soldato spagnolo della legione straniera, tal Pedrito Calvados, distintosi nelle repressioni degli oppositori in Marocco. Il piccolo fu affidato alle cure di un rude montanaro produttore di turaccioli di sughero, chiamato simpaticamente Tirabusciò perché per ogni tappo che produceva stappava una bottiglia di barbera. Partecipò alla formazione di tutti i governi democratici. Messo in naftalina il fittizio nome di Giampalla Panzone o Panzone Giampalla, scelse, per onorare il suo albero genealogico, Bacco Tirabusciò conte di Calvados. Sua madre riapparve quando fu nominato ministro della conciliazione sociale. L’ormai maturo conte di Calvados non si lasciò intenerire e, poiché la donna insisteva minacciando di rendere pubblica la parentela, la fece rinchiudere in un tempio tibetano, dove il precetto del silenzio era ferreo ed era garantito da incredibili lottatori di sumo con la pessima abitudine di posare le loro pesanti natiche su chiunque tentasse di violare la regola. Quella mamma fu accudita come meglio non si poteva e mai quell’uomo, al quale la nazione doveva molto, venne meno al suo dovere di figlio. Mai più avrebbe visto sua madre, una madre persa, ritrovata e di nuovo persa. Gli uomini di grande tempra sanno reagire alle traversie della vita con forza e coraggio.
Le mamme vanno e vengono, ma il ricordo nei figli rimane imperituro. Non dimenticarla mai e lei sarà accanto a te nelle difficoltà della vita.»
Sgarrone sembrò rinfrancato dalle parole di Percattivi. Si passò il dorso della mano sotto il naso, tirò su rumorosamente per rendere il suo dolore più evidente, e annuì verso il maestro.
«Vedete bambini quanto aiuta il volgo trovare i giusti riferimenti fra i nostri illustri predecessori. Il nostro tempio della memoria è ricco di figure meritevoli di ricordo e a essi dovremmo fare riferimento per trovare le risposte adatte ai nostri problemi. Sono veri e propri angeli custodi, oltreché ispiratori di comportamenti virtuosi. Seguite l’esempio di uomini come Bacco Tirabusciò conte di Calvados, al quale la nazione deve, fra i tanti interventi legislativi, la legge sul controllo degli incroci con e senza semaforo per tenerli liberi dagli invadenti extracomunitari.»
Valor civile
Racconto mensile
Al tocco eravamo col maestro davanti al Palazzo di città per veder dare la medaglia del valor civile al ragazzo che salvò la maestra Scolastica Sapiente dall’assalto improvviso di un cane frutto di una pazzia da laboratorio. Il dottor StraneusPerversus nel suo laboratorio nelle viscere del Monte Inferno nella Catena dell’Apocalisse aveva prodotto una strana razza canina con un incrocio fisico/genico tra un pastore fonnese, un bulldog americano, un doberman, un pitt bull, un rottweiler, cellule staminali di pastore maremmano bipede incazzato e un carovaniere sahariano. Il risultato, non ancora omologato dalle associazioni cinofile, fu una vera e propria arma letale, in grado di mangiare quantità industriali di cibo in poco tempo e imprecare in toscano stretto. La bestia, a dire il vero, non era aggressiva, ma diventava invadente fino alla nausea se sentiva odore di cibo. La fase di… attacco iniziava con una sorta di guaito che riempiva di terrore chi non conosceva quello strano incrocio e proseguiva con l’assunzione di una rigida posizione corporea, con la coda e la testa a formare un’unica linea con il dorso. Per questa fame insaziabile il professor Straneus lo chiamò Cannibal Lester XXXVI (il numero era legato alla quantità d’incroci non riusciti e che si erano dimostrati veri e propri flop). Quell’unico esemplare era stato venduto alla farmacista Pillola Supposta per far la guardia alla villa familiare. Il cane quella volta fu un fallimento vivente: la villa veniva rapinata con regolarità mensile, e il cane tacitato con qualche sacchetto di croquette e quantità notevoli di avanzi, mai disdegnati da quell’albero di natale genetico, dei pranzi dei rapinatori. Vista nulla l’efficacia della bestia come cane da guardia, non restava che tentare di farlo almeno sfamare dalla collettività, sistemandolo a mo’ di nano da giardino davanti alla farmacia. Non faceva la guardia, ma richiamava l’attenzione per la stranezza del corpo così male assemblato, favorendo l’acquisizione di qualche cliente incuriosito.
La maestra Scolastica non conosceva Cannibal e si lasciò condizionare dall’aspetto infernale della bestia. La donna era appena uscita dalla macelleria con una busta contenente un chilo di bistecche di chianina, una rollata di maiale e mezzo agnello da latte. Aveva ospiti di riguardo e non voleva fare brutta figura. Scoprimmo dopo che aveva invitato a cena un vecchio spasimante rimasto vedovo di recente. Il cane si lasciò guidare dal suo istinto primario: seguire il cibo. La busta che conteneva la carne divenne in una frazione di secondo l’unico obiettivo di Lester XXXVI che si fiondò sulla donna alla ricerca del cibo. Scolastica Sapiente lanciò un urlo devastante che per un momento bloccò l’assalto ruspa del cane. L’onda sonora scosse l’intera via e ogni attività s’interruppe d’incanto. I negozianti si sporsero dalle botteghe, le donne si affacciarono ai balconi, Posapiano fece capolino sull’ingresso della scuola: tutti volevano capire l’origine di quel grido disumano. La scena che si presentò fu di grande impressione: la maestra era caduta lunga distesa per terra e il cane la leccava cercando di convincerla a cedere qualche pezzo di carne. La donna lanciava grida isteriche e il cane mugolava in modo quasi umano, sembrava dicesse “Maremma maiala”. Certo per i più era un’imprecazione, ma per chi conosceva quello strano essere il significato era chiaro, il cane si riferiva alla rollata di maiale dentro la busta. Tutti guardavano, commentavano, ma nessuno cercava di portare aiuto alla povera maestra Sapiente. Quando la situazione sembrò degenerare e la donna venne percorsa dalla lingua della bestia come fosse un lecca-lecca, un alunno di quinta, Recupero Astuto, nipote della farmacista e perfettamente a conoscenza delle tendenze pantagrueliche dell’animale, prese il suo panino con mortadella dallo zaino e si precipitò verso il cane che lo riconobbe e gli corse incontro festoso. Il bambino e il cane diedero luogo a uno scontro di lotta greco/romana, nel quale il premio era il panino con mortadella IGP Bologna. Posapiano aiutò la maestra a sollevarsi ed entrare nella scuola prima che quel mostro genetico l’assalisse e la derubasse del filtro d’amore acquistato nella macelleria del signor Marcello Trippa. Afferrato il panino IGP Cannibal ritorno ad accucciarsi vicino all’ingresso della farmacia. Il ragazzo nella tenzone ci rimise la tasca destra del grembiule, si arruffò la capigliatura e sciolse il rosso fiocco che gli pendeva dal colletto bianco; nel rotolarsi gioiosamente con Lester aveva subito un’evidente sbucciatura al ginocchio sinistro che mostrò ai compagni e agli insegnanti come una ferita di guerra. Alcuni compagni sapevano che nell’azione non c’era stato alcunché di eroico, ma gli adulti elogiarono quell’intervento coraggioso. A spingere sulla versione eroica fu soprattutto la maestra Scolastica Sapiente che raccontò ai colleghi del pericolo corso; a ogni passaggio la storia diventava sempre più truce. Quando Felice Crudele, l’ex insegnante per ciechi, espose l’accaduto al dirigente scolastico, le leccate alla ricerca di cibo divennero morsi e l’intervento del ragazzo di quinta fu descritto come provvidenziale perché riuscì a impedire che i denti della bestiaccia producessero danni irreparabili.
Guido La Baracca convocò quello che ormai era diventato un eroe, lo guardò e gli posò una mano sulla spalla, come si fa tra veri uomini: «Giovanotto, quello che hai fatto oggi è stato un atto generoso e coraggioso, degno di plauso e di pubblica menzione. Conosco persone che contano all’interno del consiglio comunale: muoverò le mie pedine perché il tuo gesto sia premiato. Vai pure in classe, saluta la tua insegnante e ringraziala da parte mia per il senso civico che è riuscita a trasmettervi, e quando andrai a casa dì ai tuoi genitori che il capo d’istituto ha elogiato il tuo intervento.»
L’alunno percorse i corridoi con passo fiero, salutando con ampio gesto della mano, vagamente papalino, compagni e adulti.
Fu l’eroe della giornata. Archiviò l’episodio come un divertente passatempo e per qualche giorno non ci pensò più. Almeno fino a quando un cronista della Gazzetta Metropolitana, informato dell’accaduto, non si recò a intervistare l’eroico bambino. Il colloquio con il giornalista Elzeviro Manchette si tenne nell’ufficio del dirigente. Le domande si limitarono a banalità tipo: «Hai avuto paura?», «Lo rifaresti?», «Pensi che tutti dovremmo mostrare maggiore solidarietà con chi è in pericolo?» Annotato sul taccuino il nome dell’alunno, salutò il dirigente, arruffò i capelli del prode (che pensò che questa delle mani dei capelli fosse una pessima abitudine perché gli scompigliava il capolavoro tenuto su con gelatina del suo barbitonsore) e se ne andò.
L’indomani la Gazzetta pubblicò un articolone sul piccolo eroe con un richiamo addirittura in prima pagina (ironia: una manchette). Tutti gli insegnanti arrivarono a scuola con il giornale e nei corridoi ne commentarono gli sviluppi pubblicitari favorevoli alla scuola. Si viveva ormai in regime di concorrenza spietata con le altre scuole e i bambini erano diventati clienti da blandire.
«Quell’atto eroico è stato il classico colpo di c… fortuna.» Rilevò con la solita signorilità e delicatezza Ercoatto.
L’articolo sortì anche un effetto secondario: le autorità cittadine, nella persona del sindaco Vario Trombone, pensarono potesse essere una bella idea premiare il bambino autore del salvataggio, anche perché gli spin-doctor avevano rilevato un calo di consensi e l’operazione buonista poteva far lievitare il gradimento a favore del primo cittadino e del suo partito. A ben guardare quel banale incidente portava dei vantaggi a tutti. La scuola accresceva la sua popolarità, il giornale vendeva più copie, il sindaco migliorava la sua posizione elettorale, il piccolo Recupero Astuto avrebbe goduto del suo quarto d’ora di notorietà. Insomma, anche se alla base di tutto vi era un episodio non proprio intrepido, nessuno aveva di che lamentarsi.
La cerimonia, manco a dirlo, fu predisposta nel cortile del Palazzo Comunale, dove era stato allestito un grandioso palco riccamente addobbato con fiori e bandierine colorate, nazionali e del partito di maggioranza. Le finestre intorno al cortile erano abbellite con drappi riportanti lo stemma del comune. Gli organizzatori avevano fatto un lavoro egregio, coadiuvati in modo eccellente dai suggerimenti di esperti di marketing e di occhiuti spin-doctor. Erano presenti ben due bande musicali che rendevano piacevole l’attesa (la Giuseppe Verdi diretta dal maestro Vittorio O’Karin e la Paulinho Dominguinhos do Nascimiento [1] dal maestro Sereno Sottotono di Trombetta di Sotto che si alternavano in attesa che arrivassero il festeggiato e il sindaco/premiante).
Vedemmo la folla scostarsi e applaudire al passaggio di qualcuno. Era il nostro eroe, accompagnato dai genitori ingoffati in abiti nuovi da grandi magazzini; la signora sfoggiava anche un collo di pelliccia prestatole da una vicina di casa che lo utilizzava per combattere il freddo in un deposito di pesce surgelato. Un profumo alla violetta sparso con generosità ne nascose decentemente l’abbraccio marino. Le bande intonarono, si fa per dire, un brano forse marziale scritto per la guerra delle Malvinas da Dominguinhos. Il pubblico riuscì ad apprezzare quella fantastica cacofonia suonata con brio e libertà creativa dai settanta elementi delle due bande e diretta in tandem dai due maestri, senza che la cosa creasse la minima difficoltà. Due auto dei pompieri, schierate ai lati dell’ingresso al palazzo comunale, s’inserirono allo strepito musicale con le sirene in sequenza correttamente disarmonica. Il comandante dei vigili, pomposamente vestito, commentò: «Per fortuna che le sirene hanno portato un tantino di equilibrio musicale. Era come se le note mi assalissero da tutte le parti e fossero lanciate da un cannone in veloce rotazione.»
Il vice annuì, perché i superiori hanno sempre ragione e aggiunse: «Lei è il comandante e capisce, innegabilmente, più di me. Devo, però, ammettere che, con tutta la buona volontà, non riesco a capire se quelle note siano rumore o musica. Ma capisco che la differenza la fa il livello sociale di chi ascolta e commenta.»
Il comandante si lisciò i sontuosi baffi neri, guardò con compatimento il subalterno e annuì lentamente movendo il capo. «Vero, essere superiori ha il suo peso. Mi vedo costretto a confessare che talvolta anch’io ho qualche difficoltà a capire la bellezza della musica di Paulinho Dominguinhos do Nascimiento. Ma se gli esperti dicono che si tratta di arte geniale, non può che essere così. I critici studiano, analizzano, anatomizzano, sviscerano, discettano e scrivono ponderosi volumi. Se affermano che un autore, pur incomprensibile e apparentemente pasticcione, è un artista, non può esserci dubbio alcuno. L’arte non è una cosa facilmente comprensibile, solo un critico può descriverci la bellezza di un’opera e farcela godere fornendoci le giuste chiavi di lettura.»
La dotta conversazione fu interrotta da una serie di evviva e da prolungati applausi. Stava facendo il suo ingresso il sindaco Vario Trombone, noto per essersi schierato con tutti i partiti presenti in città e averne fondato personalmente ben cinque, tutti con l’intento, sempre raggiunto, di farsi eleggere al soglio di primo cittadino. Salutò la folla che lo amava smodatamente e alla quale mai faceva mancare il sollazzo. Raggiunse con baldanza giovanile, nonostante i suoi 85 anni, il palco e invitò il piccolo Recupero a raggiungerlo. Le due bande emisero un lungo e straziante stridio che terminò con un incredibile rullo di tamburi.
Le bande cessarono di suonare, il Sindaco fece un cenno, tutti tacquero. Cominciò a parlare. Le prime parole non le intesi bene; ma capii che raccontava il fatto del ragazzo. Poi la sua voce s’alzò, e si sparse così chiara e sonora per tutto il cortile, che non perdetti più una parola.
«Dal balcone dell’aula vide la maestra, tanto stimata e amata da genitori e alunni, tentare di resistere all’attacco di un ferocissimo cane, che sembrava avesse tutta l’intenzione di procacciarsi la colazione. La donna urlava, chiedeva aiuto, ma l’aspetto poco raccomandabile della feroce bestia faceva esitare financo i più coraggiosi. Il risultato dell’assalto sembrava già scritto, quando il giovane alunno decise d’intervenire. Si precipitò giù per le scale, travolse il bidello che tentava di fermarlo per proteggerlo da sbocchi fatalmente sanguinosi. Con coraggio e tempestività si slanciò sulla fiera e la ghermì per il collo. Rotolarono più volte sulla carreggiata fra l’orrore delle persone presenti, certe dell’esito infausto dello scontro. La maestra riuscì, sia pure con qualche comprensibile timore, a mettersi in salvo raggiungendo l’androne della scuola, mentre il nostro eroe cercava di aver ragione di quell’animale inferocito. Con l’audacia disinteressata e incosciente propria dei bambini il nostro ebbe la meglio su quell’essere diabolico e come S. Francesco con il lupo riuscì persino ad ammansirlo.
