L a nostalgia ha mille volti e mille sfumature.
Uno dei perentori ordini di mia madre era quello che impediva a noi figli di
oltrepassare lo spigolo della casa di Foareddu, da una parte; e l’angolo della
casa di Maganza, dall’altra. Erano i due punti, in cui, il mio mondo conosciuto iniziava e finiva. Due confini invalicabili, che ostacolavano lo sviluppo della mia conoscenza e l’incremento delle mie esperienze. Ma dilatavano di molto i confini della mia fantasia. Al di fuori di questi confini, immaginavo ci fosse un mondo segreto, misterioso e affascinante, che sognavo tutte le notti. Il mio compagno Franco mi raccontava che, quando andava a far legna nelle campagne di Baddes e Corrales, gli sembrava di essere sotto i cieli della California e del Texas, luoghi che si potevano vedere solo nei disegni dei giornalini a fumetti di Pecos Bill o di Tex Willer.
E Franco si divertiva a descrivermi il Rio Bravo di Corrales e il Colorado River di Baddes, dove si potevano trascorrere momenti indimenticabili, ammirando i canyon, simili a quelli dell’Arizona, o i dintorni del Little Big Horn, teatro della famosa battaglia tra il generale Custer e gli indiani di Sitting Bull. Li ho sognati anche a occhi aperti, ma riuscii ad andarci solo dopo tanto tempo, quando gli anni della maturità avevano sconvolto le sfumature e i contorni dei sogni dell’infanzia.
In sostituzione, c’era il canyon della mutua: un cortile interno, dove c’era su
taneddu (il ricovero per le galline), su putu (il pozzo) e s’àlvure de sa figu (un grandioso albero di fichi) e un magazzino, dove mio nonno ricoverava
Piccione, il suo asino, e dove le galline andavano a deporre le uova.
Quando avevo sedici anni, la mia famiglia si trasferì di casa ed andammo ad
abitare nella zona nuova del paese. Da quel momento, non entrai più nella
casa in via Dei Pozzi, dove avevo trascorso la mia infanzia felice.
Uscendo ed allontanandomi da quei due confini, che, per ordine di mia
madre, non dovevo superare, riuscii ad acquisire un nutrito bagaglio di
conoscenze ed esperienze, frequentando le Scuole Medie a Nulvi, le Scuole
Superiori a Sassari, L’Università a Pisa, il servizio militare a Spoletao e a
Roma e, girando per il mondo per una serie di motivazioni, che vanno dal
trurismo al lavoro, come capita a tutti nella vita.
Ora lo spigolo della casa di Foareddu, pur rimanendo un punto determinante e ricordo dolcissimo nella mia mente, è trasformato dal tempo. Nella facciata laterale che dà su via Lamarmora, dove quando ero bambino, per un paio di anni, ha campeggiato questa scritta anonima: I comunisti mangiano i bambini, è stato disegnato un murale scoppiettante di colori, raffigurante il vecchio castello dei Doria, che ha annullato tutte le mie antiche quanto preoccupate apprensioni. Quel piccolo fabbricato, dal tetto basso e dalle finestre minute, con le ante da casa delle fate, è chiuso da più di quarant’anni, da quando è morta tia Giuseppina, la vedova di tiu Foareddu. E la stessa sorte è toccata alla casa di Maganza. Via La Marmora, o via dei Pozzi, come con tenero affetto veniva allora chiamata in paese, luogo pulsante di vita negli anni cinquanta e sessanta del novecento, ora è quasi deserta. Solo tre case sono ancora abitate da cinque chiaramontesi irriducibili, di cui uno ultranovantenne.
Tutte le altre sono irrimediabilmente chiuse e qualcuna
anche cadente. Ma mi rendo conto che quell’angolo sperduto di mondo
merita tutto il mio rispetto e la mia considerazione, nonché tutte le mie
premurose attenzioni. Da qui potrebbe ripartire l’inizio di un viaggio
culturale che porti a sbocchi più ricchi e più articolati di quelli che io non
sono riuscito a raggiungere. Nuovi spunti per portare ad altre conoscenze, di cui mai, come in questo momento ho sentito il bisogno.
