Giuseppina: sa mastra
Aveva appena compito diciassette anni, concluso brillantemente il corso di formazione presso la Scuola Normale di Torino, quando venne nominata, in qualità di insegnante elementare proprio in Sardegna. Ad accoglierla fu un paese di mezza montagna, Osilo, arroccato e magico, dove il colore della nuda roccia, perlato da muschi e licheni, rendeva il paesaggio antico e mitico. Osilo, per uno strano gioco del destino oppure per un oscuro disegno missionario, la destinò ad una delle sue frazioni: Santa Vittoria. Una manciata di case, arrampicate su la nuda roccia ed un paesaggio di calcare grossolano bianco: spettacoli della natura. A Santa Vittoria di santo doveva esserci davvero poco, più che altro vi si poteva trovare una sconfinata sequenza di povertà. Giuseppina vi sarebbe vissuta in un continuo adattamento alla cruda realtà, a metà strada tra sopravvivenza e sopportazione; quasi in un cammino di penitenza, mai esausto, sempre uguale per anni. Giuseppina divenne per gli abitanti di Santa Vittoria una vera benedizione. Il giorno del suo arrivo, seduta su un carro trainato da buoi, c’erano tutti ad accoglierla, timidamente schierati, stretti l’uno all’altro in una lunga sequenza, quasi addossati al muro a secco che dal Camposanto si allungava verso la frazione. Non capivano bene se fosse una dea, una visione oppure una donna in carne e ossa, esattamente come loro eppure così diversa. Lei, giovanissima, diafana, bellissima, elegante, li osservava compiaciuta, accennava un sorriso, come se andasse incontro allo sposo. Capì subito, ancor prima che si esaurissero le feste messe in scena per lei, la natura del luogo dove era finita. Ancora odorosa di Langhe, cominciò a rimuovere molti dei segni della sua giovane vita: le serate a Corte, i baciamano, le riverenze, la sua grande e splendida tenuta a Mondovì, la terra sempreverde, l’inverno rigido e lungo, le corse in montagna, le tante -troppe- comodità della sua casa e della sua vita. Dapprima cercò di stordirsi con lunghe passeggiate in stradine soffocate da sterpi, illuminate da qualche chiazza di verde, affrontando sciami d’insetti, respirando l’odore acre della terra. Per fortuna, qualche mese dopo il suo arrivo le vennero incontro i mugnai della Valle; finalmente riusciva a stordirsi in lunghe galoppate, percorrendo a velocità sostenuta sentieri dove neppure la lunga mano della Legge era mai penetrata. Ben presto, anche questi riti terminarono per lasciare il posto ad un impegno sociale che avrebbe caratterizzato la sua permanenza nella frazione. In quell’ultimo angolo di mondo, Giuseppina cambiò anche il nome, divenne “sa mastra”, dentro e fuori la scuola, sempre, ancora oggi è così. Nelle ore libere dall’insegnamento si dedicava totalmente alla cura delle anime: compilava i ricorsi e le carte da bollo, scriveva le lettere alle madri che avevano il figlio emigrato o in servizio di leva, istruiva le pratiche per i sussidi, registrava la poca contabilità dei mugnai, spesso veniva chiamata al capezzale dei moribondi per raccogliere e trascrivere le ultime volontà. E poi la scuola; ebbe il suo bel daffare a convincere gli abitanti della necessità dell’istruzione, per piccoli e grandi. Non ebbe difficoltà, per un anno intero, graziata da un inverno a dir poco mite, a far lezione con le finestre aperte, per consentire a qualche adulto di seguire, non visto, le lezioni di prima alfabetizzazione. Da subito, dolce e mite qual era, divenne un “bene comune”; la curiosità iniziale che aveva spinto gli abitanti a frequentarla, in breve si era trasformata in affetto profondo misto a gratitudine, per assumere le sembianze di una vera e propria adorazione. Erano gli ultimi decenni della seconda metà dell’Ottocento, quando aveva accettato l’incarico meritorio di portare l’istruzione in una lontana Scuola del Regno. Non aveva neppure avuto il tempo e forse l’acume di valutare l’offerta, le motivazioni del suo assenso così come l’idea che fosse lei a scegliere la sua prima sede di lavoro. Figlia del Generale comandante delle