Bello, venerabile è l’eroismo nell’uomo. Ma nel fanciullo, in cui nessuna mira d’ambizione o d’altro interesse è ancor possibile; nel fanciullo che tanto deve aver più d’ardimento quanto ha meno di forza; nel fanciullo a cui nulla domandiamo, che a nulla è tenuto, che ci pare già tanto nobile e amabile, non quando compia, ma solo quando comprenda e riconosca il sacrificio altrui; l’eroismo nel fanciullo è divino. Non dirò altro, signori. Non voglio ornar di lodi superflue una così semplice grandezza. Eccolo qui davanti a voi il salvatore valoroso e gentile. Avvicinati, ragazzo.»
Lo strinse a sé in un affettuoso abbraccio. Saluto con calore il padre e la mamma e aggiunse: «Il futuro è dei giovani, e il vostro figliolo saprà trovare la sua giusta strada, aiutato dal suo grande cuore. Noi siamo qui a celebrarne il coraggio e saremo pronti fra una ventina d’anni a cedere il nostro posto a giovani promettenti come vostro figlio. Noi governiamo per loro, per rendere più sereno e sicuro il loro futuro. Avrei potuto, come tanti altri, rinunciare e godermi tranquillamente la meritata pensione e qualche piccolo risparmio messo in banca per la vecchiaia, ma sono rimasto al mio posto, e ci rimarrò fin quando sarà necessario, almeno per un altro ventennio, quando gli attuali giovani cinquantenni avranno l’età e l’esperienza giusta per governare. I miei avversari mi accusano di essere affezionato al potere. Si tratta d’invidia e di volgari calunnie. Rinuncerei volentieri se il popolo non mi amasse come mi ama e se all’orizzonte ci fosse un leader in grado di sostituirmi. Purtroppo sono costretto a restare per fare il vostro bene, e, soprattutto, perché siete voi a chiedermelo.»
Un applauso prima stentato poi sempre più convinto fece da controcanto a quel coinvolgente discorso. Qualcuno, in malafede, disse che una serie di telecamere, dotate di potenti grandangolo, puntate sulla folla e gestite dall’entourage politico del sindaco abbia contribuito a trascinare la folla all’entusiastico applauso. Ma si trattava d’illazioni meschine e maligne messe in giro dai partiti dell’opposizione invidiosi e perfidi.
Il Sindaco prese sul tavolo la medaglia e l’attaccò al petto del ragazzo. Poi lo abbracciò e lo baciò. La madre si mise una mano sugli occhi, il padre teneva il mento sul petto.
Dal tavolo, ricoperto dalla bandiera nazionale, prese un tablet e lo consegnò al ragazzo. «Questo straordinario oggetto della moderna tecnologia è stato offerto dalla ditta ‘I tuoi desideri saranno realtà se te li puoi permettere’, sensibile alle esigenze del mondo giovanile non ha voluto mancare a questa premiazione. Sono sicuro che ti supporterà magnificamente negli studi. Grazie piccolo giovane eroe, grazie in nome di tutta la città che rappresento.» Strinse nuovamente la mano ai genitori, scarmigliò il capo di Recupero Astuto (ancora uno che attentava al capolavoro del barbiere Ricciolo Pelato) e salutò la folla con ampi gesti della mano, alla maniera dei campioni sportivi. Un boato, immortalato da uno stuolo di telecamere HD (fornite dalla ditta ‘I tuoi desideri ecc.), salutò l’uscita di scena del primo cittadino. Il piccolo lasciò trionfante il cortile del palazzo comunale, applaudito dalla folla e dai compagni ai quali rispose con una strizzata d’occhi allusiva.
[1] Correva l’anno 1982, 26 aprile, quando il grande compositore brasiliano Paulinho Dominguinhos do Nascimiento, in una notte di riflessione per il mondo intero perché i telegiornali diffondevano la notizia dell’affondamento dell’incrociatore argentino ARA General Belgrano nella breve guerra delle Falkland, compose la sua più grande opera. La prua, che ospitava un deposito di munizioni, colpita dal sottomarino nucleare Conqueror della Gran Bretagna, saltò per aria. Gli altoparlanti del televisore riportarono gli echi di quelle esplosioni e il geniale maestro sentiva quel susseguirsi disordinato di esplosioni trasformarsi nella sua mente in una nuova e straordinaria musica che violava ogni schema precedente. Essendo fra l’altro un appassionato fisico delle particelle trovò il modo di applicare alla musica la fisica quantistica, basata sull’imprevedibilità. Le deflagrazioni diventarono note sul pentagramma. Il maestro si sedette al pianoforte e provò a riprodurre quelle note sistemate alla rinfusa nel pentagramma. Fu un’esecuzione da officina metalmeccanica, nulla faceva pensare a un’esecuzione musicale. Paulinho assaporò il silenzio, guardò la tastiera, ripercorse sul pentagramma le note, si grattò il mento e accarezzò la fluente chioma: «Questa musica non è musica!» e il suo pensiero corse al dualismo onda-particella. Dopo un attimo di silenzio, riportano le biografie più accreditate, fu illuminato dalla soluzione. «Mio Dio, Dio mio (va ripetuto due volte in modo contrapposto per la storia del dualismo), ho inventato una nuova musica/non musica.»
Si pose il problema del nome, perché il nome influisce sul successo del prodotto. Passò in rassegna tutto quanto fino allora inventato, senza grandi risultati. Provò a immergere la testa in un secchio stracolmo d’acqua ghiacciata per schiarirsi le idee senza risultato; si massaggiò con due guantoni da boxe le tempie e ottenne un incredibile mal di testa; fissò per ore una parete bianca per liberare la mente: ci riuscì talmente bene che per il resto della giornata non ricordava più neanche il proprio nome. Stava per rinunciare quando SantipenhaBisbeticão, l’insopportabile moglie del maestro, l’apostrofò stizzita: «Sono 24 ore che vai avanti accordando quello stramaledetto pianoforte!»
L’uomo la guardò perplesso e, in un impeto improbabile d’affetto, le stampò un bacio sulla guancia. «Grazie, Santipenhuccia mia, grazie. Mi hai dato la risposta che cercavo da 24 ore appunto. Chiamerò la mia musica tetraicosafonica quantistica. Sarà composta di 24 suoni sistemati alla rinfusa, sia in verticale sia in orizzontale. Sarà scritta in pentagrammi digitali che dovranno garantire l’assoluta causalità delle note che possono trovarsi contemporaneamente in due luoghi diversi. Grazie, Santi.» Nacque così la straordinaria musica tetraicosafonica quantistica. Spiegò la teoria nella sua opera teorica più importante: Cucù? Più avanti negli anni provò a spiegare ai suoi denigratori incapaci di riconoscere un genio nel testo, ormai considerato il sacro Graal della musica moderna, ‘Vola Gigino, vola Gigetto, torna Gigino, torna Gigetto’.
La regola principale era non avere regole ed eseguire la musica con il famoso sistema ‘a capocchia’. Oltre che per avere creato la musica del futuro, divenne famoso per l’opera sinfonica ‘Come la va, la va’, nota per le libertà interpretative concesse ai direttori d’orchestra e a ogni singolo musicista.
I bambini rachitici
Maggio 5, venerdì
Mia madre mi portò in via Dell’Apparenza, dove era stata aperta una scuola molto particolare: i bambini e le bambine erano istruiti nell’arte dell’apparire. Era una scuola molto particolare e agli allievi erano impartite nozioni sul modo più efficace per inserirsi nel difficile mondo dello spettacolo senza avere particolari talenti. La Scuola per veline e tronisti Mario La Sola in pochi anni aveva visto molti suoi allievi percorrere la strada del successo. Tina Evanescente, la nota velina della trasmissione ‘Siamo tutti nullità’, riusciva a trascorrere fino a tre ore senza dire una sola battuta, una sola sillaba, una sola interiezione. Tutti sono in grado di dire anche soltanto il proprio nome, lei passava imperturbabile nello spettacolo senza lasciare traccia di sé, una vera record-woman. Per non parlare della granitica e marmorea Lucia Tombale che riuscì durante la Disfida della Pallonata (prevedeva il lancio di una bomba a mano a basso potenziale nel campo avversario, dando la vittoria a chi fosse rimasto incolume alla fine dei lanci) a non muovere un solo capello dell’ardita costruzione architettonica che la pettinatrice Carmelina La Zeppa le aveva costruito, con sprezzo del pericolo e della fisica, sulla testa. Figurarsi parlare: neanche a parlarne! Decine erano i tronisti sfornati da quella scuola e tutti artisticamente muti che avevano raggiunto la notorietà partecipando alle più note trasmissioni televisive. Fra tutte fece scalpore l’esibizione di Muto Costante. Il tronista, nonostante i tentativi devastanti di un folto gruppo di ciarliere mondine del Polesine in divisa da lavoro di farlo parlare o, perlomeno, coinvolgerlo nei loro canti popolari, tenne botta alla grande. Dalla sua lavoravano il totale vuoto culturale e una scarsissima conoscenza della lingua italiana di base. Raccontava, e ne andava fiero, che la famosa Università dello Stato d’Incoscienza lo sottopose a svariati esperimenti per capire a cosa fosse dovuta la sua insensibilità cerebrale e la sua capacità di tacere immobile per ore e ore. Il risultato fu straordinario: il suo cervello, mistero della scienza, era come immerso in un ambiente sotto vuoto. Il professor Cervelli affermò che lo spazio lasciato libero dal cervello consentiva a Costante di riempirlo con dosi notevoli di stupidità. L’università gli propose un contratto a vita per mostrare agli studenti come si presenta un cervello nel vuoto assoluto. Muto Costante non si smentì: alzò le spalle per indicare forse perplessità, mosse impercettibilmente il capo senza indicare la sua volontà, con la mano fece un cenno che sembrava volesse procrastinare la decisione. Ma non parlò, restando fedele all’immagine di tronista di marmo che si era costruito con anni di feroce applicazione. Le malelingue affermarono che la cosa non gli costasse molto sacrificio perché quel modo di essere gli era connaturato.
Era, insomma, una scuola all’avanguardia, un modello per chiunque avesse voglia d’intraprendere la dura e difficile carriera del muto televisivo.
Mia madre m’impedì di entrare per non lasciarmi impressionare da quelle terribili immagini di bambini e bambine stressati da burberi insegnanti che imponevano modelli di comportamento degni di un convento Certosino di San Bruno di Colonia (aveva tra le sue regole principali il silenzio quasi perpetuo).
Mia madre era andata lì per raccomandare una bimba del portinaio con la fissa dell’apparire in televisione come velina. Lei era solita dire: «Se riesce Maria Adelaida Ovattata a tacere, posso riuscirci io che non so mai cosa dire.»
Il portiere insistette fino allo sfinimento con la mamma che decise di occuparsi della cosa in prima persona, giacché la direttrice era stata sua compagna di scuola e che l’istituto per veline e tronisti aveva usufruito di un prestito agevolato, manco a dirlo erogato dalla banca di mio padre.
La mamma mi fece accomodare nel salottino all’ingresso e mi tenne quasi un sermone prima di farsi inghiottire dall’edificio scolastico.
«Caro Enrico, non tutti nascono fortunati come te che puoi fin d’ora scegliere cosa fare da grande, e per il peso economico della tua famiglia e per le amicizie strette con i potenti dai tuoi genitori. Altri, invece, devono ingegnarsi per evadere dal mondo dei lavoratori manuali, dalla precarietà di un posto di lavoro in nero, dall’impossibilità di sognare un lavoro diverso. A questi disperati viene offerta una sola possibilità: il mondo della televisione. Certo per battere quella strada occorrono doti fisiche discrete perché la selezione era basata esclusivamente sulla ‘bellezza’. (Concetto elastico, ricavato dai ‘mi piace’ di Facebook, dalle telefonate più o meno entusiastiche alle pr delle televisioni, dal giudizio insindacabile di segretarie tuttofare e producer senza scrupoli. Sulla scelta delle veline influiva, inevitabilmente, il parere vincolante del proprietario della stazione televisiva.)
È tutta lì la questione: sei bella/o, puoi giocarti la tua chance; sei brutto o poco piacente, ti conviene cercare altre strade, magari là dove serve il talento (in questo caso per chi pensava di fare la velina o il tronista le opportunità erano quasi zero: non ci s’inventa del talento quando madre natura te ne ha deprivato volutamente).
Il loro mondo, fino al momento del debutto, è fatto di allenamenti al silenzio e al sorriso; per le donne sono inoltre previsti semplici sgambate e movimenti provocanti degli arti inferiori. Mai un riposo, mai la possibilità di leggere un libro o vedere un film di un certo spessore culturale. Il motto della scuola, infatti, è ‘La cultura uccide la spontaneità e le giuste ambizioni televisive dei giovani’. Puoi capire gli sviluppi di queste imposizioni. La direttrice Sorella Sorriso (avevano scelto la forma conventuale per dare maggiore affidabilità alla scuola), con un passato da velina ‘prequel’ nella trasmissione ‘Ehi, ci sono anch’io!’ condotto dal grande Cioch Cabernet, era solita sostenere che i libri facevano vacillare quelle già deboli menti, in equilibrio precario fra ‘io e noi’. Per avvalorare la sua tesi sulla difesa dell’ignoranza delle origini cita con dovizia di particolari, ammaestrandola, la tesi sulla scrittura di Socrate riportata da Platone nelle sue opere. Parlava del dio Theuth e del re Thamus. Raccontava della diffidenza di Socrate per l’alfabeto che avrebbe reso gli uomini meno colti ‘perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché, fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di sé stessi, ma di fuori, attraverso segni estranei’. ‘Se aveva sbagliato il dio Theuth nel donare all’uomo la scrittura, l’uomo moderno con la sua intelligenza può porvi rimedio’, è solita ripetere.
La storia pur breve della scuola dell’apparire (era stata fondata con la nascita delle TV private) è stracolma di aneddoti. Si racconta che alla vigilia di un’importante selezione di veline per Badania Tv la direttrice scovasse in un ripostiglio un’allieva poco più che quindicenne leggere al lume di una torcia Cuore di E. de Amicis. Lo scandalo rischiò di far fallire il progetto della scuola: leggere un libro era considerata (e giustamente) un’azione pericolosa e riprovevole, poteva instillare idee sovversive nelle deboli menti dei giovani. Leggere un libro di buoni sentimenti era la cosa peggiore in assoluto: ispirava sentimenti di solidarietà verso gli altri e smorzava la giusta carica agonistica nella lotta per un posto nel mondo dello spettacolo.
‘Chi legge avvelena anche te, digli di smettere!’ È la frase derivata da una ‘pubblicità progresso’ che ben si accorda con le linee generali della scuola dell’esteriorità ed è stata incisa su una lastra di marmo di Carrara in caratteri d’oro all’ingresso dell’edificio.