Qualche anno fa, alla ricerca di non so bene cosa, dopo aver percorso in
discesa e in salita via La Marmora, che rappresentava tutto il tragitto della
mia conoscenza infantile, col cuore gonfio di comprensibile emozione, sono
entrato a visitare la casa posta al numero uno, dove ho trascorso la mia
infanzia. Anche quel palazzotto a due piani è irrimediabilmente chiuso. Il
lungo corridoio, che attraversavo seduto sull’asino di mio nonno per portarlo in cortile, pare si sia accorciato: immerso nel buio appare corto, stretto ed angusto. Il pozzo, uno dei due che davano il nomignolo alla via, è
completamente asciutto. E l’immenso cortile, orfano di galline e tartarughe, è diventato un cortiletto che la galoppante fantasia infantile e gli occhi del
bambino avevano ingrandito a dismisura, facendolo apparire immenso.
Ho tentato con forza di dominare comprensibili e inerti malinconie, ma ho a lungo riflettuto, guardando l’albero di fichi spogliato dall’autunno, e ho
capito che, andando ad abitare nel nuovo quartiere di San Giovanni a
Chiaramonti e poi a Sassari, non mi ero mai mosso da quel posto magico e
incantato. Avevo lasciato lì qualcosa d’importante, una parte di me molto
familiare, che mi ritornava dentro l’animo in termini emotivi, che non
riuscivo a decifrare. Mi sembrava di essere rimasto ancorato lì tutto il tempo e la mia partenza era stata un lungo sogno, da cui mi stavo appena ridestando.
E, nonostante il tempo avesse modificato tutti i contorni e la sostanza di quei luoghi, sentivo che ritrovavo lì tutto ciò che avevo abbandonato con la mia partenza. Mi sembrava di essere rientrato in me stesso, riacquistando quei posti, che avevano fatto da cornice alla mia vita di imberbe e sprovveduto bambinetto. E mi chiedo cosa accadrebbe, cosa sarei, cosa diventerei se ritornassi in quella condizione limitata da due confini insuperabili, e ne ripartissi dirigendomi dalla parte opposta: non attraversando lo spigolo di Foareddu, ma andando oltre la casa di Maganza!
Mi sono reso conto di avervissuto, in un battito di ciglia, una piccola parte di quello che era nelle mie possibilità, che mi ha fatto diventare quello che sono. Mai e poi mai, allora, avrei immaginato che mi sarei laureato in una famosa Università del “continente” e che sarei diventato professore. Che avrei girato mezzo mondo, tenendo conferenze o per assolvere a gravi e terribili motivi familiari, che sarebbe meglio dimenticare, anche se ciò non è assolutamente possibile. Mai e poi mai avrei potuto pensare che sarei diventato il sindaco del mio paese per cinque anni e che avrei occupato lo stesso posto dei mitici personaggi di allora come Gigi Madau, Armando Fumera e Nino Brandano. Che sarei diventato amico personale di Enrico Berlinguer, con cui trascorsi due estati indimenticabili a Stintino.
Mai e poi mai avrei pensato di capire il dolore di mio nonno, che perse la
parola per tre mesi, quando seppe di aver perso un figlio in guerra. Dolore
che può capire, purtroppo, soltanto chi lo prova.
Come sarebbe potuto essere il resto? Noi viviamo la nostra vita al presente e, in questo preciso istante, io la vivo nel luogo in cui scrivo, nel mio studio,
circondato da migliaia di libri, seduto davanti a un anonimo computer,
servendomi della sua tastiera e facendo scivolare sulla scrivania
quell’oggettino chiamato in inglese mouse, topo: su sòrighe. Tutto quello che è accaduto prima appartiene al passato, che, fino a quel momento, purtroppo, avevo ignorato e collocato nel dimenticatoio. Mi rendo conto sconsolatamente di essere arrivato a un punto in cui non posso più migliorare il mio sapere, conseguito allontanandomi da quel portone e superando quei fatidici confini.
Tutte le mie conoscenze, conquistate col sudore della fronte e maturate in un clima di perdonabile pomposa rivendicazione, sono diventate del tutto
inutili, in quanto sorpassate impietosamente dall’implacabile uragano
dell’epoca attuale e consumate dall’inesorabile progresso, che non fa
prigionieri. Per un attimo, ho sentito intimo e impellente il desiderio di
rientrare anche fisicamente in quel micromondo di via La Marmora e da lì
ripartire con nuovi propositi, nuovi intendimenti, nuove idee e nuovi
entusiasmi.