truppe sabaude Francesco della Rovere e della nobildonna francese Luisa Chevalery, non aveva posto condizioni, se pur – allora- si parlasse dell’ isola come di un paradiso terrestre ma perduto. Quello che doveva essere come un periodo di prova, limitato ad un paio d’anni, divenne l’inizio di una nuova vita. Si chiamava Giovanni, si trovava a Torino per raffinare la sua istruzione e dar corso alla carriera militare, più che altro sognava di accedere al corpo speciale dei Granatieri del Re. Apparteneva ad una genealogia particolare, arrivata in Sardegna, nella metà del ‘700, dalla catalana Barcellona. Ad un primo impatto si capiva subito che di sardo avessero ben poco nel sangue. Erano infatti di statura molto alta, corporatura possente, tanto da non potersi affacciare ad una finestra se non in posizione traversa (di spalla), occhi cerulei, in qualcuno di essi addirittura con un occhio tendente all’azzurro e l’altro al verde. Di carattere non proprio mansueti ma neppure facinorosi, durante la loro migrazione si erano imbattuti a Santa Vittoria e lì sarebbero rimasti, nella prima casa a destra della via Lunga. La parvenza di agiatezza che mostrava la famiglia, aveva fatto si che il giovane imparasse a leggere e scrivere in autonomia e coltivasse la lettura di testi presenti nella canonica della chiesetta. L’amore per la poesia orale, per i miti e le credenze antiche avevano completato la sua istruzione. Giuseppina era rimasta affascinata dalla calligrafia di quel giovane, tanto che sia nel leggere le lettere alla madre come nel rispondere cominciò ad usare un codice del tutto personale, che finì per avere il sopravvento. Fedele alla tradizione, non tanto diversa da quella piemontese, sa mastra ebbe una sola storia d’amore e nove figli. Da principio Giovanni fu costretto ad interrompere la sua permanenza nei Granatieri e destinato a Livorno. Lei lo raggiunse, sempre in qualità di maestra elementare, ma nel breve volgere di un quinquennio tornarono a Santa Vittoria, dove lei continuò a dividersi tra scuola, casa e assistenza, per lunghi anni. Qualche anno prima della senilità, improvvisamente decise di risalire verso Osilo, da cui sarebbe poi ripartita qualche anno più tardi, dopo la morte di Giovanni e la nascita della prima nipotina. La nostalgia per la sua Mondovì s’era riaffacciata prepotentemente; nel breve volgere di qualche giorno, fece i bagagli, mise in vendita la casa e insieme ai figli abbandonò la frazione. Partì quasi all’improvviso, prestissimo, un mattino d’estate, quasi alla chetichella, ormai decisa; non amava più ciò che per tanto tempo aveva amato. La frazione era ancora immersa in quel sonno profondo in cui l’aveva trovata. Ormai aveva preso coscienza della propria illusione, si era adoperata fino allo stremo delle forze per portare in quell’angolo di mondo qualche piccolo segno di civiltà, senza riuscirvi. Tutto a Santa Vittoria era rimasto esattamente come immutato. Nulla, in certi luoghi si modifica, a dispetto del tempo. L’età assume il colore delle rocce e si misura con l’altezza delle piante, l’intonaco delle case, il rosso vivo o tenue dei tetti. Anche gli ardori giovanili avevano subito la potenza dell’usura; gli slanci assistenziali, consunti o ammuffiti negli anfratti delle case antiche e fredde; nei sentieri di campagna, ancora e sempre impercorribili, s’erano adagiati tra gli sterpi i valori fondamentali della vita umana. Pensava Giuseppina, ma così non era, appena salì sul calesse che l’avrebbe portata su al Tuffudesu, capì ciò che in tanti anni le era sfuggito. Stretti in riga, lungo la strada che costeggia il Camposanto, muti, ordinati, come tante statuine , con le lacrime agli occhi, e un sorriso forzato la videro andar via per sempre. Era arrivato il tempo di andare, lasciare per sempre quei luoghi dove il donare era diventato un obbligo e del ricevere non c’era traccia. Capì dopo, di aver portato via se stessa e lasciato il cuore a Santa Vittoria. Ma il cuore, si sa, vive per sempre ma non può essere fissato in un atto notarile.
Giovanna Elies