Più grave fu l’episodio che rischiò di finire in tragedia e che coinvolse a vario titolo un’intera classe e alcuni insegnanti (quello d’Immobilismo muscolare, quello di Sorriso coatto, quello di Lecchinismo applicato). Era la vigilia di Natale di qualche anno fa e si stava preparando lo spettacolo natalizio che prevedeva un tronista Babbo Natale in divisa rossa d’ordinanza seduto su una slitta e l’intera classe di veline in succinti vestitini rossi con i bordi rifiniti con fili d’oro e d’argento. Per la prima volta si era tentato di dare alla cosa un tocco di cultura e classicità. L’architetto e designer Manuel Dorico Prostilo rispolverò l’utilizzo dei festoni di matrice greca. (Roma, plagiaria come suo solito, riutilizzò l’uso di festoni scolpiti, rappresentanti fiori e frutta, anche nei templi cristiani. Quella tradizione apparentemente caduta in disuso fu riportata in auge per ricordare la marcia su Roma dall’archeologo Giacomo Boni, ispiratosi alle ghirlande dipinte da Mantegna, Fasolo e Della Robbia e da buona parte dei pittori del ‘400). Le ragazze provarono quei costumi somiglianti a una bancarella di frutta e verdura, e protestarono perché creava qualche problema nella fase di sculettamento. E non poche ebbero conseguenze legate al tipo di frutta e di verdure usate. La giovane Immacolata Candida ebbe in sorte una ghirlanda con pigne, noci, ananas che durante il movimento colpirono in modo pesante il corpo porcellanato della velina, costellandolo di violacei ematomi. La velina urlava a ogni sobbalzo della ghirlanda che le adornava il collo e la vita. Si stava pensando di utilizzare frutta meno pericolosa, quando l’architetto Prostilo fu colpito positivamente dall’effetto cromatico dei lividi e ordinò che tutte le veline impegnate nella coreografia natalizia sfoggiassero ghirlande simili a quella di Immacolata. Fu uno spettacolo di lividi e … imprecazioni. Ma la cosa peggiore avvenne quando il regista decise di assegnare una battuta di circa cinque parole a ciascuna velina. Fu una sorta di supplizio di Tantalo vedere quelle povere ragazze ripetere le parole stabilite che cambiavano a ogni ripetizione. Luce Nebbia doveva ripetere: “Babbo Natale porta i regali ai bimbi.” La frase divenne: “Il babbo di Natale porta in regalo il Bimby.”; “Babbo regala ai bimbi un pacco di regali.”; “Babbo Natale porta i reali ai bambi.”
Le urla del regista traumatizzarono a tal punto la giovane Nebbia che fu presa da una crisi inarrestabile di parlantina. Parlò a lungo. Recitò anche il monologo dell’Amleto in nepalese e vari versi della Tempesta dello pseudo Shakespeare in forma bilingue, tanto che fu spedita in un centro internazionale di psicologia applicata per cercare di capire come fosse potuto accadere che una persona, tenuta debitamente lontana da ogni forma di conoscenza, potesse mostrare contenuti culturali così vasti e precisi. Nelle proposte di soluzione furono menzionati i fantasmi degli autori dei testi, gli alieni e una strega del Piemonte pedemontano che avrebbe operato qualche oscuro sortilegio, richiesto da un ex fidanzato stalker che aveva commissionato magie alle maghe di mezza Italia. Un sacerdote della nascente religione del Pastafarianesimo (Flying Spaghetti Monsterism), quella che spiegava che l’Universo era stato creato dallo Spaghetto Volante dopo una colossale sbronza e il cui dio era costituito da spaghetti e polpette, provò a farla rinsavire con un suffumigio di un eccellente ragù bolognese, senza grandi esiti; l’unico risultato fu un’improvvisata spaghettata (con pasta di Gragnano: va da sé!) per sfruttare quella leccornia bolognese.
Pare che la giovane Luce Nebbia sia stata anche inviata in un tempio buddista dove tutti erano obbligati al silenzio e alla meditazione. Dopo una settimana i sacerdoti partecipavano al primo Karaoke del Monte Dhaulagiri e il capo spirituale del tempio MihSahKenonStazit formò il primo gruppo canoro, il Nepal Song, che divenne famoso con il suo primo CD Dal silenzio al Big Bang. Per ricreare l’effetto Big Bang erano stati coinvolti cinquanta tamburini e trombettieri di Oristano in grande spolvero, cinquanta bassi del Coro dell’Armata Rossa, venti bombaroli anarco/jihadisti di provenienza prevalentemente afghana, qualche decina di operai con il martello pneumatico in grado di creare un’onda d’urto da centocinquanta decibel ciascuno. Non pochi acquirenti di quel disco hanno lesionato la propria abitazione ascoltando la musica dei Nepal Song. Su Internet, nelle pagine di Wikipedia, si può leggere che in molti rave non usano più droghe, ma sparano a livello medio le onde sonore tibetane, e l’effetto è in sostanza lo stesso. L’ONU sta studiando la possibilità di inserire quella musica a ‘tutto volume’ fra le armi improprie più pericolose.
E sono tanti i casi pietosi che hanno visto coinvolti veline e tronisti. Che triste cosa! Mi venne su il pianto dal cuore a entrar là dentro. Erano una sessantina, tra ragazzi e ragazze… Povere ossa torturate dagli esercizi di postura! Poveri corpi costretti all’immobilità ‘artistica’!
“Ah! Enrico, quanto siete fortunati voi che per avere successo non dovete faticare diuturnamente con la speranza di poter sfondare in TV. Non scordare, quando ti capiterà di lamentarti perché non tutto va come tu desideri, quello che hai visto, la sofferenza che può provocare la strada verso il successo.
Tua Madre»
Sacrificio
Maggio 9, martedì
Mia madre è buona, e mia sorella Silvia è come lei, ha lo stesso cuore grande e gentile. Io stavo copiando ieri sera una parte del racconto mensile Dagli Appennini alle Ande, che il maestro ci ha dato a copiare un poco a tutti, tanto è lungo; quando Silvia entrò in punta di piedi e mi disse in fretta e piano: «Vieni con me dalla mamma. Li ho sentiti stamani che discorrevano: al babbo è andato male un affare, era addolorato, la mamma gli faceva coraggio. Ho capito che forse la prossima estate dovremo rinunciare alla vacanza alle Maldive, non per mancanza di denaro ma perché il babbo deve piazzare a qualche fessacchiotto un lotto di titoli tossici della Streptococcus Vis Italicus del fratello del megapresidente che in Val Virale produce, per una ditta arabo/americana, un nuovo medicinale capace di condizionare la volontà degli individui, fino al controllo totale delle altrui decisioni. Capisci che ci vuole del tempo per smerciare quei titoli pattumiera, perché devi trovare i polli che abboccano. Però non possiamo rinunciare alle nostre vacanze, anche perché io ne ho parlato con tutti gli amici. Giangi Spocchiosi ha già abbondantemente sparso dubbi e perplessità sulla mia vacanza, figurati se gli dico che non parto più e che mi devo limitare alla costa toscana. Mica siamo poveracci qualsiasi. La nostra ricchezza ci obbliga a vivere nel lusso, il nostro è un dovere sociale, sia verso i nostri simili sia verso gli inferiori che sognano guardando come vivono quelli con i soldi. Qualunque cosa dirò, devi tenermi bordone.»
Detto questo, mi prese per mano, e mi condusse da nostra madre, che si stava truccando per raggiungere le amiche al circolo del bridge (era l’impegno del giovedì e in quella sede era solita, con le sue più care amiche, affettare amici e conoscenti. Fra loro vigeva un sano principio democratico: sparlavano di tutti gli assenti senza distinzione alcuna.)
Silvia si avvicinò alla mamma e, con voce asciutta e infastidita, affermò: «Quanto ti dirò è il frutto di una discussione convergente e condivisa con Enrico. Riteniamo che per nessuna ragione al mondo si debba rinunciare alle sognate e meritate vacanze. Non possiamo, per il ruolo che la famiglia occupa nella società, davanti a compagni e conoscenti dire semplicemente che per quest’anno non si andrà alle Maldive ma in Toscana. Non possiamo, non dobbiamo rinunciare, qualunque cosa succeda.»
Mi guardò cercando consenso, ed io annuii convinto.
La mamma ci guardò perplessa: «Ragazzi, avete capito male. Il babbo, vista la crisi economica e le difficoltà delle banche, poiché quest’anno non era riuscito a rifil… a vendere le azioni più redditizie ai soliti tonni convinti di arricchirsi con facili guadagni, ha pensato di arrotondare le entrate piazzando dei titoli spazzatura che rendono moltissimo a chi li vende. L’operazione, per arrivare a buon fine, ha bisogno di tempi lunghi. Quando si ha a che fare con azioni spazzatura è necessario tessere la tela come un ragno paziente e aspettare: alla fine il pollo arriva se lo lusinghi nel modo giusto e se riesci a fargli balenare l’opportunità di guadagni favolosi senza pagare tasse. L’estate è il periodo più indicato per questo tipo di azioni finanziarie perché l’attenzione delle persone è allentata a causa del caldo e dell’aria festaiola che accelera con la bella stagione. L’esperienza insegna che le opportunità di vendita per i prodotti finanziari aumentano quando gli acquirenti sono soddisfatti del loro quotidiano. Cuor soddisfatto facilmente pelato. Non è un gran motto, ma rende perfettamente l’idea. Quindi non si va alle Maldive solo perché il babbo deve lavorare e non per mancanza di liquidità.»
«Ma in Maremma è una cosa da morti di fame, da gente con scarse risorse economiche. Di peggio c’è solo Marinella o Ladispoli.» Incalzò mia sorella con tono irritato.
«Beh, in fondo Silvia ha ragione. Andare in Toscana è un declassamento sociale mica da ridere. Abbiamo una posizione da difendere, non possiamo fare questa meschina figura da poveracci.» Aggiunsi anch’io seccato.
La mamma ci guardò amorevole e comprensiva; apprezzava, e non lo nascondeva, la nostra capacità di lottare per apparire e il non saper rinunciare al lusso e alle agiatezze.
E poi assicurò Silvia che aveva capito male, che non eravamo mica depressi economicamente, e fu allegra tutta la sera, fin che rientrò mio padre, a cui disse tutto. Ma la mattina successiva sedendo a tavola trovammo sotto il tovagliolo i biglietti aerei per un soggiorno esclusivo presso l’Hotel Emirates Palace ad Abu Dabi (Il pacchetto comprendeva viaggio aereo in prima classe, soggiorno nella Palace Suite da 680 metri quadrati, maggiordomo e autista sempre a disposizione, jet per escursioni in tutto il Medio Oriente.)
L’incendio
Maggio 11, giovedì
Questa mattina io avevo finito di copiare la mia parte del racconto Dagli Appennini alle Ande, e stavo cercando un tema per la composizione libera che ci diede da fare il maestro, quando udii un vocio insolito per le scale, e poco dopo entrarono in casa due pompieri, i quali domandarono a mio padre il permesso di visitar le stufe e i camini, perché bruciava un fumaiolo sui tetti, e non si capiva di chi fosse.
E mio padre mi disse, mentre giravan per le stanze: «Enrico, ecco un tema per la tua composizione: i pompieri. Provati un po’ a scrivere quello che ti racconto.
Rientravo da un’importante cena d’affari qualche tempo fa e passando davanti alla gioielleria Diamante del signor Corallo Rosso vidi un fumo spesso e acre uscire dal locale. Con altri passanti mi fermai per capire che cosa stesse succedendo e compresi immediatamente che c’era qualcosa che non andava, perché il fumo si stava facendo più spesso e qualche lingua di fuoco cominciava a lambire la vetrina. Col cellulare avvertii i vigili del fuoco dell’incendio in essere e in pochi minuti, potenza della tecnologia, udimmo la sirena annunciare l’arrivo dei prodi. In un battibaleno gli uomini ignifughi scesero dall’A.P.S. (auto pompa serbatoio). Il camion aveva un serbatoio di acqua con una pompa per spegnere le fiamme, dei respiratori contro il fumo, scale per raggiungere posizioni elevate.
Gli eroici vigili indossavano divise di tessuti ignifughi con strisce colorate visibili anche in situazioni di scarsa visibilità.
Nel giro di pochi minuti comparve sontuosa un’autoscala in grado di raggiungere postazioni fino a cinquanta metri e un mezzo polisoccorso con due medici e tre infermieri a bordo. Complessivamente davanti al locale in fiamme si ritrovarono venti operatori misti. E tutti a guardare quelle fiamme che guizzavano ormai allegre nell’ingresso e nella vetrina in attesa del comandante, che solo doveva e poteva ordinare l’inizio delle operazioni. Un simpatico e personalizzato ululato di sirena annunciò l’arrivo del capo e tutti i vigili si schierarono sull’attenti per salutare il loro superiore che avanzava con la sua jeep come il generale Clark nel suo ingresso vittorioso a Roma nel giugno del 1944. Salutò dall’auto in modo comicamente marziale e passò in rassegna le ‘truppe’ presenti, mentre le fiamme ricamavano una straordinaria colonna sonora fatta di sibili, crepiti, scoppiettii e lapilli. Dopo aver salutato con plateale semplicità gli astanti e distribuito amicali pacche sulle spalle, diede finalmente il via all’intervento. Gli uomini, efficienti e rapidi, collegarono le manichette e diedero immediatamente il via alla fase di spegnimento. Forse per le difficoltà causate dai materiali in combustione o per i ritardi nell’intervenire causati dalla filiera di comando, del Diamante era rimasto ben poco da salvare. Il proprietario lanciava alti gridi d’incitamento e d’incoraggiamento perché salvassero la sua attività. Lasciò perplessi il fatto che il signor Corallo non si lamentasse granché all’inizio dell’incendio e che iniziasse il suo interminabile cahier de doléances solo quando le fiamme avevano divorato buona parte della sua attività. L’acqua fece, sia pure con qualche lentezza, il suo dovere e le fiamme furono domate. La vetrina apparve devastata e priva di buona parte dei gioielli che facevano sempre bella mostra di sé e incantavano tutte le signore che erano solite soffermarsi con il naso quasi sul vetro. Il comandante dei pompieri si grattò confuso la testa: “Il fuoco distrugge ciò che è ignifugo, in casi eccezionali, quando le temperature sono molto elevate; i metalli possono fondere ma restano lì, non si volatilizzano. Nella mia lunga carriera non mi era mai capitato un caso simile: un vero e proprio processo di … sublimazione.”
Guardò interrogativo il signor Corallo: “I gioielli erano al loro posto quando è divampato l’incendio?”
L’uomo afferrò il fazzoletto e si asciugò gli occhi che poco prima aveva bagnato, non visto, con il contenuto di una bottiglia di acqua minerale. Piagnucolò sul suo miserrimo futuro: «Una vita di sacrifici letteralmente in fumo. Chi mi ripagherà della mia perdita? Avevo appena acquistato la nuova collezione di gioielli Cartier, qualche etto di smeraldi e rubini misti, e varie parure di Bulgari e Tiffany. Non parliamo dell’argento di cui avevo notevoli scorte. Tutto in fumo.» E giù a piangere disperato, anche se di tanto in tanto sbirciava attraverso le dita semiaperte, come fanno quelli che hanno qualcosa da nascondere.