Affacciandomi sul portone, dove, cantilenando, da bambino, durante la
processione della Settimana Santa, avevo invocato i dolci di Pasqua, ho
rivisto la via come era allora e, con gli occhi della memoria e dell’infanzia, ho passato in rassegna tutti i suoi abitanti, da tia Maria Pedrutza a tia Minnia Bitòria, da Maria Caterina, Battista e signor Antonino, il Leonardo da Vinci di Chiaramonti, ai miei nonni materni Paolina e Salvatore. Ho rivisto tia Nannedda e Maria Satta, tia Chicca e tiu Battista, tiu Mario Carboni e Maria Manghina, Angelino che mi insegnò a fare l’operatore cinematografico, fino a tia Serafina, una santa donna che abitava nell’ultima casa, prima della porta dei Maganza, che restringeva via dei Pozzi fino quasi a chiuderla, per dare inizio, voltando a destra, alla via Angioy, ora via Venti Settembre, ma da tutti i chiaramontesi ancora cocciutamente chiamata via delle Balle.
Come in un sogno irreale, sentivo dietro di me l’alito caldo e protettivo del
personaggio più importante: mia madre, che era l’artefice della delimitazione dei confini insuperabili, riservati a me e a mie sorelle, dato che Carlo, mio fratello più grande, li attraversò molto presto per andare fuori a studiare, prima a La Maddalena e poi a Sassari. E a mia madre ho dedicato questa poesia, scritta alle tre del mattino, dopo un sogno intenso e tormentato, ma dolcissimo nel ricordo! La composizione originale è stata pensata e scritta in Lingua Sarda. Qui è tradotta in Italiano, con l’aiuto e la consulenza degli amici Vincenzo Mura e Antonello Bazzu.
A mia madre Francesca (Ciccia) Pulina
Prima che in cielo s’affacciasse
la stella dei pastori,1)
il vento di ponente
penetrava nelle fessure
e nelle crepe di porte
e portoni, tremava il tetto
e gemeva il solaio,
e il fumo del camino,
per l’inadeguato spiraglio,
tornava indietro fino alla porta
della cucina, gelandomi le spalle,
sedevo nel grembo di mamma
e il treno delle sue ginocchia,
in salita, affannoso arrancava,
brontolando, a sbuffi e gemiti:
“Non posso, non posso,
non posso salire!”
esalando roventi respiri
neri di carbone maleodorante.
Ma, trionfante come bandiera
dal comignolo il treno
eruttava nuvole biancastre,
declinando verso il guado
di Badu ‘Olta e Molino,
saltellando allegro sulle ginocchia:
“Me n’infischio, me n’infischio,
corro molto e niente rischio!”.
Poi, terminato il viaggio,
le ginocchia di mamma
mi portavano a galoppare
a briglia sciolta,
nel podere di Piluchi,
nel tancato d’Iscanneddu
e nella piana assolata
di Santa Maria Maddalena,
fino a Santa Giusta:
“Pidigò, pidigò, pidigò,
pidigò, pidigò, pidigò…
Fermati, cavallo! Che diamine,
Fermati che c’è il fiume!
Dove stai andando?
Raddrizza, diavolo, raddrizza
e passa sul ponte,
Ma cieco sei?
Non sbagliare strada!”
Mamma allungava una gamba
e, stendendo le braccia,
mi faceva rovesciare
all’indietro dal suo grembo,
trattenendomi con mani
forti e possenti di affetto
e premurosa protezione.
Ma rimontavo in groppa!
S’impennava il cavallo,
riprendeva la corsa sfrenata
in gara col vento, sfiorando
le querce di Bulvaris
e Respidu e: “Pidigò,
pidigò”, galoppava
ancora fino a tardi,
quando nonno, al crepuscolo,
mi issava su Piccione1)
che nel lungo corridoio
guidavo come fossi
Marc’Aurelio paludato,
per liberarlo con l’acqua
del pozzo e la biada
nella casupola del cortile,
invaso da piume ovaiole
e prolifiche chiocce,
cullato da canti
di tartarughe e squilli
di sonori chicchirichì,
di allegri coccodè
e chiocciare lamentoso
di pulcini pigolanti.
Adesso non corro più,
mamma mia cara,
né in treno né a cavallo!
Ginocchia possenti
e sicure come le tue
non ne esistono più!
Ed io sono appesantito,
dagli anni e dai travagli,
con il cuore scassato,
le ossa sgangherate
e stanchi il corpo e lo spirito.
