Rosilde Bertolotti: una poetessa senza memoria
Non crepa un asino
Che sia padrone
D’andare al diavolo
Senza iscrizione.
Giuseppe Giusti
Parlare di Rosilde Bertolotti mi sembra il giusto completamento artistico e la perfetta interconnessione fra due figure eccellenti del mondo dell’arte: da una parte la pittrice Liliana Cano e dall’altra la poetessa Rosilde Bertolotti. Divise e unite nella realizzazione perfetta della locuzione latina del poeta Quinto Orazio Flacco: Ut pictura poësis, un quadro come una poesia o una poesia come un quadro.
Più volte mi sono ripromesso, come innamorato della Sardegna e delle decine di sfaccettature linguistiche che la caratterizzano, di recuperare la memoria di una poetessa conosciuta nel mondo della toponomastica sassarese più che in quello della poesia. Ho ripreso in mano i libri in mio possesso per rileggere con il piacere di sempre le meravigliose poesie di Rosilde Bertolotti, che amava la sua città e i suoi concittadini come pochi, e che, a giudicare da quanto scritto su di lei, ne riceve scarsa attenzione e studi praticamente inesistenti, se si escludono l’introduzione di Aldo Cesaraccio al libro di poesie Lassami fabiddà per le Edizione Poddighe nel 1976, poco più di sei mesi dopo la morte, e fuggevoli citazioni in qualche antologia di poesia sassarese.
Mi lascio andare alla melodia e al suono delle parole cercando la corretta chiave di lettura. Rosilde è una donna, poetessa di vaglia, che maneggia la lingua sassarese come pochi altri, capace di scuotere anche gli animi più duri.
Ha tentato nel suo percorso poetico (129 poesie) di sciogliere l’eterno dilemma che attanaglia i linguisti che si sono occupati dell’ortografia della lingua ‘sassaresa’, che mette in difficoltà gli stessi parlanti locali.
La scelta operata da alcuni poeti del secondo dopoguerra si è orientata verso un’ortografia fonetica, mentre i massimi vocabolaristi (Giosuè Muzzo e Vito Lanza) hanno sempre indicato come l’unica corretta, perché così funziona anche nella lingua nazionale, l’ortografia etimologica o analogica. Rosilde non ha tentennato e, fin dalle sue prime poesie, ha scelto con coraggio una semplificazione della complicatissima lingua sassarese, anche se di tanto in tanto ritorna (inavvertitamente?) all’ortografia etimologica come nella poesia La minigonna dove appare un “incurthada” o in Una famiria di cussì dove, al contrario, ci imbattiamo in “lantadda” con la doppia ‘d’ fonetica, anche se, in altra poesia presente nello stesso libro, si può leggere un “lantadi”. Parole come zirchendi, purthendi, parchì, acciarada, diventano, nel suo riuscito tentativo di semplificare l’ortografia, zischendi, pusthendi, paschì e acciaradda, facendo corrispondere l’ortografia con la pronuncia e semplificandone la lettura. È una lotta ancora aperta, con scrittori e linguisti schierati sui due fronti, senza vinti e vincitori.
Mentre leggo, fa capolino un dilemma che mi accompagna dacché l’ho conosciuta, allora giovane studente, negli anni Sessanta del secolo scorso, prima che l’onda impetuosa del Sessantotto scuotesse fin dalle radici anche il mondo magico della poesia: perché si parla così poco di questa donna sorprendente, quasi anomala nella geografia culturale sassarese?
Mi lambicco alla ricerca di una risposta, ma non trovo una motivazione accettabile per lo scarso interesse che sembra suscitare nei suoi conterranei. Accantono i dubbi e riprendo a scrivere nella speranza di suscitare qualche interesse verso chi della propria città ha cantato la vita quotidiana e i suoi amati concittadini.
È Sassari che parla con lei, è Sassari che vive in lei. Alla sua città e ai suoi concittadini dedica versi commoventi, che, al contrario di altri poeti locali, non hanno il respiro corto del provincialismo. Fin dalla poesia Aggiu lu cori nieddu, vincitrice del primo premio nel Concorso di poesia sarda Città di Ozieri del 1959, appare il tutta la sua genuinità di cantore della Città, mettendo in campo tutti gli strumenti del suo ricco bagaglio linguistico, che nulla ha da invidiare ai più noti poeti, da Pompeo Calvia a Cesarino Mastino.
E quel tarlo terribile che non vuole lasciare la presa continua il suo subdolo lavoro e accresce le mie perplessità sul perché una città così amata mostri così poca riconoscenza per chi l’ha amata come pochi.
È Sassari il suo grande amore, la città e la sua gente. «Si mi z’esciu pa fà una passiggiada / e a pianu a pianu m’abbaiddu in giru / m’abbizzu chi ni soggu innamurada. / Chisth’amori si ciamba in d’un tuimentu / si m’alluntanu. Inogghi è la me’ vida / paschì in dugna carrera v’è un ammentu.» Sono parola da innamorata, parole che tradotte perdono tutta la loro forza emozionale.