Il comandante continuava a grattarsi il capo dubbioso. Si fosse trattato di un delinquente abituale, di una persona losca, qualche dubbio l’avrebbe avuto. Ma il signor Corallo era una persona perbene: era iscritto al Rotary cittadino, frequentava regolarmente le riunioni della parrocchia, si confessava tutti i sabati e si comunicava ogni domenica, donava alle associazioni di volontariato una sia pur piccola fetta del suo guadagno (i maligni dicevano che riusciva a scaricarsi più volte quanto donava dalla denuncia dei redditi, riuscendo a ottenere false fatture per false donazioni). Era, insomma un benemerito della società, un uomo dalla reputazione adamantina. Certo, se fosse stato un altro, qualche dubbio i vigili del fuoco l’avrebbero avanzato. Ma lui no, non poteva neanche averla pensata la furbata di nascondere i gioielli in un altro luogo e scatenare l’incendio per riscuotere l’assicurazione. Era una persona onesta e quell’odore di benzina che sembrava provenire dalle suppellettili bruciacchiate era solo una perdita dal motore dell’autobotte o della jeep del comandante. Questi confermò che l’auto in dotazione da qualche tempo manifestava problemi di carburazione e spargeva nell’aria un forte odore di gasolio incombusto.
Rimaneva la stranezza dell’oro, dell’argento e delle pietre preziose sublimate nel rogo e di cui non si trovava più traccia. Quello era un brav’uomo, ecc., ecc. Fosse stato un poco di buono… Ma tutti sostenevano fosse un sant’uomo dedito alle opere di carità.
Un pompiere decise di sfidare il pericolo e s’introdusse in quello che restava della gioielleria. Il fumo sembrava aver inghiottito quel prode. I colleghi lo seguirono con dei possenti getti d’acqua per proteggerlo dal calore ancora eccessivo che si sprigionava dagli oggetti combusti. Tra scaffali anneriti e semifusi, bancone ridotto a scheletro di metallo, vetri anti-sfondamento frantumati si mosse con professionalità estrema e riuscì a recuperare alcuni contenitori di bigiotteria (metalli semi-pregiati e pietre dure), qualche piatto d’argento e poche altre cianfrusaglie. Un rumore di vetri calpestati ne annunciò la riapparizione nel rettangolo della porta, e l’eroico pompiere, circondato da sbuffi di fumo, portò gli oggetti recuperati su una piastra di metallo che poteva essere stato un vassoio d’argento. Salutò la folla e da un rigonfiamento sotto il giubbotto estrasse un gattino bagnato e infreddolito e lo mostrò alla folla. Un flebile ‘miao’ precedette una valanga di applausi e un crescendo di ‘evviva’. Una voce potente sovrastò quell’unanimità di consensi: “Sei un eroe!”
Ci fu un attimo di silenzio, anche perché aver salvato un gattino era poca cosa per meritare il titolo di eroe. Si sa come funzionano certi meccanismi. La presenza di una troupe della TV LA WC (La Werità Catodica; la doppia w era una concessione alla sudditanza angloamericana ormai imperante) consentì di amplificare l’evento in modo esponenziale. Il grande cronista Giangi Pennivendolo si tuffò sulla notizia come un rapace perché doveva cercare (secondo i desiderata del proprietario della rete televisiva per la quale lavorava;persona ammanigliata in modo vergognosocon il mondo della politica) una notizia in grado di cancellare dalla prima pagina l’arresto del presidente della BME (Banca Mondiale Espropriativa, sezione italiana), che tanto aveva fatto per consentire alla TV WC di lavorare in regime di quasi monopolio, infischiandosene bellamente della libertà d’espressione. A dirla tutta quella TV permise di creare una nuova definizione di verità e libertà d’informazione: ciò che vedi è vero se te lo dice la Tv, che permette ai cittadini di scegliere fra varie possibilità offerte dal conduttore di turno. A ben guardare l’idea non è malvagia, se pensi al risparmio di tempo non andando nei seggi elettorali a esprimere un voto che difficilmente garantisce la governabilità e alla possibilità di esprimere il tuo consenso con un sms o una e-mail, comodamente seduti davanti alla tele in salotto, in cucina o in qualsiasi altro punto della casa. La cosa geniale è stata realizzata mettendo in campo un processo d’interconnessione e di mediazione fra la TV e la politica, portando la seconda nella prima.
Pennivendolo diede fondo a tutte le sue indubbie doti di mestatore di sentimenti e quel gattino, che rispondeva al nome di Smeraldino (nominativo biecamente inventato lì per lì), divenne una mascotte nazionale, l’incarnazione dei buoni sentimenti popolari. Tutti i telegiornali dedicarono (teleguidati) ampi spazi, servizi mirati e approfondimenti a quell’eroico pompiere e a quel meraviglioso gattino salvato da morte certa. Ci fu chi propose, senza suscitare la benché minima ironia, di consegnare una medaglia al merito al caposquadra. Il Ministro per la Guerra e contro la Povertà (cioè si faceva la guerra ai poveri per impedirgli di macchiare la reputazione nazionale mostrandosi per le strade) fece di meglio: nominò il valoroso vigile Sostituto Direttore Antincendi, cosa che prevede nelle mostrine un’abbagliante stella d’oro. Fece un balzo notevole nella gerarchia interna, arrivando ai margini del ruolo dei direttori. Non si era mai verificata, a memoria di… pompiere, una simile e fulminante carriera: in un botto solo aveva saltato ben nove gradini nella scala gerarchica. A ben valutare la cosa andava gestita così se si voleva dare alla notizia l’enfasi voluta, o almeno in grado di far scivolare in secondo piano e poi farla sparire l’infamia sul presidente della BME.
La Tv mandava in onda, con ossessiva ripetitività, l’intervista all’eroe con il braccio il gattino. La colonna sonora fu scelta con l’aiuto del grande Song Mezzanota, esperto musicologo italo/americano, che aveva collaborato con la Nasa per scegliere i brani da incidere nel disco d’oro del Voyager. Dopo lunga e ponderata riflessione fu scelta la canzone ‘Damm’o’ Cane’ di S. Pirone e S. Cataneo e cantata da Enzo Romano. La nazione intera pianse e si commosse fino alle lacrime alle parole strazianti gorgheggiate da Romano in pieno stile sceneggiata napoletana.
Alle domande incalzanti del cronista il nostro baldo pompiere rispondeva con fierezza e profondità: ‘Ho fatto solo il mio dovere.’, oppure ‘Fa parte del mio lavoro.’ Erano poche parole, ma sentite e profonde.
Quell’uomo al quale tutti dobbiamo essere riconoscenti si chiama Salvatore Fiamma, e tu lo hai conosciuto poc’anzi.»
Lo guardai senza capire. Come avrei potuto conoscere quel vigile del fuoco così famoso da apparire in TV. «Devo pensare che uno dei pompieri che hanno bussato alla nostra porta era… era… l’eroe?»
Mio padre annuì e pochi secondi dopo si materializzò il valoroso salvatore di gattini. Il suo portamento denunciava la sua forza interiore e il suo sguardo schietto denunciava lealtà e coraggio. Mio padre lo salutò cordialmente e mi presentò, dopo avergli comunicato che mi aveva messo a parte dei fatti che l’avevano consacrato eroe e divo. L’uomo mi guardò sorridente: «Figliolo, Ho fatto solo il mio dovere. Posso aggiungere che la mia fortuna è stata quella di trovarmi nel luogo giusto, nel momento storico/politico favorevole agli atti eroici. Sappi scegliere quando intervenire per non rendere nulli i tuoi sforzi.
Dagli Appennini alle Ande
Racconto mensile
Molti anni fa un giovane genovese di venticinque anni, figliuolo di un noto intrallazzatore politico, andò da Genova in America per cercare sua madre. Sua madre era andata a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina, per realizzare il sogno di una vita: diventare una famosa ballerina di tango argentino. L’occasione le fu offerta dalla tournée del famoso ballerino gaucho Paco Claudicante de las Pampas y Giramientos de Bolas. Il vederlo, amarlo e decidere di scappare con lui verso i teatri argentini fu tutt’uno. Quell’uomo vestito alla maniera della provincia di Santa Fè (camicia, bombacha/pantaloni, fazzoletto al collo, poncho rosso, cappello nero) sapeva come rapire il cuore di una donna. Se, poi, quella donna aveva sempre sognato il mondo della danza latino/americana, non c’era granché da inventare per coinvolgerla. Maria Teresa Scipita fece un rapido conto mentale: avrebbe coronato il suo sogno nel cassetto e avrebbe potuto mettere da parte qualche soldino se avesse affiancato quell’artista straordinario nei suoi spettacoli in giro per il mondo. (I soldi, è risaputo, non bastano mai. A dirla tutta, garantirsi una grande quantità di denaro richiede un flusso in crescendo delle proprie liquidità. Qualcuno l’ha detto, forse un filosofo della nuova corrente esoterica ‘Gnam-gnam’.) Le costava lasciare i suoi figlioli, ma avrebbe loro spiegato che lo faceva solo per garantirgli un futuro senza problemi, nel lusso e nello sfarzo. Il mondo, come aveva sempre sostenuto, era a disposizione di chi aveva molti soldi, e i soldi si accumulano sfruttando al massimo le occasioni. Non poteva lasciar passare quella possibilità: la fortuna difficilmente bussa due volte.
Non sono molte le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio per quello scopo, e che, grazie ai sostanziosi cachet che riceve chi gira il mondo, ritornano in patria in capo a pochi anni con qualche milione di euro.
Rimane il mistero del perché non avesse parlato di questa sua scelta con quella pasta d’uomo del marito, Luciano Scornato Cervi, grand commis dello stato e punta emergente del partito di governo. Certo qualche colpa l’aveva anche il dott. Cervi che era presente fra le mura domestiche, bene che andasse, due domeniche il mese. La signora era impegnatissima in svariate attività di beneficienza. Fra tutte, lei avvantaggiava l’ORFBOZ (Opera per il Reinserimento delle Fanciulle Bruttine in Odore di Zitellaggio), perché sentiva vicine a sé le giovani sfortunate, penalizzate da una natura matrigna che aveva elargito a piene mani tutto il suo arsenale di nefandezze estetiche (si sa: i poli contrari si attraggono). I soliti maldicenti affermavano che la sua attenzione per quella onlus era legata ai cospicui finanziamenti che le amministrazioni locali, provinciali e regionali giravano all’organizzazione, e che lei, in quanto presidente, utilizzava per le sue esagerate spese personali. La gente era solo invidiosa e non perdeva occasione per manifestare questo suo modo di essere. Eschilo nell’Orestea, fin dal 458 a.e.v., sosteneva che “Non è felice l’uomo che nessuno invidia”. «Millenni di storia per capire l’abisso dell’animo umano.» Era solita ripetere la signora Scipita in tutte le occasioni in cui qualcuno adombrava dubbi sulla correttezza del suo comportamento e sulla sua onestà gestionale. A quel tipo di vita anodina in famiglia, e da vera e propria arrampicatrice nel sociale, reagì nel modo meno prevedibile: scappò, lasciando armi e bagagli (magari quelli no!), con quel tanghero argentino. Era una giornata di un’incipiente primavera, quando quegli occhi della Pampa la trafissero e la rapirono. Sparì e nessuno per mesi ne ebbe notizie.
Quello sventurato del marito aveva pazientato in silenzio, certo che la moglie avrebbe capito l’importanza della famiglia e sarebbe tornata. Anche perché era convinto che nessuna persona afflitta da shopping compulsivo, come Maria Teresa, potesse stare a lungo lontana dall’inestinguibile miniera di risorse economiche che il marito le aveva garantito e che lei gestiva in modo spensierato. Aspettava e taceva quel povero cristo. Non parlava della cosa con i due figli che avevano capito il dramma vissuto dal loro padre. Sentivano sulla pelle l’ironia feroce degli amici e dei vicini. Non erano sfuggiti i risolini d’intesa dei colleghi del ministero e le mani nascoste furtivamente dietro la schiena a formare l’inconfondibile gesto delle corna. Il dott. Cervi sopportava tutto con un aplomb quasi inglese e reagiva con mesti sorrisi.
La signora Scipita, mentre il marito soffriva le rie conseguenze della sorte, inseguiva il suo sogno nel mondo dello spettacolo, e delle fortune connesse. E poi quel giovane aveva, rispetto al marito, qualche freccia al suo arco: era giovane e, fisicamente, si presentava piuttosto bene.
Il gaucho dovette dedicare qualche mese alla preparazione dello spettacolo da presentare nel più grande teatro di Buenos Aires, la ‘Cucaracha Borracha’.
La señora Scipita s’impegnò come pochi per essere pronta per il debutto, che avvenne il primo aprile di una giornata di pioggia. La presenza di Paco Claudicante de las Pampas y Giramientos de Bolas e la curiosità di conoscere la sua nuova compagna di danza riempirono all’inverosimile quel teatro, capace di ospitare cinquemila spettatori. La musica fu curata dal grande maestro andino Cristobal DesafinadoTartamudo e dalla sua orchestra, Los sonos De Los Pallosos de San Miguel de Tucumàn. In aggiunta fu inserito un musicalizador d’eccezione, un addetto alla disposizione della scaletta. Si trattava di un grande talento finito, dopo anni di successi incontrastati, a sbarcare il lunario in una taverna dell’angiporto di Buenos Aires, nel barrio La Boca (il quartiere della via Caminito, divenuta famosa per il tango dedicatogli da Gardel), il mai obliato Miguel Scordado. Era stata una delusione terribile che lo aveva spinto ai margini della società e ne era stato strappato dalla generosità del maestro Tartamudo, che gli aveva offerto quest’ulteriore chance per ritornare nel grande giro. Lo spettacolo prevedeva la presentazione di vari stili (Apilado, Milonguero, Fantasia, Salòn, Show, Avellaneda, Villa Urquiza, Nuevo) , tra i quali erano magnificamente presenti le varianti inserite dallo stesso Paco Claudicante: Pelota, che prevedeva una posizione a uovo della ballerina che veniva colpita da una gambata del tanghero simulando un calcio di punizione di tipo calcistico; Strazzada, che contemplava una gansekiotoshikami, cioè un rovesciamento della ballerina con presa dei capelli (kami) come si fa per scaricare un sacco dalla spalla (questa passò alla storia perché inseriva nel tango le tecniche dello Judo); e la cosa che lo aveva reso famoso nel mondo, la Strumpada Caliente, che consisteva nell’afferrare la ballerina per la vita utilizzando le mani come una morsa e rotolando a tempo di Milonga fino all’attraversamento completo della sala o del teatro. Vi erano qui e là piccole altre variazioni come la ‘caminada’, la ‘salida basica’, che prevedeva l’arrampicata da parte del tanghero del corpo della ballerina, puntando i tacchi su ogni sporgenza per spingersi in alto, per finire con salti e sollevamenti propri dello Show.
La compagna precedente di Paco Claudicante fu lanciata talmente in alto alla fine della Milonga che colpì con la gamba destra l’americana del palcoscenico. La sfortuna volle che atterrasse con la gamba sinistra, che le causò qualche problema di stabilità; ragione per la quale fu riciclata come addetta al botteghino, poiché le sue gambe avevano assunto una strana posizione arcuata.
Paco insegnava pazientemente alla nuova compagna Scipita tutti i trucchi del mestiere e le posizioni corrette da assumere per non farsi travolgere dalla gestualità travolgente del ballo.
«Chiquita, non te scorraggia! Le difficultades si superan con impegno e applicassione. Non devi mollare, non devi mollare!» Cercava di trasmetterle la forza necessaria per superare quei momenti di difficoltà e d’impasse artistica.
