Una ragazza straordinaria
Giuseppe Dessì, commentando un giudizio di David Herbert Lawrence in Sea and Sardinia sulla Sardegna e sugli uomini sardi, esprime tutta la sua ammirazione per le donne sarde, considerandole le uniche capaci di competere e di pareggiare il conto con gli uomini illustri di là del mare. «Come mai un popolo così ricco di qualità morali e tutt’ altro che privo di intelligenza (chiunque sia stato in Sardegna sa che la media dell’intelligenza è elevatissima) non ha lasciato tracce di sé nella storia; come mai la Sardegna non ha avuto nessun grande uomo? Si annoverano insigni studiosi, giuristi, qualche storico, qualche buon generale, ma veri e propri grandi uomini no. Sembra sia negato, a noi sardi, quel tanto di fantasia che occorre per essere grandi uomini. Solo due personaggi della storia sarda hanno questo carattere di fantasia: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. Ma sono donne, non uomini.» (Conversazione alla Radio trascritta e pubblicata da Rai-Eri, 1949)
E donna è la terza “tra cotanto senno” e di cui merita parlarne: la pittrice Liliana Cano.
Fin dalla tenera età mostra quale fuoco arde nelle sue vene. E fin da quando impara a usare matite e colori lascia intravedere quale sarà la sua strada.
Quel castello costruito sulla collina, che domina la città di Gorizia e funge da attento custode, offre un posto in prima fila a sognatori irriducibili sempre alla ricerca del bello. Il cielo rosso all’orizzonte incanta anche i cuori più duri e il castello della città che le ha dato i natali rende magica la giornata. Tutto il paesaggio si riempie di colori, e quella ragazzina, goriziana per caso, ma sarda in ogni cellula, quei colori ce li ha nel cuore e sgorgano copiosi a fare concorrenza a quel tramonto da lasciare senza fiato. Le mani stringono i pastelli che sembrano vivere di vita propria, riempiendo il foglio di tratti rapidi e sicuri, inseguendo il sole nella sua fuga verso la notte, cogliendone la tavolozza nel suo rapido mutare. Colora rapida la piccola Liliana, e cerca d’imprigionare quei colori trasferendoli sul foglio. E quando il cielo chiude il conto con la terra, spegnendo quello spettacolo di colori, fruga nella sua memoria e ripropone quanto la natura offriva fino a pochi minuti prima. Lo fa con la spontaneità propria dei bambini, senza troppo riflettere e con il desiderio di conservare quel fiume colorato che scorre nel cielo. Guarda e disegna, e i colori trasformano quel foglio in un contraltare della natura, rivaleggiando in intensità e bellezza.
La mamma, maestra e pittrice, accarezza la sua piccola con tutto l’amore e la dolcezza di cui è capace, e come solo le mamme sarde sanno fare. Forse scorge in quegli ingenui tratti le tracce del genio o forse, semplicemente, gli occhi vedono solo ciò che vogliono vedere. Ma quel rosso, capace di raggiungere l’animo, e quel blu via via più intenso sono inconfondibili segnali di una vitalità creativa che non abbandonerà più la piccola Liliana. Sono i primi passi di un percorso che la condurrà, lei cocciuta sarda, a percorrere strade che sembrano appannaggio esclusivo dei pittori “di sesso maschile”. La strada della pittura è lastricata di difficoltà per qualsiasi donna, anche la più dotata. Il carattere non le manca e, dopo i tramonti e i paesaggi di Gorizia, decide di frequentare una delle migliori scuole di pittura del Regno d’Italia: l’Accademia Albertina di Torino. Lì organizza il suo talento, apprende le tecniche, delle quali non diventerà mai schiava; e ha la fortuna di incrociare alcuni dei più grandi pittori italiani fra le due guerre.
Felice Casorati, Giacomo Manzù, Franco Omegna e Domenico Valinotti consegnano a quella irriducibile ragazza sarda gli strumenti per mettere ordine in quei colori che hanno dipinto la sua giovinezza e che sgorgano direttamente dal cuore. I grandi maestri dell’Accademia Albertina trasmettono alla già brillante pittrice tutti i rudimenti necessari per costruirsi quella che gli esperti chiamano pomposamente “tecnica”. La cosa non la convincerà mai, perché ritiene che la tecnica nasca con il pittore, la porta con sé nel suo DNA, e non è in alcun modo trasmissibile. La giovane sarà sempre fedele a questo assunto: chi ha bisogno di imparare la tecnica per diventare pittore, non è pittore. Se dentro non arde il fuoco dell’arte, puoi diventare tutto, ma non riuscirai mai a produrre arte. Se quanto scaturisce dal cuore e tramite le mani s’imprime nella tela, può essere chiamato tecnica, la si chiami pure tecnica; ma se quello che si dipinge è veicolato da rigide norme che nulla hanno a che spartire con ciò che abbiamo dentro diventa roba inutile, da riproduttore di idee altrui.
