Da osilese , che appartenga alla nobile famiglia Crispo e che sia un navigato potatore non è certo una incongruenza.Osilo, nel tempo ha custodito anche quest’arte, perché di arte si tratta.Ricordiamo, se pur come accenno, i più nomati potatori, tra fine Ottocento e Novecento: il marito dell’ostetrica signora Pia (dovrebbe essere un certo Pintus), i Piana Santino, Antonio Cossu-Barca, Francesco Chessa (noto caltzone), Giovanni Strino, i poeti Salvatore Piras e Sebastiano Loriga e probabilmente altri che ala memoria popolare non ricorda, tra i viventi Antonio Fadda Sanciu. Che un osilese di generazione, nato e cresciuto fuori dai nostri confini -nella meravigliosa Puglia- abbia raccolto il testimone, non può che essere un vanto. Giovanna Elies
Memorie di Vituccio il potatore.
La stagione della potatura rappresenta in olivicoltura, la fase più tecnica e specialistica del ciclo colturale, e per l’agricoltore che la sa praticare in proprio, l’occasione ed il vanto per dimostrare agli altri di saper regolare la capacità produttiva degli alberi; il potatore oggi è una figura professionale ormai rara e ricercata, e per me che la pratico da 40 anni nella mia azienda è occasione di risparmio… e di valenze extraeconomiche. Mi spiego meglio, il mio primo maestro fu Rocco mio Padre, decano dei coldiretti di Montecaprino, le scale di legno erano l’unico mezzo per raggiungere e capitozzare le cime, lui non conosceva il floema e lo xilema, non sapeva esattamente in che modo agissero azoto, fosforo e potassio sulla fisiologia della pianta, ma rapido come una lucertola saliva lungo tronchi e branche e riusciva ogni anno ad ottenere poderose produzioni con l’aiuto del più nobile degli ammendanti, il letame; un particolare mi colpiva quando, bambino assistevo alle operazioni di potatura di mio Padre e della sua squadra di operai: lavoravano silenziosi, non parlavano fra di loro e nello stesso tempo leggevo sui loro volti smorfie, sorrisi, sembrava che mentre operavano con seghe e forbici, pensassero a qualcosa di diverso dal lavoro.
Durante l’adolescenza, durante le mie prime esperienze di lavoro, ero troppo concentrato sulla pratica, cercavo di mettere a frutto gli insegnamenti di Babbo e del maestro della scuola agraria, ma col passare degli anni man mano che l’esperienza rendeva automatismo alle mie mani, mi accorsi che si creava spazio nella mia mente durante la potatura, una inspiegabile potenzialità di pensiero si proponeva e mi rendeva duplice valenza alla giornata lavorativa: potatura ed astrazione! A cosa penso durante il lavoro? Babbo sicuramente pensava alla famiglia da portare avanti, alle cambiali, al maiale da scannare e da condividere con i parenti, a mia sorella da maritare con la preziosa dote, pensava sempre al presente ed al futuro; io penso spesso al passato, la separazione mi ha segnato e scavalco a ritroso il giorno delle nozze. Vige una mia consuetudine mentale ormai, quando a gennaio dopo la raccolta metto mano a segacci con aste telescopiche ed alla forbice con batteria al litio, i ricordi vanno al primo anno di lavoro, ai miei vent’anni, col Babbo che mi affida la prima particella di terra arborata: “Vituccio questi sono i tuoi primi alberi… fammi vedere cosa sai fare!” La mia comitiva era universitaria, i figli di papà, i signurini li chiamavano qui in paese, ed io stesso mi meravigliavo che mi accettassero, anzi continuo a sostenere mi ritenessero fondamentale nel gruppo nonostante appartenessi al mondo della ruralità; erano diversi da me in tutto, anche nell’abbronzatura e sorrido: la mia era da manuale del contadino pugliese, già da maggio la canottiera veniva fotocopiata sul mio corpo lasciando braccia nere ed un semicerchio rosso sul petto, il tutto svelato ai compagni il primo giorno di mare; fra loro, quelli più snob erano Luca e Daniele, i figli del notaio; arrivavano dopo le vacanze di Natale con il naso e la fronte abbrustoliti sulle piste di Cervinia e quel candore intorno agli occhi, che era la traccia degli occhiali francesi Cèbè, i più “cult” dell’epoca. Può anche darsi che i due fratelli affittassero il gatto delle nevi durante le loro vacanze natalizie, ma il 3 ruote Apecar della mia azienda era per loro occasione di divertimento superiore, ed anche per questo con il resto della comitiva venivano spesso a trovarmi in campagna; tutti ammassati sul cassone li scorrazzavo su collinette e per vialetti con le dovute soste alla frutta di stagione. Meravigliose erano le giornate di tarda primavera, il fotoperiodo ha la capacità di allineare e far partire all’unisono gli istinti riproduttivi di tutte le forme viventi, animali e vegetali; e così la mignolatura degli olivi coincideva con i primi amori adolescenziali.