«Lo so, querido, che posso contare su di te, ma questi esercizi sono davvero difficile, soprattutto con le varianti che hai introdotto. Dopo che mi cammini addosso con i tacchi, mi ritrovo piena di lividi. Non ci sarebbe un altro modo per ballare la salida basica? Non potresti usare per l’occasione un paio di morbide pantofole?»
«No es para risa? Non puedo rinunciar alle mie zapadospersonalizzade, disegnate dal grande designer Guimarães TrincettãoDuTalão, di fiera origine brasileña. Tiene creado per me delle zapados con un tacòn da cincocentimetros, che mi permite de equilibrar l’altura anche con lasbailarinasmàsaltas; suelaentera, fondo en bufalo, e modelada en el mio elegantissimo pié. Por nada cambiaria loszapados, por qué son el mio tarjeta de visita.»
«Se magari loszapadosnon lasciassero la loro impronta sul mio corpo, sarebbe meglio.»
«Basta con este pequeñez! Es muynecesarioBailar. Bailar y bailar por teneréxito.»
La donna, che non aveva alcuna voglia di litigare con il nuovo compagno e, poiché poco capiva anche di quel primitivo spagnolo, riprese con lena ad allenarsi, subendo in silenzio la mortificazione della carne. Con il tempo riuscì, grazie all’astuzia propria delle donne (che ne sanno sempre una più del diavolo), a inserire sotto il vestito, nei punti strategici, una cotta in lega di titanio e di aerografite che limitasse le conseguenze dei tacchi del suo Paco, soprattutto quando eseguiva la ‘salida basica’.
Tra prove massacranti, per la povera signora Scipita, e acrobatiche per Paco, il tempo trascorreva inesorabile. In Italia la famiglia stava lentamente perdendo le speranze di vedere l’adorata mamma/moglie. Si sentivano senza di lei veramente insicuri. Per loro quella donna dava la sicurezza di una… cassaforte.
Temendo d’una disgrazia, scrissero al Consolato italiano di Buenos Aires, che facesse fare delle ricerche; e dopo tre mesi fu risposto loro dal Console che, nonostante l’avviso fatto pubblicare sui giornali, nessuno s’era presentato a dare notizie. E non poteva accadere altrimenti, oltre che per altre ragioni, anche per questa: che con l’idea di non farsi rintracciare dai parenti la buona donna aveva fatto riferimento all’ineguagliabile Falsifica Tore, noto per essere riuscito a spacciare una banconota da centocinquanta euro nel bar del parlamento, e si era creata una nuova identità. Era diventata Paquita baronessa de Lavanderas (poiché il suo sogno era stato sempre quello di far parte della nobiltà e che da amici e conoscenti era chiamata, con un leggero filo d’ironia, Lady Oscar) e aveva spostato i suoi natali in quel di Castellón de la Plana. Per nascondere la sua scarsa conoscenza della lingua di Don Quijote de la Mancha simulò a lungo una laringite catatonica silenziosa mutacistica. Ben pochi avevano sentito parlare di quella strana malattia, ma non osarono chiedere per paura di fare la figura degli ignoranti. Meglio tacere che manifestare la propria ignoranza.
I parenti, in Italia, vivevano questo distacco in preda a una crescente disperazione. Il marito di Scipita andava tutti i giorni alla stazione, al porto e all’aeroporto nella speranza di vederla materializzarsi o d’incontrare qualcuno che l’aveva vista, che gli desse qualche dritta su come rintracciarla. (I soliti pettegoli ritenevano che l’interesse dell’uomo per la moglie fosse legato al fatto che con la donna avevano preso il volo la password per uno dei dieci conti segreti in Lussemburgo e l’intero contenuto della cassaforte. Secondo un conto approssimativo si trattava di sei milioni di euro, l’onesto guadagno di una maxi tangente per la costruzione di un parco dei divertimenti in una delle spiagge più protette ed esclusive. Era solo malignità gratuita.) L’uomo aveva fatto ricorso a tutte le conoscenze politiche per fare in modo che il caso della scomparsa (così la considerava, ufficialmente, Luciano Scornato Cervi) fosse presentato durante la seguitissima trasmissione televisiva ‘Anche in capo al mondo noi li ritroviamo e li filmiamo’. La presentatrice Dislessica Scialli Belli si lanciò anima e corpo nell’impresa: inviò inviati con l’incarico di battere a tappeto ogni più recondito angolo della città di residenza di Scipita, riservandosi di allargare le indagini verso luoghi sempre più distanti. Era una vera maestra nel montare dal nulla casi che inchiodavano le persone davanti al teleschermo. Se le prove arrivavano, bene, altrimenti si potevano anche costruire, almeno finché reggeva l’interesse dei telespettatori. Fin dalla prima puntata era riuscita a creare aspettative incredibili in chi la seguiva. Aveva ipotizzato il rapimento da parte di servizi segreti stranieri per danneggiare il marito, membro influente del partito di governo; aveva costruito figure di spie molto improbabili: un cinese cieco, una nana lituana, un aborigeno australiano, un eschimese in bermuda e camicia hawaiana. Le testimonianze erano sempre quasi certe e le percentuali arrivano a sfiorare il 98 per cento. Una cieca di Fucecchio aveva parlato, con assoluta certezza, portando come testimone il suo cane guida dal fiuto imbattibile, di un gruppo di persone di pelle scura e di probabile origine asiatica che, parlando il raro dialetto Byāngsī, avrebbero accennato a una donna italiana rapita per venderla a un ricco sceicco arabo. Spiegò di aver letto di quella lingua tibeto-himalaiana, parlata nel Patti Byangs, nell’angolo nord-orientale del distretto di Almora (Cumaon, India), nell’ottava edizione inglese (1901) dell’enciclopedia britannica. Rilevò, per dimostrare la conoscenza dei dialetti di scarsa diffusione mondiale, che era fortemente influenzata dalle parlate indoarie. Tutti rimasero impressionati dalla sua straordinaria cultura, ma qualcuno sollevò il dubbio che una cieca avrebbe avuto qualche difficoltà a destreggiarsi con la lettura, figurarsi leggere l’enciclopedia britannica in lingua originale. Un funzionario dell’Ente nazionale per la smentita dell’handicap rizzò le antenne e inviò, all’indirizzo della cieca che leggeva, una squadra di feroci ispettori, nota nell’ambiente come la Brigata Savonarola.
Le speranze sembravano abbandonare la famiglia, quando un signore di Gubbio, di ritorno dall’Argentina, dove svolgeva l’onesto lavoro di mediatore culturale (Portava dall’Italia bellissime giovani speranze del cinema, tutte curve e seduzione, e ritornava con le tasche piene di pesos. Non si capiva bene che tipo di lavoro svolgesse, però era molto redditizio.), dichiarò ai microfoni di Dislessica Scialli Belli di avere visto la signora in un locale dove si esibivano i più famosi tangheri argentini. «Certo, è un po’ diversa dalle foto che ho visto in Tv, ma secondo me è lei.»
Il signor Cervi aveva chiesto come fosse vestita o di che colore fossero i capelli. L’uomo emise un piccolo colpo di tosse per prendere tempo e scavare nella memoria per trovare l’immagine di quella donna incontrata in argentina. «I capelli erano di un rosso Tiziano abbagliante e il suo corpo flessuoso era fasciato con un vestito di seta azzurra con due appariscenti rose sul petto. Poiché di professione faccio il mez… mediatore culturale e di belle donne me ne intendo, posso affermare, senza tema di smentita, che quella era un vero schianto. I lineamenti però non cambiano con una tintura di capelli e posso giurare che si trattava della signora Scipita al 99 per cento. Si accompagnava a…»
La trasmissione s’interruppe il tempo necessario per non far sentire ai telespettatori la svolta boccaccesca suggerita dall’eugubino Sparviero Toccafondi. Alla ripresa della trasmissione la signora Dislessica parlava della necessità di riportare la signora Scipita a casa. L’appello fu condito con il meglio del vocabolario del pianto. La storia fu intessuta di ogni dettaglio lacrimevole, per la più parte inventato. L’informazione, data in privato per buona, sulla presenza della donna in Argentina convinse la famiglia a organizzare una spedizione nella terra dei gaucho. Si scelse il figlio maggiore per la missione recupero. Luigino era un giovane di vivace intelligenza, studente universitario modello (gli esami li superava con tale velocità da non essere visto da anima viva; generalmente era sufficiente una telefonata del padre al rettore), esperto del gioco del calcio sul quale puntava molto, tanto da essere chiamato nell’ambiente ‘Azzardo vagante’, tombeur de femme come pochi e candidato tronista in attesa di chiamata. Suo padre, per via degli incarichi di responsabilità ricoperti come servo dello stato, non poteva assentarsi, anche perché il suo allontanamento avrebbe causato una corsa senza esclusione di colpi alle circa venti poltrone lasciate incustodite. Il secondo figlio, diciottenne, era ancora un insulso bamboccione, noto per essere, ahinoi, un bravo ragazzo, di parola, ubbidiente, gentile, amante della musica e della poesia, sensato, amabile e colto conversatore; insomma, un giovane tanto ammodo da essere inadatto a una ricerca che avrebbe potuto richiedere qualche strappo alla buona creanza.
Si decise, alfine, di affidare l’incarico oltre frontiera a Luigino, abbastanza lestofante da aggirare eventuali ostacoli con tutti i mezzi a sua disposizione, legali e no.
E allora, dopo un altro po’ di esitazione, il padre acconsentì. Il viaggio fu deciso. Su internet prenotarono un volo sulla compagnia aerea nazionale, la SLVLV (Se la va la va) e presero contatto in terra gaucha con il famoso investigatore Manolo Prendez per affiancare Luigino nelle indagini. La domestica Umilia La Donna preparò le sue sei Louis Vuitton con l’essenziale per un breve soggiorno del suo padroncino, come amava chiamarlo con occhi sognanti; sei pensò fossero sufficienti, perché, se si fosse trattenuto per più di una settimana, avrebbe comprato sul posto il necessario. Per la bisogna il padre gli fornì la sua carta di credito no limits ‘Magna maximus’, concessa esclusivamente ai membri del parlamento e ai grand commis.
Il volo, nonostante il poco augurante nome, andò nel migliore dei modi. Approfittò vergognosamente delle credenziali del padre e del biglietto diplomatico che gli consentì di viaggiare in ‘prima ultra’, classe esclusiva riservata a politici megacorrotti e ai grandi papaveri delle religioni di stato. Non fu un caso se per tutto il viaggio gli affiancarono una hostess dalla bellezza stratosferica.
All’aeroporto di Buenos Aires fu accolto da Manolo Prendez e da due inservienti che si presero cura dei suoi bagagli. Con una Rolls-Royce fornita di accessori in modo sovrabbondante, fu condotta all’albergo a cinque stelle per cinque ‘Sontuosità Splendente’, dove gli era stata riservata la Suite dello sceicco, il cui prezzo variava, sempre in aumento, in base al mercato del petrolio e dei diamanti.
Il povero Luigino aveva un solo pensiero: come avrebbe fatto a riportare a casa la madre, nascondendo la verità che, ormai, era evidente. La presenza di Manolo, uomo di grande discrezione e dal costo esagerato, era una garanzia per la riuscita dell’impresa e per tacitare la curiosità dei media. Prima d’iniziare le ricerche, decise di cenare, anche per superare la stanchezza dovuta allo jet lag. Gli fece compagnia l’investigatore, anche perché non voleva lasciarlo solo in quella situazione di sofferenza estrema. Pasteggiarono in modo parco: caviale del Don, spaghetti al tartufo d’Alba, bistecche di Manzo Wagyu, panini Bagel (al suo interno crema di tartufo bianco e formaggio, gelatina di Riesling, infuso di bacche di Goji, qualche foglia d’oro), cocomero di Dansuke, proveniente dal Giappone, champagne Goût de Diamant.
Durante il pranzo Manolo Prendez lo ragguagliò sulle ultime novità. Gli comunicò che un suo confidente, addetto alle cure dei cavalli nella tenuta del ricco fazendero Don Deogracias Da Riqueza, esperto come pochi nella diluizione delle sostanze dopanti nel sangue dei destrieri da corsa e detentore del segreto di una sostanza chimica chiamata Phantasmaoccultum con la straordinaria caratteristica di non lasciare tracce della sua presenza, aveva avuto notizie probabili della mamma, che sembrava vivesse a Buenos Aires e frequentasse gli ambienti della danza latinoamericana.
«ParaísoArtificialelQuimico me ha garantizadoque dentro de mañanasabrátambiéndecirmecuállocalesfrecuenta. Sr. Luigino me crea, en pocosdíasel caso serásolucionado y ella podráreconducir a casa a su madre.»
Il giovane assaporò con voluttà una coppa di champagne e guardò pensoso il suo interlocutore. «Perché voler risolvere la cosa così rapidamente? Non dobbiamo lasciarci condizionare dall’amore e dal desiderio di rivederla con noi. I nostri atti devono essere ben ponderati e scevri da faciloneria. Meglio attendere qualche settimana in più ed essere certi della perfetta riuscita dell’operazione, piuttosto che accelerare e rischiare di rovinare tutto. In Italia, poi, abbiamo fatto un accordo con la trasmissione ‘Anche in capo al mondo noi li ritroviamo e li filmiamo’ che prevede la ripresa in esclusiva del ritrovamento. Come lei saprà queste cose, per riuscire, hanno necessità di una preparazione meticolosa. Non s’improvvisano i successi televisivi e noi non vogliamo rischiare un insuccesso. Anche perché c’è alle viste una fiction in venti puntate e non possiamo rinunciare alla visibilità che la cosa può garantirci, senza trascurare il ritorno economico. Dobbiamo pensare al futuro, anche perché ci sono degli sconsiderati che ritengono i politici, e ciò che gli ruota attorno, un qualcosa da eliminare. Sono, è vero, posizioni velleitarie e con il fiato corto, ma è sempre meglio cautelarsi e variare gli investimenti e le fonti di guadagno. Nel caso in cui vincano questi sfascia nazione onesti, la televisione può diventare un buon ripiego. Calma, quindi, non vorrei mettere a rischio il mio futuro e quello della mia famiglia.»
«Entiendo, señor, entiendomuybien! Podemos organizar un hallazgo al ralentíque nos empeñará por diez… hacemos 20 días?»
«Bene! Sono felice che abbia perfettamente compreso la situazione. Se riusciamo a tirarla per un mese, i risultati saranno soddisfacenti per entrambi.»
I primi giorni trascorsero nell’ozio e nell’attesa. El Quimico, fedele alla consegna dell’investigatore, se l’era presa con calma, molta calma. Dall’Italia arrivavano notizie confortanti sull’allestimento della serata televisiva dedicata al ricongiungimento familiare; ancora due o tre settimane e tutto sarebbe stato pronto per l’evento via etere. Il giovane, disperato e preoccupato per la lunga attesa, cercò di trovare conforto nei locali più ‘in’ della capitale, mangiando costosissimi manicaretti e ingollando litri di champagne. E poi la sera spettacoli nei migliori locali della città. Provò perfino a familiarizzare con i frequentatori di uno di quei locali dove il tango era di casa. Guidato da un cicerone professionista, si recò in uno dei più famosi, il ‘Desdeel barro a el tango’. Per arrivarci percorsero strade strette e tortuose. Arrivarono in una piazza con, al centro, circondata da un’aiuola di splendide rose rosse, una statua in onore dei ballerini di tango. All’ingresso del locale udì tutti parlare uno strano linguaggio fatto di parole simili allo spagnolo nel suono ma apparentemente incomprensibili. Luigino guardò il suo accompagnatore che sciorinò la sua enciclopedica cultura tanghera. «Aquí, templo del tango, se utilizael ‘lunfardo’. Se trata de un argot nacido en lascárceles para comunicar sin ser entendidos por lasguardias. Se mezclanpalabras de origen italiana comoelgenovés y elnapolitano, también, obviamente, elespañol. A este argot se acercaelvesre (revés), es decir, elhablarinvirtiendolassílabas de cada palabra. Lo todohacemáscreíble esta pantomima para turistas. Si la beben y desenganchanel dinero.»