Forte di queste convinzioni termina, con ottimi risultati, l’apprendistato pittorico in quel di Torino. Poco più che ventenne, al termine della Seconda guerra mondiale, approda a Sassari e si trova immersa in un contesto a dir poco straordinario, formato dai più valenti pittori che la storia sarda possa mettere insieme: Costantino Spada, Stanis Dessy, Filippo Figari, Mario Delitala, Pietro Antonio Manca, Libero Meledina, Ausonio Tanda, Eugenio Tavolara. Da queste frequentazioni nasce nel 1950 la mostra collettiva per l’inaugurazione del “Grattacielo”. La giovanissima Liliana, unica donna fra quei mostri sacri della pittura isolana, s’inserisce magnificamente, contribuendo a quella scuola sassarese che avrà un peso notevole nella cultura dell’Isola.
Attraversa leggera come una farfalla i primi anni del dopoguerra, lottando e vincendo contro le diffidenze di una società profondamente maschilista che non aveva letto Giuseppe Dessì e il suo elogio della donna sarda.
Il suo amore per l’avventura e la scoperta la porta prima in Spagna e poi in Francia, dove trascorrerà anni intensi tra lavoro e mostre, raccogliendo premi e attestati di stima.
La sciovinista Francia (alla quale siamo in debito per la definizione del termine chauvinisme, dal soldato francese Nicolas Chauvin, soldato napoleonico sinonimo di patriota fanatico e campanilista) sceglie nel 1976 di farsi rappresentare in una esposizione all’Ermitage di San Pietroburgo da questa pittrice sarda che ha scelto, come terra di elezione la Francia e la Provenza in particolare. I francesi, che hanno ospitato il meglio della pittura mondiale dall’Ottocento ai giorni nostri, da Picasso a Van Gogh, da Modigliani a Dalì, da Kandiskij a Chagall, scelgono per la “missione” artistica in terra sovietica (in quegli anni San Pietroburgo era ancora Leningrado) Liliana Cano, donna, (e la cosa non è di secondaria importanza in un mondo sostanzialmente maschilista come quello della pittura) per ‘parlare’ a nome dei francesi. Vive, rispettata e apprezzata come pochi, per quasi venti anni in quella culla di artisti, e ritorna in quella che è sempre stata la sua terra del cuore: la sua Sassari, dove tutt’ora vive e opera.
Prima di conoscerla, ho provato a capirla attraverso un suo dipinto, ho cercato risposte alle mille domande che di solito ciascuno esprime di fronte al frutto creativo di un artista. Con Liliana Cano la prima impressione è stata di stupore e curiosità; non mi è stato possibile da subito capire se l’opera, si trattava del viso dell’allora segretario del PCI Palmiro Togliatti, mi piacesse oppure quei colori e quelle pennellate mi lasciassero esitante nel giudizio. Dopo quel primo impatto ( e la cosa varrà per tutte le opere che ho avuto la fortuna di ammirare) ho tratto la convinzione che quelle opere si possono annoverare tra quelle (ed è la storia di tutti i grandi pittori) che meno hanno necessità di essere spiegate, perché ad esse ci si avvicina con uno slancio istintivo, creato dalle cose che seducono a prima vista e non abbisognano di particolari analisi per essere comprese e apprezzate. Sono arrivato alla conclusione ovvia e scontata che c’è una sola cosa da fare: subirne il fascino. Lasciarsi scivolare fra le sue opere ci consente di comprendere la cosa più ovvia: tutte le opere sono sempre in accordo con il loro tempo, con il loro ambiente. È la sua vita che scorre nei quadri, e con essa la sua visione sociale e ambientale. È questo mutuo scambio fra ambiente e vita a dare spessore e credibilità alle sue creazioni. Questa flessibilità culturale riesce a fare sì che l’opera, per le sue qualità intrinseche, riesce ad andare oltre il suo tempo, diventando vera opera d’arte. Liliana Cano è tutto questo, cosa che le consente di essere annoverata fra i più grandi pittori (e pittrici), pur cogliendone la sua dimensione secolare, come donna fra le donne, pittrice fra pittori, arrivando alla conclusione che alla fine tutta la sua produzione travalica di fatto il suo tempo. Pur avendo “viaggiato” con pittori che hanno rappresentato l’élite a livello nazionale ed europeo, Liliana riesce a non far parte di alcuna corrente pittorica. Né vittima dell’incomprensione, né veggente, né epigona, né condizionata dal successo. Prosegue la sua esplorazione solitaria fin dall’immediato dopoguerra, manifestando il suo desiderio di vivere con le sue creazioni piene di vita.
E, con qualche anno in più, è rimasta quella ragazza che dipingeva tramonti dal castello di Gorizia.
Chissu pinzellu maré ca ti l’ha rigaradu?
Di siguru una fada curiosa
pa ipantà di marabiglia tuttu lu criadu.
Ha furadu li curori a l’archupintu
e l’ha cuadi i li quadri toi
pa ammustralli rui, biaitti o groghi
candu passi lu pinzellu:
lu ruiu ischichiddenti ch’isthampa lu zeru
lu grogu ch’agganza la vida pa lu cori
lu biaittu ch’imprumitti li marabigli di la notti.
Lu sori matessi ipampana l’occi
e curri cuntentu a l’incrinada
acchì in terra a lagadu parenti
ch’azzendini lu bugiu chena canderi.
Gianni Avorio