Più volte mi sono chiesto chi doveva avere il compito di conservare quel tesoro prezioso che i nostri avi ci hanno lasciato in eredità, fiduciosi nella capacità degli eredi di tutelare il patrimonio culturale ricevuto in dono senza particolari meriti. Ho sempre pensato che fosse un dovere sacro quello di tutelare e vivificare la memoria storica di un popolo, e celebrare la memoria di chi ha saputo leggere nei cuori e ne ha dipinto con le parole la quotidianità. Ma non sempre le cose vanno come il senso comune auspica.
È una memoria commossa e tenera, quando parla delle persone che hanno popolato il cuore della Città, evitando accuratamente di renderli identificabili con persone fisiche realmente esistite, come invece faceva, volutamente, Cesarino Mastino. I personaggi che popolano le sue poesie sono chiaramente esistiti, e a essi dona l’anonimato e la sua tenerezza, anche quando parla di persone isciumpesthi, lantadi, ibadragliadi (malconce, menomate, sconclusionate), ed evitarne l’identificazione diventa una tutela materna verso quei figli adottati in massa. Anche se qua e là affiorano riferimenti all’attualità poco benevoli, come i versi dedicati ai Beatles: «Si no, chi nomu ipiziari / lu chi hani isciubaraddu! / Finza pà ingiugliu è aschamosu, / a me già m’ha buriaddu. / Digghia voshtè, nò è veru? / – Beatles a vò dì cadarani?- / Parò, già l’isthazi bè; / puccinniri e siami sani.»;o quando boccia con disprezzo e sfottò l’utilizzo della minogonna: «Custhantinu, umbè isgiriadu, / dizi: – O ci hai la minigonna / o ti credo poco donna. – / E pà chissu Firumena / chi lu vò propriu cunvintu / l’ha incurthada finz’a chintu.»
È una battaglia strenua che ingaggia contro ‘la lingua’, quell’italiano che, prepotente, cerca di cancellare in modo coloniale ogni traccia di storia linguistica locale. Utilizza tutti i mezzi che la sua verve e la sua sapienza linguistica le mette a disposizione. Non esita a trascinare la lingua di Dante nel fango di un’ironia feroce, creando un effetto comico degno del miglior teatro dialettale, trasformando e deformando l’italiano in un crogiuolo incredibile di effetti speciali per sminuirne il ruolo rispetto al ‘sassarese’. È una lotta improba, ma lei l’ingaggia speranzosa di diventare il David che sconfigge Golia. Fabedda lu sassaresu non è solo un invito a utilizzare la lingua dei nostri antenati, ma la traduzione plastica delle sue idee sul rapporto italiano/dialetto: «(…) Iscoltha a me: si ti poni / a dì: -Sono molto studiatta.- / dugnunu ridendi pensa: / -E la primma cegga a l’hai fatta?- /O candu mi dì: -Il dottore / mi ha messo a mangiare in bianco / perché ci ho la pendice e adesso / ci ho un poco di suono a fianco.- /(…) -Ti scenda un pestone! Eppuro / lo vedi, è facendo acqua, / cammina arrombato al muro!- / (…) -N’è uscito preciso a mia madre, / ci porta, a lo sa? Certe braccia! / Per forza, si mangia a essa, / per quello pare una covaccia!- / Abà già mi cagliu, ipperu, / parò, chi m’aggia cumpresu. / No falla a ridì la jenti, / fabedda lu sassaresu.»
Rimane, però, sempre in sospeso il problema del perché Sassari, città amata e avvolta in un poetico abbraccio, non abbia tributato a questa donna il giusto riconoscimento che ogni figlio deve al genitore e ogni allievo al maestro.
