Estratto da “Il Rosello”, 18 Luglio 1993.Nel 1964 Pasolini affermava che la realtà reale non ha poeti.
Se per “realtà reale” si intende quell’immenso spazio sociale sommerso dall’ideale neocapitalistico e consumistico, è probabile che Pasolini avesse ragione.Le società vivono, spesso, alternando periodi di “boom” economico e conseguentemente psicologico, a periodi di crisi e di travaglio esistenziale. Il naufragio delle illusioni favorisce il ritorno nel privato più privato che diventa talamo fecondo per la poesia. Quantunque ciò, la poesia non fa parte del costume, né da sola stigmatizza un’epoca. I concorsi di poesia registrano un sempre crescente numero di partecipanti, le serate dedicate alla lettura di brani poetici aumentano di anno in anno e possono contare su una discreta affluenza di pubblico, eppure, dati alla mano, la “poesia” non si vende (almeno così sostengono gli editori). Nella maggior parte dei casi, la poesia, sopravvive grazie ad una accurata distribuzione semiclandestina, “da amico ad amico” per intenderci; sono sufficienti un centinaio di copie per coprire le richieste e il cerchio si chiude. Non vi è dubbio che, troppo spesso, alcune forme di poesia non sono altro che una sorta di patologia intimistica; nella maggior parte dei casi chi fa poesia non è poeta, ma pur di non scomparire l’ars poetica accetta anche situazioni di questo tipo. Possedere una esistenza che stia al di fuori degli eventi storici, delle lotte di massa, sembra diventata una necessità se non addirittura un obbligo. Far poesia è, tra l’altro, una delle forme (letterarie) più semplici per comunicare con gli altri, direi proprio per stabilire con gli altri un rapporto paritario e creativo allo stesso tempo. La poesia è frutto di intuizione, di emozione, di idee ma anche di costruzione, di selezione, di approfondimento logico. Un condensato organico di parole può arrivare, attraverso una manipolazione cosciente, ad essere definito “forma d’arte”; una situazione incontestabile nel tempo, una realtà che sta dentro di noi e che però ci trascende.In Giappone il fenomeno “poesia” interessa più di un milione di persone, seppur in modi e toni diversi rispetto alla tradizione occidentale. Gli “haiku” giapponesi, dopo aver influenzato per secoli la poesia asiatica, cominciano, non proprio timidamente, a far presenza in mezzo a noi. Come genere poetico si perde nella notte dei tempi, l’origine dell’”haiku” va ricercata nella cosiddetta “poesia a catena”, una sorta di gara o gioco poetico in cui i partecipanti aggiungevano versi di quattordici sillabe ad un primo verso dato come tema e chiamato hokku. Dal ‘600 in poi gli haiku, grazie ad uno dei maggiori poeti giapponesi, Basho, divennero un genere tipicamente lirico.Ed è proprio quest’ultimo aspetto, il lirismo, a permettere la loro larga diffusione. Nella liricità confluiscono il mondo e l’io, afferma Wolfang Keiser; l’universale e il personale fusi in un unico intento scatenano il delirio collettivo come anche la più spietata tra le meditazioni, ed allora è poesia. In Sardegna il fenomeno “poesia” è circoscritto nella versione ufficiale, è dilagante nella ufficiosità. “Sardegna, terra di poesia” si legge di frequente, ed il riferimento non è dovuto solo all’incanto del paesaggio, ma anche e soprattutto a quella grande tradizione che si chiama “poesia orale”, che la conferma in una sorta di particolarismo tipico dell’area mediterranea. La poesia rimata, cadenzata, ritmata, è il motivo più autentico della nostra cultura, è l’espressione più viva delle grandi solitudini, è l’elemento di coesione nelle grandi difficoltà. Diversamente dal Giappone la Sardegna non fa un buon uso di questa omerica peculiarità, rivisitata continuamente e profondamente solo nella sfera privata. Sono sempre meno numerose le esibizioni di poesia estemporanea all’interno delle grandi festività paesane e zonali, così come sono pochissimi i Concorsi di poesia organizzati che curino nello specifico la poesia della tradizione. Sul versante della poesia che più si richiama alla tradizione italiana, le voci non sono meno numerose e meno qualificate di quanto possano essere quelle della poesia orale. Nella Sardegna dai numerosi ed insoluti problemi, l’esigenza della poesia cresce e si sviluppa fino a diventare una vera e propria categoria dell’uomo. E non è solo un antidoto al disordine esistenziale di questa di questa nostra epoca ma anche, e soprattutto, un modo per rivelarci agli altri e cucire con essi quel rapporto che con la sola voce non si riesce a determinare. “Dammi una poesia e ti dirò chi sei” potrebbe essere lo slogan di questo fenomeno.Questo vale anche per la poetessa Rosilde Bertolotti, una Luna cosi, prima di lei, non l’aveva immaginata nessuno.Giovanna EliesLa LunaCanti notti, acciaradda a lu balchoni,cuntimprendi la luna, aggiu pinsaddudi pigliammi un’ischara e azzendi a pianu a pianugiumpì finza a vidella propriu affaccae, palchì no? Finza a punilli manu.La luna, incantu di la pizzinnia!Ischulthendi li beddi sirinaddieu nò ti diggu cantu mi piazìa!Pinsaba: -È un paradisupienu di luzi e di fiori.E accò chi aggiu sabuddu, foramari!,ch’è un diserthu africanu seccu che predda pumizza, a ti pari?Cà pudìa immaginalla cussì fea?Chistha è matroffa niedda,althru che fiori! Nò v’è mancu zea!Pobara umanidaiipardhiziendi un monti di dinà,ma cosa zerchi? Mancu tu lu sai!Cumenti chi nò n’aggi di prinetti: li maranni chi affriggini la terra,la jenti triburadda da la fami, chi è sempri minazzada da la gherra…Lassara isthà la luna, la lampana più bedda di lu zeru,lassa chi impratieggia li balchoni,e allegria la pizzinnia innamuradda chi ischoltha li canzoni!Tu, cun chisthu azza e faradi lu LEM z’hai furaddu li sonni di la nosthra pizzinnia.Nò z’hai mandaddu tuttu innorammaraE abà i’ lu mundu nò v’è più puisia!
Rosilde Bertolotti