E tu, il martedì dopo Pasqua,
con labbra di preghiere,
hai trasmigrato,
senza un lamento,
sognando preci e litanie,
nei pascoli del Cielo,
a correre in solitudine come “Pilota”2)
o in groppa con Giommaria3),
o a sfida con Maria Chicca4)
e Pietruccia Muzzoni5),
all’insaputa di nonno e di nonna!6)
Ma, a giorni alterni,
mi ritorni in sogno e ti vedo
nelle corti di Pietro7),
con tuo nipote piccolo8),
che ti ha preceduto
nei sentieri ricchi
di luce, per chi ha fede,
ma orfani di conforto
e asciutti di pianto.
E col nipote più grande9),
“Monumento di babbo
caduto prima dell’eroe”10),
che ti ha seguito
nello stesso sentiero.
E tu li prendi in grembo,
vigorosa come allora
e “pidigò, pidigò”,
corrono come il vento
per luoghi senza querce,
senza fiumi, senza ponti,
né fumo, salite e scoscese.
E noi lasci a piedi,
qui, tra rovi di pene,
travagli e sciagure,
a consumare il desolato inverno
di sognate chimere,
in attesa di giungere
laddove i nostri cari,
con la luce della fede,
ci hanno preceduto
per prepararci il posto.
Tuo figlio Tore
NOTE
1) In sardo s’istella de chenadorzu, la prima stella che appare in cielo; per
alcuni si tratta di Venere, per altri Orione e per altri ancora l’Orsa
Maggiore. Quando appariva questa stella, i pastori portavano il gregge a
pascolare, a xchenadorzare, per completare il loro pasto ed evitare eventuali problemi allo stomaco degli animali.
2) Piccione si chiamava l’asino di mio nonno.
3) … a correre in solitudine come Pilota… Pilota, con la lettera maiuscola perché era il nomignolo con cui fratelli e sorelle, ed anche zia Pietruccia chiamavano mia madre, per la velocità con cui correva a cavallo: il termine è mediato da pelota, pallottola. Correva come una pallottola.
3) Giommaria, fratello di mia madre, carabiniere, morto in guerra a 35 anni.
4) Maria Chicca, sorella di mamma morta il primo gennaio del 1977.
5) Pietruccia Muzzoni, una cugina di mia madre con cui ha passato la
gioventù e con la quale amava correre a cavallo.
6) … nascoste agli occhi dei nonni! Nonno Salvatore, avendo due figli nell’Arma Benemerita, aveva un debole per tutti i carabinieri che passavano nei dintorni. E molto spesso, quando li vedeva passare in servizio di pattuglia, immancabilmente li invitava ad entrare in casa, gli offriva qualcosa da mangiare e da bere e si intratteneva a lungo con loro. Mia madre e zia Pietruccia portavano i cavalli dietro la casa e, invece di legarli, all’insaputa di nonno e di nonna e, ovviamente dei due militari, gli toglievano le selle e li montavano a caddu nudu, cioè, a pelo, come i fantini del Palio di Siena, e scorrazzavano in lungo e in largo nel tancato di Piluchi. Zio Mario, il fratello più piccolo di mamma, che con complicità faceva la guardia e avvisava le due ragazze quando era il momento di riportare i cavalli al loro posto, mi raccontava che i due ignari carabinieri, quando andavano a riprendere i cavalli per tornare in paese, li trovavano sudati, nonostante riposassero all’ombra dietro la casa.
7) Di san Pietro, cioè in Cielo
8) Mio figlio Manuel, morto il 30 luglio 1977 all’età di quattro anni e mezzo.
… che ti ha preceduto … Mia madre è morta quasi tredici anni dopo mio figlio; il martedì dopo Pasqua del 1990. Nel testo originale in sardo il verso è scritto: … chi t’at abertu s’àidu… che ti ha aperto l’ingresso ecc. In italiano: ti ha preceduto.
9) E col nipote più grande… Giovanni, figlio di Carlo mio fratello, che portava il nome di mio padre, morto all’età di 22 anni, nella notte tra il tre ed il quattro maggio 1995.
10) “Monumento di babbo caduto prima dell’eroe”…
Questi versi sono virgolettati perché tolti da una frase pronunciata da mio
fratello, rivolgendosi a mio padre, dopo la morte di Giovanni: “Io ti ho
costruito il monumento, ma, purtroppo, è crollato prima dell’eroe”, cioè di
nostro padre, che è morto quattro mesi dopo.