Ho voluto intraprendere un viaggio virtuale nella rete in quella che si può considerare la pietra di paragone del terzo millennio per valutare cosa resta di ciò che i nostri antenati ci hanno tramandato, con l’indicazione di averne cura. Mi dicevo, tra me e me, con tutta l’ingenuità che ancora alberga nei cuori dei non più giovani: «Sarà un lavoro improbo verificare tutto quanto è stato scritto e detto su Rosilde Bertolotti, la straordinaria cantrice della Sassari degli anni precedenti la Seconda guerra mondiale e il suo immediato dopoguerra, in quegli anni da molti considerati mitici, di cui tanto si favoleggia fra quei sassaresi realmente impiccababbu». Ho impugnato il mouse come fosse la bacchetta magica che apre tutte le porte e alla quale nulla può resistere, con la certezza che sarei stato travolto dalle informazioni. Digito il nome della poetessa e, stupore, si aprono quattro, ben quattro pagine di indirizzi che portano quasi esclusivamente alla scuola primaria sita in via Gennargentu e a una via in località Ottava, a dimostrazione che qualcuno aveva pensato di ricordare quella sassaresissima maestra elementare che aveva nel cuore Sassari e la sua lingua. In quelle pagine striminzite di Google, non trovo alcuna traccia di un qualche scritto della Bertolotti o su di lei. Nessuno sembrava se ne fosse occupato. Allora ho tentato di aggirare l’ostacolo e sono andato a visitare alcune pagine Facebook dedicate alla nostra città e ho ricevuto quello che si può definire il classico colpo di grazia: quasi nessuno, fra migliaia di Sassaresi che frequentano quei siti, ha la più pallida idea di chi fossero i maggiori poeti e scrittori sassaresi, ma, e la cosa mi ha particolarmente colpito, non hanno la più pallida idea della lingua che nel passato univa tutti i cittadini, senza distinzione di classe o cultura. In quel mondo digitale si scrive in italiano (se così possiamo dire) e si sbeffeggia la nobile lingua sassarese, utilizzandone una versione stravagante e molto poco curata, trasformandola in una lingua priva di qualsiasi credibilità. Tutti gli “scriventi” sui social utilizzano una lingua tanto originale da far dubitare seriamente delle loro capacità comunicative. A onor del vero, va sottolineato che l’utilizzo del dialetto soffre dello stesso maltrattamento riservato alla lingua italiana.
Cacografie e solecismi, seminati a larga mano da ignorantoni, parafrasando Capuana, la fanno da padroni in quel caravanserraglio rappresentato dai social che ospitano, non gradito, il “dialetto” sassarese. Ma questo aprirebbe una discussione che ci porterebbe lontano.
Dopo avere cercato responsabilità esterne a questa gravissima inadempienza, a questa sepoltura eterna di una memoria che andrebbe invece rinvigorita e vivificata con l’amore che si dovrebbe per chi ha scritto la nostra storia e contribuito a mantenere viva la lingua dei padri.
Ho pensato che potesse essere il prezzo che una donna deve pagare per trovare il suo spazio in un mondo pensato e realizzato “al maschile”. Forte di questa convinzione ho provato a fare la stessa operazione con il poeta Cesarino Mastino (Ziu Gesaru), che, fra i tanti, mi sembra quello più vicino alla Bertolotti, fermo restando che i poeti non possono essere pesati sulle bilance per valutarne il peso. Il risultato è stato a dir poco devastante. Si ha l’impressione che di Rosilde Bertolotti rimanga solo una via in quel di Ottava e una sezione staccata della scuola primaria in via Gennargentu, mentre di Cesarino Mastino si parla un po’ ovunque, tanto da trovarne tracce anche negli USA.
Una chiave di lettura del perché Rosilde stia “vivendo” un immeritato oblio, si può cogliere nell’introduzione di Aldo Cesaraccio che, dopo parole di elogio per l’arte poetica e per avere «risolto i problemi di scrittura, di espressione e di comunicativa del dialetto sassarese, quello autentico», lancia un autentico attacco alla donna Bertolotti, sotto forma di pseudo-complimento. «Rosilde Bertolotti, che se fosse ancor viva tutto sarebbe fuorché “femminista”, fu donna, signora, educatrice».
Leggere fra le righe può essere un esercizio talvolta pedante, ma a pensar male talvolta si coglie nel segno. Perché uno dei più illustri cittadini sente il bisogno di questo inciso? Sembra di capire che un uomo può essere birichino, viveur, aduso a frequentazioni poco commendevoli, fare talvolta abuso di sostanze nocive e illecite, essere un inguaribile donnaiolo, senza che i suoi comportamenti “privati” e le sue abitudini pesino un solo grammo nel giudizio sulla sua opera, mentre per una donna fioriscono i distinguo, i però, i ma… Se fosse stata femminista, avrebbe potuto ancora essere, per Aldo Cesaraccio, «una poetessa valida e gentile che seppe davvero essere una “voce” di Sassari. E può continuare a esserlo»? Avrebbe meritato in quel caso la damnatio memoriae che sembra affliggerla? È duro ammetterlo, ma ritengo che la nebbia che ne sta sfumando il ricordo sia figlia proprio del prezzo che ogni donna deve pagare. E qui sta anche la risposta alle perplessità di Giuseppe Dessì sul perché le uniche figure sarde di rilevanza mondiale siano donne; queste devono lavorare il doppio, studiare il doppio degli uomini per raggiungere gli stessi obiettivi. A parità di condizioni non c’è partita: vince senza ostacoli chi ha costruito questa società e le sue regole.
Forse questo dovrebbe portarci tutti a una franca discussione sul ruolo della donna nel mondo della cultura, senza anatemi, ma anche senza difese d’ufficio o di posizione.
Gianni Avorio