Il giovane, per elevare il livello culturale della discussione, fece sfoggio di cultura da Wikipedia, convinto di stupire l’interlocutore. È una cosa ovvia: chi ha il ‘dinero’ ha diritto anche di spacciarsi per Dante Alighieri. «Tutto il mondo è paese. Ci sono sempre due facce per ogni verità, di cui una è come l’oro di Bologna. La bravura sta nello spacciare per buona la faccia fasulla e il gioco è fatto. ‘Per rendere la verità più verosimile, bisogna assolutamente mescolarvi un po’ di menzogna.’ Sosteneva Fëdor Dostoevskij.»
Si sistemarono in un tavolino nelle vicinanze della pista da ballo e furono immediatamente circondati da cinguettanti e bellissime signorine, note nell’ambiente come formosedas, dal nome della ‘Chacodelphys formosa’ (opossum pigmeo del Chaco), animale endemico dell’Argentina. Il tavolo fu oggetto delle attenzioni di una mezza dozzina di premurosi camerieri che riempirono con velocità imprevedibile il tavolino con champagne dal costo abnorme. Le formosette non si tirarono indietro e si sacrificarono con quel ben di Dio che sgorgava senza sosta dalle bottiglie made in France. Vista la disponibilità economica del giovane Luigino e per onorarne il ruolo sociale, nel breve si materializzò il direttore del locale per porgergli il suo personale e molto interessato benvenuto. La serata andò avanti per alcune ore tra lazzi e schiamazzi, finché tutti i presenti furono coinvolti in una sorta di festa collettiva. Mentre sul palcoscenico i ballerini proseguivano con sempre minore vigore le loro esibizioni, fra il pubblico si diffondeva il virus dell’allegria. Verso la fine della serata, corresponsabili decine di bottiglie di champagne, tutti, artisti e spettatori, realizzarono un poco elegante trenino modello movida riminese.
Il povero giovane era tormentato dalle vicissitudini familiari e non riusciva a partecipare a quanto i suoi nuovi amici in terra straniera (l’investigatore Manolo Prendez e la guida turistica FacundoGiramundo) organizzavano per lui: serate in teatro o in discoteca, pranzi nei migliori ristoranti, carne asada in barbecue esclusivi in riva al mare. La carne era prelevata quotidianamente nella fazenda di Don Azado de la Parrilla e arrostita in modo perfetto dal grande cuoco Cucharon de la Cacerola. Neanche il profumo straordinario che avvolgeva la carne sul fuoco, innaffiata con il miglior chimichurri (spezie fresche con aceto, limone e olio) prodotto da quelle parti, portava consolazione al quel tormento senza fine. Mangiava, è vero, ma lo faceva solo per tenere su quel corpo ormai privo di volontà e di voglia di vivere. Solo la speranza di ritrovare la madre gli dava la forza di andare avanti e lo costringeva a nutrirsi. Cercava lo svago in modo disperato, ma il suo pensiero era sempre rivolto alla carissima congiunta scomparsa. Riusciva a dissimulare la tempesta racchiusa nel suo cuore e agli altri si mostrava sereno e tranquillo. Rideva sguaiatamente, ma il suo cuore piangeva. Il suo stesso essere lì smentiva quell’aria superficialmente frivola. Non c’era spettacolo o divertissement che placasse il suo umore cupo. E poi si aggiungeva alla tensione della ricerca l’attesa per i risultati, in termini di share, della puntata del ricongiungimento e della successiva fiction. Era un’occasione che non doveva essere sprecata e che andava giocata nel modo migliore possibile, anche se il postino può suonare più di due volte, quando lo conosci e lo puoi manipolare.
In patria, intanto, il padre e il fratello collaboravano con la troupe di Dislessica Scialli Belli per la riuscita della puntata clou. Nel frattempo le trasmissioni “in assenza” erano magistralmente condotte in modo da suscitare un’attesa spasmodica nel pubblico, tenendolo con il fiato sospeso prima di uno scoppiettante finale.
Luigino si teneva in contatto quotidiano con il padre per ragguagliarlo dei progressi e per essere informato dei passi in avanti con ‘la televisione’. Tutto si svolgeva nel modo migliore possibile e gli ingranaggi sembravano girare in modo eccellente. Il segreto stava nei particolari che erano stati curati in modo maniacale; nulla era lasciato al caso.
Tutto proseguiva seguendo un copione malinconicamente ripetitivo: pranzi, teatro, barbecue sulle spiagge, allegre serate danzanti. Neanche a dirlo: sempre con il cuore stretto. Dopo due settimane di permanenza, una novità, con il viso giovane e fresco di una monumentale brasiliana, lasciò il segno nelle giornate monotone del nostro. La conobbe durante la sfilata carnascialesca di Gualeguaychù, nella provincia di Entre Rios. Era stata la voglia di Manolo di distrarre Luigino a tentare la carta carnevale. Il giovane, fra splendide ballerine brasiliane, fu colpito da un bollente dardo di Cupido. Le conoscenze dell’investigatore permisero al giovane italiano di ottenere un incontro con quella donna dalla bellezza stellare. La bellissima donna accettò l’invito a cena nel miglior ristorante di Buenos Aires, “A la cuentaexorbitante”. MarisolEstelaMuitoKarine De Bahia mostrò subito grande simpatia per il giovane italiano e, soprattutto, per le sue disponibilità economiche. La cena si svolse fra incomprensibili carinerie: Luigino non capiva il brasiliano, Estela non conosceva l’italiano. Ma i giovani sono pieni di risorse, e se sono economiche ancora meglio. Si capirono al volo e rispolverarono le loro conoscenze del linguaggio gestuale, accompagnandolo con parole di commento che speravano potessero servire alla comunicazione. La cosa andò avanti, con reciproca soddisfazione, per la settimana successiva, finché non giunse la notizia dall’Italia che tutto era pronto e che una troupe era già partita alla volta di Buenos Aires per filmare l’operazione recupero.
Finalmente Manolo Prendez poté svolgere le attività per le quali era lautamente pagato, sguinzagliando tutti i confidenti di cui poteva disporre, anch’essi riccamente ricompensati. Nel giro di ventiquattro ore arrivò la soffiata decisiva: il sabato successivo la donna si sarebbe esibita nel più grande locale della capitale, El MochoBailado.
Luigino andò all’aeroporto ‘La esperanza de aterrizar’ per accogliere la troupe di Dislessica Scialli Belli e organizzare le riprese della ricerca e il ricongiungimento del figlio con la madre. I cameramen furono impegnati nel riprendere tutti i luoghi in cui avrebbero finto di cercare la donna. I cronisti s’impegnarono nell’intervistare donne e uomini, precedentemente insufflati, che avrebbero dichiarato di aver visto la donna nei posti più impensati: alcuni dentro un autobus dell’azienda di trasporti Veloz del Norte; altri all’aeroporto in attesa di prendere un volo per la Terra del Fuoco. In una telefonata il capo ranger del Parco di Yellowstone, con sangue dell’eroica tribù dei Cheyenne e discendente del grande capo Wahanassatta (Colui che cammina con le dita dei piedi rivolte verso l’esterno), comunicò di averla vista insieme a una comitiva di eschimesi. Il centralino della trasmissione fu travolto da fiumi di ‘al 90%’, ‘era lei, ne sono sicura’, ‘sono un ottimo fisionomista, era lei’, ‘lavoro nell’ufficio identikit della polizia di Kansas City e non posso sbagliarmi’. Era un susseguirsi ininterrotto di segnalazioni nelle parti più diverse del mondo. Intervistatori inseguirono le più rocambolesche piste senza grandi risultati. Erano investigazioni lasciate alla libera inventiva dei giornalisti inviati a verificare la fondatezza delle informazioni. La trasmissione andò in onda con l’unico scopo di tenere desta l’attenzione in attesa del colpo di scena previsto per la settimana successiva. L’ambasciata italiana in Argentina prese contatto con la direzione del locale El MochoBailado per chiedere che lo spettacolo fosse spostato alla domenica, quando andavano in onda Dislessica e il suo circo Barnum. Lo spettacolo fu fissato per il giorno richiesto: the show must go on and on (lo spettacolo deve andare sempre avanti).
La storia doveva sembrare genuina solo per gli spettatori, ma dietro le quinte si lavorava per ottenere il consenso dei protagonisti. La donna fu avvicinata, dopo l’individuazione della residenza da parte di Manolo Prendez, da un emissario della televisione nazionale che la rese edotta della situazione e dell’interesse eccezionale per la sua scomparsa, senza sottacere che la cosa le avrebbe fruttato una cifra notevole, e che era stata inserita nel palinsesto invernale una fiction di venti puntate sull’argomento, con lei possibile protagonista. La donna si convinse velocemente a fare la madre/moglie ritrovata che tornava all’ovile per amore della famiglia. Un gruppo di psicologi e psichiatri fu mobilitato per trovare una motivazione credibile che giustificasse la scomparsa senza intaccarne l’onorabilità. Si optò per la perdita di memoria e per l’imbarco per errore su una nave diretta in Argentina, dove vagò a lungo senza sapere chi fosse e che cosa facesse in quel luogo che sembrava ignorare. Poiché era una brava ballerina di latino/americano, riuscì a farsi assumere come riserva in uno spettacolo di tango, dove nel volgere di poco tempo la sua abilità le permise di sopravanzare tutte le altre. Non ricordando il nome, gliene venne costruito uno nuovo e compatibile: Paquita baronessa de Lavanderas. Alcuni giorni prima della trasmissione la tv di stato iniziò il battage pubblicitario, promettendo strabilianti novità sul caso Cervi/Scipita. L’ansia cresceva nel popolo dei teleutenti e un giornale scandalistico riuscì a organizzare un gioco a premi su chi avesse indovinato la località dove sarebbe stata ritrovata la donna.
Il sabato mattina precedente il ritrovamento concordato, quando El MochoBailado era ancora chiuso, si organizzarono le prove generali per quello che sarebbe potuto diventare l’evento televisivo dell’anno. Paco aveva opposto una lieve resistenza, ma aveva ceduto di fronte a un congruo assegno. Pur essendo l’amore un sentimento totalizzante, mostra qualche crepa quando è posto sotto assedio dalla forza del denaro. Un saggio eremita tibetano pluricentenario aveva scritto nella sua monumentale opera di sentenze, proverbi e aforismi in 245 volumi (più vasta dell’Enciclopedia di YungloTa, scritta in Cina da 2000 studenti agli inizi del 1400 e composta di quasi 30000 capitoli redatti a mano e della spagnola Enciclopedia universalilustrada europeo-americana, composta di 118volumi e 105000 pagine) che ‘L’amore rimane al vostro fianco finché qualcuno non offre qualcosa di meglio’. E quell’assegno aveva i crismi del ‘meglio’. Non obiettò, non protestò, non rifiutò e incassò.
Visto l’enorme battage pubblicitario che la rete aveva messo su e subodorando un fiasco di ascolti per le altre reti, i network concorrenti saccheggiarono i fondi di magazzino per non sprecare sull’altare dell’audience prevista (scarsa) trasmissioni di qualità. Una rete televisiva ripescò un documentario sulla poligamia dell’uccello lira, un’altra una ricerca del noto naturalista Delfino Germano Leone Ortensio conte di Collina Ubertosa sul Pavocristatus e la sua scarsa fedeltà amorosa.
Giunse finalmente la tanto attesa domenica e quasi l’intero popolo italiano s’inchiodò davanti ai teleschermi per conoscere gli sviluppi più segreti della vicenda. La cosa aveva coinvolto i telespettatori in modo tanto invasivo che nei campi di calcio era stato sistemato un megaschermo per consentire la visione ai pochissimi spettatori presenti di non perdere le fasi essenziali della vicenda; le stesse partite sarebbero state interrotte ‘per motivi di ordine pubblico’ nel momento clou. Si seppe, solo più tardi dalla lettura dei giornali sportivi, che la partita Massacratori di Mortorio contro Cacciatori Di Frodo fu interrotta quando il centravanti Spingarda Bombaroli stava per tirare un rigore nella porta avversaria. Per la prima volta nella storia del calcio giocato nessuno se ne lamentò e calciatori, addetti e pubblico furono rapiti dal megaschermo che rilanciava l’abbraccio fra madre e figlio.
Una sigla particolare annunciò l’inizio della trasmissione: una musica scritta dal grande musicista cieco Vispo Dell’Occhio, noto per avere scritto la marcia militare ‘Arrembaggio Lento’. Si trattò di una rielaborazione fantasiosa del famoso tango Caminito con l’inserimento di struggenti passaggi tratti da Auld Lang Syne (Il valzer delle candele) scritto dal piemontese Davide Rizzio intorno al 1550 in Scozia, quando svolgeva le mansioni di segretario personale di Maria Stuarda. Dislessica Scialli Belli fece il suo ingresso trionfale nello studio indossando un sontuoso abito dello stilista Trapunto Tagliato: un tailleur in lamé, con il colletto che, sulle spalle, si trasformava in un mezzo scialle trapuntato d’argento e costellato di pietre colorate; in vita una cintola alta dieci centimetri, sommersa da un’oscenità di cineserie esagerate. Completavano l’arredo delle scarpe zeppate da suburra bianche e rosse, un trucco glitter dal verde all’azzurro sbrilluccicante, rossetto viola cupo, capelli appiccicati al cuoio capelluto, modello ballerina classica, e chignon finale imprigionato in una chiassosa coroncina di perle e strass, appariscente rosa rossa in seta sulla tempia destra. Per i semiologi da studio televisivo doveva essere l’imbeccata giusta per intuire in quale direzione si sarebbe andati. Nell’aprire la puntata tenne sulla corda, in modo magistrale, i telespettatori, prospettando sviluppi imprevedibili. Diede la parola alla regia che cercò di ricostruire, con filmati creati ad hoc, i tentativi di ritrovare la donna scomparsa. Lo studio pullulava di esperti di generi vari: psicologi, psichiatri, poliziotti in pensione, criminologi, sociologi, parapsicologi, occultisti, cartomanti, storici, un fisico quantistico, un notissimo enologo. A cotanto senno fu affiancato uno stuolo di persone che, in un modo o in un altro, avevano conosciuto Scipita: una vicina di casa logorroica come può esserlo solo una vicina di casa, un bagnino che ricordava di averla aiutata ad aprire l’ombrellone nella spiaggia ‘Copacabana adriatica’ due estati prima, il titolare della pizzeria ‘Mergellina’ di Adige di sotto, fornitore abituale della famiglia, un’anziana signora che si spacciava per essere stata la tata sostituta della scomparsa, il solito testimone ‘che ha visto tutto’. Il parterre de rois era completato dai soliti politici di prima, seconda e terza fascia, veline speranzose e disponibili, starlette in attesa di uno spazio nel mondo dello spettacolo e con poderosi ammanigliamenti politici, vecchie glorie della televisione ormai in disarmo, opinionisti a largo spettro, belanti primedonne sul viale del tramonto. Insomma, non mancava niente e nessuno per rendere la serata eccezionale e puntare a battere lo share della famosa partita di calcio al Mondiale dei Popoli Pacifici fra gli anglosassoni Cannibals e i latini Antropofagos. (La partita fu interrotta varie volte per la voracità dei partecipanti e ci volle del bello e del buono, da parte dell’arbitro, il francese Dudù Le Sanguinaire, che non riusciva a star dietro ai falli, assolutamente volontari. La partita fu vinta dagli Antropofagos perché misero in campo, a sorpresa, un simpatico e travolgente discendente del conte Vlad, presidente dell’AVIS International, capace di svuotare da ogni energia le truppe avversarie.)
