In morte di un grande ed umile educatore
La pandemia ci sta privando anche del bisogno legittimo di esprimere fisicamente, di persona, il dolore per le persone care che scompaiono. Ognuno di noi cerca alternative espressive che non ci condannino ad un disumano silenzio. Per me la surroga è rappresentata dalla scrittura e così cerco di esternare i miei sentimenti per una persona a me molto cara venuta a mancare lontano da qui, a Perugia, e quindi – in pratica – irraggiungibile.
Era un sacerdote, don Francesco Spingola, che nell’ultima fase della vita ha formato generazioni di cantori e musicisti della diocesi del capoluogo umbro ma che a metà degli anni ’60 rappresentò per decine di adolescenti calabresi, alle prese con i problemi della crescita e della formazione, un punto di riferimento insostituibile, forse unico.
Di quella folta schiera di giovani facevo parte anch’io. Il luogo di quell’incontro fu una cittadina della provincia di Cosenza, Cassano all’Ionio, sede di diocesi. Don Francesco Spingola, originario di un altro paesino calabrese, Verbicaro, era stato ordinato sacerdote nella cattedrale di Cassano e lì era rimasto portando con sé la sua grande passione per la musica. Passione che voleva, aveva il bisogno di condividere. Per questo fondò una Schola Cantorum nella quale pian piano fece confluire tanti di noi, anche quelli alle prese con il cambio della voce determinato dalla trasformazione del fisico.
Lontano da ogni forma di bigottismo, da ogni forma di autoritarismo e di controllo sulle presenze in chiesa, alle messe e alle altre funzioni, don Francesco aveva solo un modo per riuscire ad aggregare: il rispetto, la comprensione, l’ascolto. Non chiedeva a nessuno atti di fede, chiedeva soltanto l’impegno a collaborare in quella formidabile scuola di condivisione che è la polifonia. Nell’oratorio del quale si occupava ogni sera, ci faceva sfogare con interminabili partite di ping pong o di calciobalilla, poi ci radunava e ci insegnava le parti che sezione per sezione dovevamo interpretare nei canti ch’egli sceglieva. Così si radunarono intorno a lui ragazzi provenienti dalle famiglie delle più diverse condizioni sociali, economiche, politiche. Il suo insegnamento non mirava mai a creare ‘i primi della classe’. Non nasceva mai alcuno spirito di competizione, ma sempre e comunque una gran voglia di cantare insieme, aiutandoci, sollecitandoci, stando vicini gli uni agli altri. E con quello spirito partecipammo a concorsi canori in varie zone del meridione d’Italia.
Ma don Francesco era anche cosciente che quei giovani dei quali si occupava attraversavano la fase di maggiore violenza ormonale dell’esistenza. Come fare a parlare di sesso, di rispetto verso le donne, di reciprocità? Mai una predica, mai una condanna, sempre un sorriso, l’ironia, esempi indiretti. Come avvenne nel 1964, subito dopo la conclusione del festival di Sanremo. Io non avevo seguito la rassegna canora perché nel giugno precedente era morto mio padre e allora il lutto si osservava anche tenendo spento il televisore che noi già avevamo. Una sera ci radunò, si mise all’harmonium e – senza fare alcun riferimento d’ordine comportamentale – si limitò ad eseguire (musica e canto) Non ho l’età (per amarti) canzone portata al successo da Gigliola Cinguetti. Capimmo la lezione e alcuni di noi, i più grandi, vollero rassicurarlo che il problema era anche maschile, non solo femminile.
Educatore e formatore, senza averne alcuna veste ufficiale, entrò con tale importanza nelle nostre vite che nessuno di noi ne ha mai rimosso il ricordo. Tanto che nei giorni precedenti il primo lockdown totale imposto dal covid in primavera, avevamo progettato di andarlo a trovare per salutarlo e per cantare di nuovo insieme sotto la sua direzione. Saremmo partiti in venti, dalle parti più diverse d’Italia per ritrovarci a Perugia e fargli una sorpresa. Ma il primo dpcm bloccò tutte le nostre partenze, con nostro grande rammarico perché sapevamo che la malattia di cui soffriva gli stava portando via la vita.
Ora che non c’è più non posso purtroppo dirgli che è gran merito suo se nella mia vita ho sempre privilegiato collaborazione, condivisione, solidarietà piuttosto che l’orgoglio individuale. Lui insegnante/non insegnante, come invece fu una professoressa della mia seconda media che in quell’unico anno in cui fui suo allievo per lettere e storia mi seppe convincere della necessità di attingere alle fonti più diverse per cercare di capire il mondo, per non credere mai a chi si arroga il privilegio d’essere il detentore esclusivo di verità assolute. Si chiamava Bettina Bruno, era napoletana e non dimenticherò mai che fu lei a farmi conoscere l’Espresso nel formato lenzuolo di allora.
Entrambi resteranno vivissimi nei miei ricordi, modelli formidabili da imitare per tentare di costruire un rapporto corretto con le giovani generazioni. Altro che sfrenato protagonismo individuale, esposizione di sé, prevaricazione! I tanti, troppi cattivi maestri di oggi dovranno fare i conti con una convivenza sempre più difficile. Io posso soltanto dire che grazie a quel maestro ancor oggi conservo uno splendido rapporto con tutti i compagni d’avventura di allora, nelle nostre forti differenze, ma nel comune impegno di cercare di migliorare il mondo nel quale viviamo.
Ottavio Olita