Squittì, la Scialli Belli, un lungo elenco di ringraziamenti a tutti quelli che avevano partecipato, per puro spirito umanitario, alla difficile ricerca della donna, senza dimenticare le autorità di vari paesi sparsi sulla carta geografica, con particolare calore quelle argentine. Le celluline grigie dei telespettatori più accorti, come avrebbe rimarcato Hercule Poirot, avrebbero già dovuto trarre le giuste conclusioni, ma Dislessica continuava imperterrita a fingere di non sapere come stavano le cose e, in particolare, dove fosse Scipita, ed eventualmente “rapita da chi”.
Dopo il servizio battezzato “Alla ricerca della…”, parafrasando vergognosamente Indiana Jones, Dislessica diede la parola ai suoi illustri ospiti. Aprì le chiacchiere lo psichiatra da libreria Alieno Occulto. «Grazie alle mie fonti d’ispirazione (Lando Buzzanca, Sbirulino, i Gem Boy [sic!], il Grande Fratello e la crema chantilly) sono riuscito a capire qualcosa di questa ingarbugliata questione. Dovremo, quando sarà permesso, innescare un processo di abreazione. Questo processo ci permetterà di andare all’origine del problema e capire. L’io e l’es forse convivono pacificamente, senza creare turbativa alcuna. O forse no! Chi può saperlo? Chi può dirlo? Dobbiamo capire se dietro quest’assenza ci sia qualche forma di pulsione che ci riconduca all’archetipo junghiano. Per il momento è troppo presto per elaborare una diagnosi definitiva, ma già possiamo tracciarne, a grandi linee e a maglie lasche, il contenitore. Si tratta evidentemente di una donna fragile, con qualche problema, costretta ad affrontare situazioni stressanti quali le cene di rappresentanza, i ricevimenti dei Rotary per valorizzare la poesia muta degli eschimesi, i convegni del WWF sulla tutela dell’ambiente del Podicepsauritus (Svasso cornuto). Per non parlare dell’impegno quotidiano nel guidare e controllare la servitù, lavoro faticoso e spossante, paragonabile, forse, solo al lavoro in miniera. Non poteva che cedere alle fatiche della vita quotidiana e perdere la coscienza di sé. Speriamo di ritrovarla prima che qualcuno approfitti della sua condizione di disorientamento.»
Dislessica guardò soddisfatta il suo ospite: aveva incanalato la discussione nella direzione auspicata dalla volontà politica e sperata dalla gran massa dei telespettatori. La linea la tracciò in modo definitivo un parapsicologo di grande fama, Ectoplasma Poltergeist, che mise l’accento sulla presenza nella vicenda di oscure forze del male. «La donna, come tutte le persone dedite al bene, è diventata oggetto delle attenzioni del maligno. Ancora non sappiamo con certezza come sono andate le cose, ma potrebbe essere stata posseduta da un emissario del mondo del male. La sparizione improvvisa e la mancanza d’informazioni certe sulla sua sorte ne sono prova lampante. Tipico, tipico di situazioni d’invasamento. Del resto quanto affermato dal dottor Alieno Occulto, facendo i naturali distinguo, collima perfettamente con quanto sto affermando. La donna in qualche modo è stata rapita.»
Dislessica andò in brodo di giuggiole, quei due remavano nella giusta direzione.
La conduttrice decise di riprendere in mano le redini della trasmissione, cosa per la quale era pagata profumatamente, e diede un primo deciso colpo di timone chiamando il collegamento con Buenos Aires. «Ci colleghiamo con i nostri inviati in Argentina perché le tracce più consistenti ci hanno condotto in questa terra meravigliosa, tra gauchos e ballerini di tango. Sentiamo i nostri colleghi sul posto. Marc Ting, sei in linea? Noi ti sentiamo, tu ci vedi?»
Giunse una voce inizialmente disturbata e balbettante, tanto da far temere che il collegamento potesse saltare. La platea rumoreggiò preoccupata. Finalmente la voce di Marc Ting Dissolvenza si fece chiara e intellegibile. «Io ti sento e ti vedo bene. Confermi di sentirmi?»
Accertatosi della risposta positiva dallo studio centrale, Marc Ting (Anche se irrilevante per la comprensione della vicenda, giova ricordare che era di padre italiano e di madre cinese, con ascendenze inglesi. In fondo un tributo a questa storia con venature internazionali.) riprese il suo sobrio e sussurrato commento: «Cari telespettatori, è la prima volta che mi trovo in questa meravigliosa e unica città oltreoceano. Mai avrei pensato che potesse esistere una città così bella e così ospitale, ricca di ogni attrattiva. La gente di queste contrade è buona, affabile e generosa. Ho svolto le mie indagine fra la solidarietà generale e tutti si sono sentiti coinvolti in questo caso umano inizialmente imperscrutabile. La nostra tenacia e l’aiuto delle autorità locali, sempre disponibili, non disgiunto da quello del meraviglioso popolo argentino, ci hanno dato la possibilità e l’occasione per indirizzare le ricerche verso qualcosa di concreto. Tutta la squadra, dai cameramen ai fonici, ha dato il meglio; ma è a te, cara Dislessica, che dobbiamo il probabile successo delle nostre ricerche. A te e alla tua caparbietà, quando tutti avevano ormai rinunciato alle ricerche, si deve tutto questo. Diamo la parola al nostro collega Faina che si trova nel porto di Buenos Aires, dove è stato ipotizzato l’arrivo della signora Scipita. A te Faina!»
«Ci troviamo nel ‘Terminal de pasajerosQuinquela Martin’, dove la signora Modeste Habladora avrebbe ricevuto delle confidenze dal comandante della nave da crociera ‘Inaffondabile’. La señora è qui con me. Non parla l’italiano, anche se a lei piacerebbe. Ha una banale infarinatura scolastica e vorrebbe comunicare con il nostro idioma. All’occorrenza abbiamo con noi l’interprete, la signora Francesca Italiano, che l’ambasciata ha gentilmente messo a nostra disposizione. Senta, gentile signora, lei è sicura di aver visto Maria Teresa Scipita?» Nel chiedere notizie sulla scomparsa, il telecronista mostrò una foto della donna in formato venti per trenta, ampiamente ritoccata con Photoshop dall’agenzia pubblicitaria ‘Vanesi’.
La donna guardò perplessa la fotografia e scosse la testa: «La foto no se parece a la persona que vi bajar del barco algunosmeseshecho. Mirando bien, me pareceque ella es muchomásjoven, como si hubierasido con Photoshop.»
«Mi pare che sia chiaro quanto afferma la signora Habladora. Per i pochi che potrebbero non aver capito, traduciamo. Guardando la foto è rimasta colpita dalla gioventù della donna, che rivedeva identica al ricordo stratificato nella memoria.» Commentò l’intervistatore Faina Elzeviro Fonico.
«No señor, no ha entendido. Luegoaquellamujerestaba en compañía de un hombre vestido de tanguero. Han desembarcadoteniéndoseestrechoscomodospalomas.» Chiarì la signora.
Elzeviro sorrise a denti stretti e guardò nella telecamera quasi per cercare aiuto dallo studio. Un operatore strattonò la signora e le bisbigliò qualcosa nell’orecchio. I maligni sostennero che contemporaneamente aveva infilato un pacco di banconote nella sua borsetta. Ma era solo una calunnia, ovviamente. È risaputo che le trasmissioni televisive hanno un codice deontologico ferreo e invalicabile, basato sull’adagio millenario ‘purché non si sappia’.
La señora Modeste si avvicinò all’intervistatore e con fare contrito aggiunse: «Yosoy una pobre campesina y no me sé explicarbien. Quisedecirque la señoradescendió del barco detrás de un tanguero. Habíamuchamuchedumbre y laspersonas se arrimaron la una a la otra. Estabaclaro que no estuvieronjuntos, porque entre ellos no había nada en común.»
Il volto di Elzeviro si ricolorò e rispose con tutti i suoi trentadue denti. «Cara signora, avevamo capito perfettamente fin dalla sua prima dichiarazione. E non poteva che essere così. La signora non poteva che essere sola e spaesata in questa terra straniera. Probabilmente aveva avuto un qualche vuoto di memoria e si era imbarcata a sua insaputa.»
Dislessica riportò la discussione nello studio centrale e invitò a esprimersi il criminologo Fiuto Diffidente. «Dalle informazioni finora pervenuteci possiamo affermare, sia pure con ancora qualche piccolo margine di dubbio, che la donna sia in buona salute anche se impossibilitata di scegliere il proprio futuro. Se mi è consentito esprimere il mio parere, potrebbe essere vittima di una qualche setta di vegani oltranzisti della pampa, noti per danneggiare i fuochi dei gaucho e distruggere i barbecue con carne asada.»
«Ieri sera, sapendo di dover partecipare a questa meravigliosa serata dove il pianto e le preoccupazioni sono humus sentimentale, ho interrogato le mie carte e il risultato collima con quanto finora emerso. Ho afferrato il mazzo di carte tra il pollice e l’indice, l’ho agitato per ben sette volte e ho citato il nome dei pianeti del Sistema Solare. Ho elencato Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno, e i plutoidi Plutone, Sedna, Haumea, Makemake, Eris e (148209) 2000 CR105. Con l’aiuto delle loro orbite ho capito ogni cosa. Il loro influsso magnetico ha aperto uno stargate e ho visto chiaramente quanto potrebbe avvenire, sempre che il maligno non interferisca. La ritroveremo, probabilmente questa sera.” Sentenziò la chiromante Amelia Fumosa.
“Dopo queste certezze dei nostri esperti, passiamo la linea al nostro Marc Ting, inviato a Buenos Aires. Puoi sentirci di laggiù?»
«Certo, Dislessica, sono pronto a presentarvi il secondo testimone. Si tratta del señorEstabienMacunJuicio, di professione necroforo presso la ditta ‘Riposi in pace, se può’. SeñorEstabien, cosa può dirci della signora Scipita in Cervi.»
“Yo giuro che la señoraestàdessendida dal barco, sighida da algunoshombres y mujeresmuyflacos.” La traduttrice chiarì che quelli che tenevano in ostaggio la donna erano uomini e donne molto magri.
«La mujerhuboquitada in una jaguarnigra e sentì suspalabras: ¿porque me tenéisseparada de mi esposo y de mi familia?»
Marc Ting Dissolvenza saltò l’interprete e gridò nel microfono la sua esultanza per aver trovato il testimone decisivo. «Il signor EstabienMacunJuicio ha affermato senza incertezza che la donna è stata rapita da un gruppo organizzato che l’ha costretta a seguirli magari con il ricatto di eventuali ritorsioni nei confronti della famiglia. Le parole intercettate dall’uomo sono indicative di come si possono costringere le persone a tacere. Siamo di fronte a un vero e proprio sequestro di persona, con l’aggravante delle minacce. Io penso…» L’intervento fu interrotto dalla voce concitata di Faina Elzeviro che, come preventivamente organizzato, si era recato nelle vicinanze del locale ‘El mochobailado’: «Dislessica, qua sta succedendo dell’incredibile. Abbiamo il fondato motivo per credere che la donna sia nei paraggi. Un testimone molto affidabile è pronto a fare una rivelazione che cambierà completamente le ipotesi finora avanzate sul caso. Se siete pronti, il signor Placido Callado ha delle importanti informazioni per voi.»
Poiché nessuno conosceva Manolo Prendez, si era deciso di trasformarlo in testimone che riferisce la notizia decisiva per la soluzione del caso. Il classico colpo di fortuna, sia pure sapientemente elaborato.
La Scialli Belli riprese la linea dallo studio e, per tenere alta l’attenzione e la tensione, ripropose tutta la storia, per non perdere un attimo di quella puntatona che, a detta dei sondaggisti, aveva già battuto ogni record di ascolti. Nel sito internet della trasmissione i numerosi messaggi avevano in pratica intasato i provider, tanto da far sobbalzare nelle poltrone i capi della rete televisiva. Poiché quell’audience non sarebbe mai più stata raggiunta (qualcuno parlava ormai di unanimità audiovisiva), i politici, della maggioranza, dell’opposizione, del non so cosa, non potevano perdere quell’occasione unica per lisciare il proprio elettorato e cercare di rubare (si tratta di politici e i verbi vanno scelti con cura) quello degli altri. Il meccanismo era semplice e ripetitivo: A rubava i voti a B, B rubava i voti a C, C rubava i voti ad A. Il ciclo dei ‘prestiti’ si chiudeva in perfetta parità, senza vinti e vincitori, con un salomonico pareggio. Tutti speravano che lo scambio sarebbe stato a loro favore, almeno quella volta.
Dislessica, dopo il servizio di riepilogo sufficientemente lungo, si rivolse al pubblico con l’aria delle grandi occasioni. «La storia ha commesso… commosso tutta la nazione e in particolare i nostri politici, sempre vicini a chi soffre e ha bisogno di aiuto. Abbiamo ricevuto telefonate accorate e partecipate di ministri che ci hanno manifatturato… manifestato la loro vicinanza e sodilarietà… solidarietà. Abbiamo in linea il Ministro delle Partecipazioni Saltuarie Chiaro Vago Impedito. Ringraziamo il minestro… ministro per la sua sensibilità e gli cediamo volontieri… volentieri la parola.»
«Nel salutare Lei, dottoressa Dislessica Scialli Belli, ringraziandola per avermi concesso di partecipare alla commozione generale, e i telespettatori tutti, che mi stanno a cuore in modo particolare, colgo l’occasione, la dico così, per unirmi alla solidarietà di tutta la nazione per il dolore di una famiglia. Ciò detto, rilevo che la cosa mi tocca in modo diretto per la conoscenza personale con il dottor Cervi, amico di gioventù e di partito. So che Lei e il suo staff, altamente professionale, state svolgendo un lavoro egregio, e spero vivamente nel successo della vostra iniziativa. Nel caso il mio ministero sarà a disposizione della famiglia e vostro per eventuali altri passi successivi.»
«La sua presenza ai nostri microfoni, eccellenza lustrissima, è un premio per il nostro volaro… ehm, lavoro, e un incentivo per un più efficace proseguo. Poiché il portato del nostro lavoro è sempre la giustizia e la democrazia, abbiamo ricevuto la richiesta di partecipazione alla nostra trasmissione del capo dell’opposizione regolata on. Mite Taciturno. Onorevole è in linea?»
«La ringrazio per avermi concesso questa straordinaria occasione, che mi consente di porgere la solidarietà mia e del mio partito alla famiglia Cervi così duramente colpita. Noi auspichiamo una svolta positiva che possa ridare pace a questa famiglia in ambasce ormai da troppo tempo. Se mi è consentito, senza voler rovinare questo grande momento di umanità generosa, vorrei manifestare una sia pur lieve critica alla politica sull’ordine pubblico. È vero che il governo ha schedato tutti gli stranieri di passaggio nel nostro paese; risponde a verità che le strade sono pattugliate da gendarmi armati fino ai denti con licenza di bastonare i facinorosi, gli ebrei, i neri, i vagabondi, quelli con abbigliamenti poco consoni, chi legge nelle strade o seduto sulle panchine dei giardini, dando l’idea agli stranieri di una nazione di fannulloni; approvo la scelta che prevede la chiusura di giornali politici facinorosi, gruppi sportivi indipendenti dal ministero dello sport, chi pubblica libri senza l’imprimatur del Ministero dell’Ordine Occhiuto. Mi pare sarebbe stato opportuno inserire nelle pur giuste leggi sull’ordine pubblico la possibilità di marcare con un microchip sottocutaneo tutti gli stranieri in transito, con l’impegno di allargare, in un secondo tempo, la platea dei chippati. Non se ne può più di questa gentaglia che inquina il nostro bel paese. Forse, se fosse stato fatto quest’ulteriore passo verso la sicurezza, la signora Cervi non sarebbe mai stata rapita.»
«Questa volta mi devo associare alla richiesta del capo dell’opposizione.» Rispose entusiasta il Ministro delle Partecipazioni Saltuarie Chiaro Vago Impedito. «Mi farò carico di presentare un decreto legge urgente per rendere effettivo il chippamento generale, perché ormai le intercettazioni espanse e capillari non sono più sufficienti ed esaurienti.»
La presentatrice riprese la situazione prima che il pubblico siannoiasse e facesse scendere lo share. «Dopo le straordinarie parole del ministro e del capo dell’opposizione, ci ricolleghia-mo con i nostri inviati per avere le ultime notizie. Marc Ting hai novità per noi?»
«Sì, Dislessica, abbiamo notizie straordinarie.»
«Bene, ne siamo felici. Aspetta qualche minuto in modo che possiamo mandare in onda un’altra breve sintesi per rinfrescare le menti di chi ci persegue da sempre e informare chi non ha contentezza… contezza dei fatti.»
Le parole della Scialli Belli furono seguite da un meraviglioso servizio senza risparmio montato dai tecnici, utilizzando ‘ad abundantiam’ un pacchetto di software usato dalla Nasa nei suoi depistaggi sugli UFO.
Il tutto terminò con un pressante interrogativo: Chi ha rapito la signora Scipita?
L’inviato Dissolvenza riprese senza indugio la linea e chiamò vicino a sé Placido Callado/Manolo Prendez per sentire dalla sua viva voce le informazioni di cui era in possesso. «Señor, soyseguro de saberdóndetienenprisionera la mujer. Sé con certezaque es custodiada en una habitación en este local. Ha sidocondicionada de expertos de psicología y obligada a exhibirsecomobailarina en este local. Por lo quepudeaveriguar, lospropietarios del local no son a conocimiento de lasvicisitudes de la mujer. La elecciónestáexclusivamentevinculada a la reconocidahabilidad de la bailarina.»
«Attenzione! Il signor Callado ci sta dicendo che la nostra ricerca dovrebbe essere alle battute finali. La signora Cervi si starebbe esibendo come ballerina in questo locale. Noi entreremo e constateremo di persona se le informazioni di cui siamo in possesso corrispondono alla realtà. Le telecamere ci seguiranno e vedrete quello che vedremo noi. Eccoci all’interno, in quest’ambiente raffinato e immerso in fasci di luci colorate che sembrano voler accompagnare le note di un tango appassionato. Ci avviciniamo al palco dove si distinguono due figure che apparentemente avvinghiate…. Ovviamente solo apparentemente, data la poca luce e la lontananza…»
S’intravide Marc Ting spingere in modo distratto un cameramen verso il palco dove si stavano esibendo i due ballerini, che a ben vedere sembrava fossero qualcosa di più che avvinghiati. Ricordavano il serpente boa intorno alla preda. Il cameramen raggiunse il palcoscenico e con ampi gesti cercò di attirare l’attenzione dei due… ballerini, mentre la telecamera riprendeva la parte opposta della sala. Poiché sembrava che i due non sentissero nessuno e continuavano a ballare saldati l’uno all’altro, il cameramen staccò l’interruttore centrale, facendo piombare il locale in un buio totale. Dallo studio qualcuno emise un grido soffocato e qualcun altro pensò, e lo fece ad alta voce, che i vegani stavano tentando di impedire il salvataggio della signora Scipita in Cervi. Il cameramen riuscì nell’impresa, pare, ricordando ai due ballerini gli impegni presi e sottoscritti con un assegno esagerato. Si sostituì rapidamente l’uomo con un manichino e la donna riprese la sua danza, dopo che la sala fu nuovamente illuminata. Le telecamere zumarono su quella donna sul palcoscenico e il primo piano rivelò il volto di Maria Teresa Scipita. Lo studio si sincronizzò su un ‘oh’ di meraviglia e di stupore. Eccola la donna tanto cercata, quella donna che tanta preoccupazione aveva suscitato nella famiglia, e fra amici e parenti. L’intera popolazione televisiva emise un grido di gioia che squassò interi condomini. Negli stadi ci fu anche chi tentò una liberatoria ‘ola’ e intonò dei canti propiziatori di rito vudù. Dislessica Scialli Belli non stava più nella pelle e si collegò in diretta con la famiglia Cervi per cogliere le prime impressioni in diretta. «Signor Cervi, quella che possiamo vedere nelle immagini che ci arrivano da Buenos Aires è sua moglie? Se sì, cosa prova? Pensava che l’avrebbe rivista? Ci dica le sue impressioni.Gli spettatori, che hanno seguito con trepidazione e ansia lo sviluppo della vicenda, vorrebbero conoscere le sue speranze e quanto questo episodio ha condizionato la sua vita.»
L’uomo, sconvolto in modo teatrale e aiutato nell’operazione dai migliori visagisti della televisione nazionale, si sfregò gli occhi nel tentativo poco mascherato di simulare la classica ‘lacrima sul viso’. «La ringrazio fin d’ora per quanto avete fatto e farete per permettere alla mia famiglia di ricongiungersi, dopo tanta sofferenza. Quando ormai le nostre speranze erano ridotte al lumicino, il suo impegno, quello della sua squadra, quello dei suoi telespettatori ci ha aperto il cuore all’ottimismo. Senza di voi tutti oggi saremmo ancora qui a chiederci che cosa fosse accaduto alla nostra cara Maria Teresa. Tutto ormai porta verso la soluzione del problema, e la possibilità di riabbracciare la nostra cara sembra diventare certezza. Grazie ancora a tutti da parte mia, dei miei figli e di tutti i parenti e amici che hanno sofferto con noi in silenzio. E finalmente potrà rientrare in patria mio figlio Luigino che tanto ha patito in terra straniera alla ricerca della madre. È un ragazzo forte, ma l’assenza della madre l’ha provato assai.»
«Signor Cervi,» aggiunse chiocciolante Dislessica, «credo che riusciremo a fargliela sentire in diretta. Potrebbe manifestare qualche titubaldanza… titubanza, ma non si preoccupi. Gli psicologi ci hanno assicurato che sta superando la perdita di memoria che pare l’avesse colpita e che ha creato questo forte disagio a lei e alla sua famiglia. Ci colleghiamo con il nostro Marc Ting che sicuramente è riuscito ad avvicinare la signora Scipita. Marc puoi parlare. Vorremmo sentire la voce della donna.»
«Sì, Dislessica, ti sento e ti vedo. Siamo riusciti a raggiungere la signora Paquita baronessa de Lavanderas alias Maria Teresa Scipita. Mentre voi in studio discettavate sulle cause che hanno generato questo dramma, noi, con il supporto del grande psichiatra LucidosAlternado y Vacilante della Regia Universitat de BarcollanaDespuésGarnacha, abbiamo iniziato a riportare alla realtà la signora Scornato Cervi. Lentamente, e con enorme fatica, sta facendo riaffiorare il suo passato dalla lutulenta palude in cui era precipitato. Ci avviciniamo con tutte le cautele del caso e vi proponiamo la sua voce.
Signora, sono Marc Ting Dissolvenza, inviato speciale della trasmissione ‘Anche in capo al mondo noi li ritroviamo e li filmiamo’. I nostri telespettatori vorrebbero sentire dalla sua viva voce ciò che ricorda della sua scomparsa e quali sono stati gli intrecci che l’hanno condotta in Argentina a ballare il tango nei teatri.»
La donna guardò con aria smarrita la telecamera e poi, con sempre maggiore convinzione, iniziò a raccontare le sue vicende. Sembrò di sentire un flebile ‘come d’accordo?’, ma il cronista chiarì che si trattava di un lamento, legato alle sofferenze patite.
«Rammento vagamente che mi trovavo nelle vicinanze della sede dell’associazione di cui sono, o sono stata, presidente, l’ORFBOZ. Stavo per attraversare la strada, quando un gruppo di persone dall’aspetto macilento mi circondò. Io pensai che si trattasse di persone in difficoltà economica e infilai la mano nella mia Hermès per distribuire del denaro con cui avrebbero potuto comprare del cibo. Non capisco come, mi ritrovai in una cabina di una nave che mi condusse in Argentina. Quando mi svegliai una persona del gruppo, che dopo capii essere composto di vegani irriducibili e intolleranti, e che si autodefinivano Cellula D’assalto Verme Solitario, m’iniettò delle sostanze che mi sprofondarono in un melmoso oblio. Volevano, ma di questo me ne resi conto solo quando iniziai a ricordare con l’aiuto del dottor LucidosAlternado y Vacilante, colpire il ruolo di mio marito che difendeva all’interno del Partito la legge sulla legalizzazione del prosciutto ‘A sorpresa’, prodotto con un miscuglio, di volta in volta diverso e a discrezione del produttore, di carni varie. Sono persone cattive e contrarie a ogni progresso. Non so come, mi sono ritrovata sola e disperata. Vedevo la mia vita cadere a pezzi e non credevo di potercela fare, quando sono stata avvicinata da un gruppo di persone stranamente vestite che mi aiutarono e si presero cura di me.»
«Signora Scipita, sono Dislessica Scialli Belli. Siamo felicissimi di averla ritrovata e di poterle consentire di ricongiungersi alla sua amata famiglia, dalla quale l’aveva allontanata, contro la sua volontà, un gruppo di spietati terroristi internazionali, braccati ormai in tutto il mondo dagli agenti dell’Interpol. Li troveranno, ne siamo sicuri, li troveranno e pagheranno per il delitto commesso. Signora le passo suo marito, così potrà salutarlo. Siamo certi che il sentirvi sarà di consolazione per entrambi.
Dottor Cervi, sua moglie può sentirla e vederla.»
«Cara, sono felice di poterti vedere e sentire; e sono grato alla dott.ssa Scialli Belli e a tutto il suo staff che ci permette di nuovo di ritrovarci e di vivere l’uno per l’altra.»
La telecamera fece una rapida inquadratura della Scipita che aveva sbarrato gli occhi e aveva piegato verso il basso il lato sinistro delle labbra. L’inquadratura cambiò rapidamente e Dislessica commentò da par suo l’apparente smorfia della donna. «Ho colto sul viso della signora la disperazione per la lontananza e per non poter riabbracciare subito l’adorato marito. Si consoli, signora, ormai è solo questione di ore.»
Il volto della donna assunse una vasta gamma di colori, dal terreo al viola plumbeo; e gli occhi ruotarono vorticosamente. «Ore? Posso rivedere la mia famiglia e il mio adorato marito fra poche ore?» Il tono della voce si fece cupo e concitato, quasi a voler manifestare uno strano stato di agitazione.
«Tesoro, abbi fiducia. Vedrai che tutto si sistemerà.»
Intervenne lo psichiatra Alieno Occulto, nel tentativo di lanciare una scialuppa scientifica al languente, flemmatico e pericolosissimo dialogo fra coniugi. «Mi pare evidente che la signora stia pagando un ritorno troppo brusco alla realtà. È come se rinascesse e dovesse riorganizzare le sue conoscenze. Un afflusso incontrollato di notizie sta intasando il suo cervello e mandando in corto circuito i suoi neuroni.
L’Analisi TransemozionaleSingultante Invertita, acronimo STAI, la cui scoperta si deve all’insigne statunitense Eric Verme Solitarium, esimio scavatore dell’inconscio, del conscio, dell’oscuro, del subliminale e di ogni cosa perscrutabile, può, in questa situazione di emersione del passato, esserci d’aiuto nella soluzione del caso. Sta attraversando con troppa rapidità gli stati dell’Io. L’Io Moglie sta confliggendo con l’Io Madre e con l’Io Affettivo Espanso. Se non riusciamo a graduare l’afflusso di notizie, i diversi Io rischiano di andare in confusione con l’Io-Io che potrebbe convincersi di essere l’Io Affettivo o l’Io Normativo o, peggio, l’Io Anarco/insurrezionalista. Se pensiamo che la Psicoanalisi TransemozionaleSingultante Invertita ipotizza l’esistenza attiva di ben 171 Io, vi potete rendere conto da soli su quale conflitto emozionale può nascere e svilupparsi in questa donna che aveva rimosso, costretta dall’isolamento e dalla segregazione, ogni ricordo della sua vita ante. Consiglio vivamente di dosare il flusso di conoscenze per non creare ingorghi irreversibili. Come primo passo sarebbe opportuno un contatto privato con i familiari, senza confronto diretto via etere, che potrebbe essere esiziale.»
Dislessica, pur non avendo una grande conoscenza dei segreti dell’inconscio, capì che insistere con i coniugi in diretta poteva non essere una grande idea. La puntata proseguì da studio con l’audizione di tutti i testimoni, che avevano ancora qualcosa da raccontare, e con le chiose, i commenti, le illustrazioni, le spiegazioni, i chiarimenti puntuali e colti degli ospiti in studio. La trasmissione si chiuse fra gli evviva dei tecnici in sala regia per gli stratosferici dati di audience. Gli istituti di sondaggi sparavano cifre oscillanti fra il 90 e il 95 per cento. Lo champagne sancì quella serata da urlo. La storia proseguì nel modo migliore per la famiglia Cervi. Dopo qualche puntata di sfruttamento dell’onda emotiva, il padre riacquistò quel minimo di credibilità popolare che poteva essergli stato tolto dall’improvvida fuga della moglie con il tanghero argentino. La signora Scipita, pur ritornata fra le mura domestiche, non rinunciò a qualche incursione nel mondo dello spettacolo e in ciò che le girava attorno. La differenza con il passato stava nella capacità di prendere il suo piacere senza rinunciare al ruolo domestico e sociale. Le entrate complessive del nucleo familiare crebbero considerevolmente in seguito alle performance cinematografiche e televisive della donna. Il dottor Scornato Cervi, grazie alla propaganda gratuita legata alla vicenda, fu eletto deputato e in seguito ministro con portafoglio. Che poi era l’unica cosa che contava.