In quella prima gestione in autonomia dell’oliveto, la mignolatura fu naturalmente attesa con ansia; se le mignole, i fiorellini bianchi che spuntavano sulla chioma erano tanti, significava che avevo potato bene, che avevo esaltato le potenzialità dei rami fruttiferi, e poi c’era l’allegagione, la loro fecondazione produceva i frutticini. E fra la mignolatura e l’allegagione ci fu l’occhio vigile di mio Padre: “Vitù ci ccoos si ccumbinat alle cime di Melfi vicino al confine di fratm? T’ sì scrdat di leva’ l’minghionr d’a nbacc all’arbr!!!” Aveva ragione Babbo, non avevo eliminato i succhioni dagli alberi della cultivar Cima di Melfi; i succhioni sono germogli vigorosi che crescono verticali nell’annata precedente, in genere al centro della chioma; l’anno successivo vengono eliminati per due motivi: non portano fiori (infatti i vecchi contadini dicono che il ramo è mascolo) e nello stesso tempo succhiano linfa grezza ed elementi nutritivi preziosi per i rami fruttiferi. Quella domenica mattina di maggio avanzato, ero proprio intento ad eliminare i succhioni dalle branche, testa in sù appoggiato al tronco con i capelli imbiancati dai petalini delle mignole, quando inattesa arrivò Rita col suo Ciao rosso: “Buon giorno lavoratore; sono inviata in avanscoperta, gli altri vogliono notizie delle Bigarro’… sono pronte?” E scoppiò a ridere, conscia del potere che esercitava su di me. Un tuffo al cuore, il tempo di realizzare, il segaccio taglientissimo accuratamente posato a terra, ed ecco davanti a me la più carina, la più dolce della comitiva; le ciliegie “Bigareau Moreau” erano mature nel frutteto e sapevo benissimo che erano stati gli altri a suggerire a Rita di concordare una bella scorpacciata domenicale, ma a me piaceva immaginare che l’iniziativa fosse stata sua.
Iniziò così, nonostante la mia timidezza la prima storia d’amore della mia vita. Associo ancora la sua fisicità, i suoi sorrisi, gli istanti felici con lei ai profumi di quella magica estate, la sera dei tigli resterà indimenticabile… ai primi di giugno erano in piena fioritura lungo il viale che conduce alla mia azienda, c’era il calzone di cipolle nel forno di Mammà, e mentre i signurini degustavano le burratine di Gioia del Colle, Rita arrivò per ultima; scese dal motorino ed esclamò… “Vitù che profumo meraviglioso!!!” E mi baciò sotto ad un tiglio; ma c’era una fragranza della natura più forte in arrivo nelle settimane successive: l’origano di montagna del bosco di Verrutoli; sconfinammo dalla Puglia in Basilicata per raccoglierlo, ma del gruppo ero naturalmente io quello che riusciva ad individuarlo fra le rocce; lo annusavamo rapiti ed ero felice che Rita lo consegnasse a sua madre, era la prima occasione per sentirmi un genero generoso di una suocera che in realtà non avrei mai frequentato. Dalla fine di luglio la situazione infatti iniziò a degenerare, Rita aveva cambiato umore, non c’era più il trasporto dei mesi precedenti; le olivette crescevano sui rami ed io le raccontavo dei miei timori entomologici, la tignoletta farfallina malefica, avrebbe potuto nascondere le sue uova nelle drupe… e poi Lei, l’insetto più temuto, “Sua mostruosità” la mosca dell’olivo che con le piogge agostane diventa il terrore degli olivicoltori di tutto il bacino del Mediterraneo. Ma Rita era assente, sì mi ascoltava, fingeva interesse, e per la prima volta scoprivo che l’errore più grave che un innamorato possa commettere, è proiettare nel proprio partner emozioni ed interessi che in realtà non gli appartengono. Quella mattina di fine agosto era dedicata ad una potatura particolare e faticosa, l’eliminazione con l’accetta dei polloni radicali, germogli “dal piede” che durante la raccolta interferiscono con la posa delle reti intorno agli alberi; nei giorni precedenti inoltre avevo litigato con mio padre, perché mi ero rifiutato di arare l’oliveto; fui il primo del paese a trasformare il suolo in un prato, un agronomo mi aveva suggerito di non arare, le radici superficiali dell’olivo secondo i docenti vengono danneggiate, inoltre la cotica erbosa è utile perché riduce l’evapotraspirazione.
Ed ecco Rita; la notizia circolava in comitiva da giorni, e quando mi raggiunse in campagna per comunicarmi che sarebbe andata all’estero presso una scuola da interprete, l’unica risorsa che trovai in me, fu il buonsenso; in fondo era giusto così, era quello il suo futuro, qui in paese a chi avrebbe parlato in francese, alle galline? Soddisfatto per la mia reazione matura che preludeva ad un diplomatico distacco, rientrai a casa, e mentre la radio libera mandava in onda Sorry, seems to be the hardest word di Elton John, la canzone della nostra estate felice, scoppiai in un pianto disperato. Quell’autunno mi riservò una profonda crisi interiore, associai l’abbandono di Rita alla mia attività; si aggiungevano indizi, naturalmente errati, ma che in quel momento sembravano avvalorare le mie convinzioni. Mio cugino Vincenzo, come altri figli di agricoltori aveva abbandonato la tradizione di famiglia; lui aveva intrapreso la carriera militare, e quando veniva in licenza mi raccontava entusiasta della vita romana; i signurini erano tutti nelle sedi universitarie a seguire i loro corsi di studio, e pensavo al futuro prossimo venturo: una volta diventati avvocato, medico, ingegnere, avrebbero riservato un posto per Vituccio il contadino nelle loro frequentazioni?
Arrivò novembre e la mia prima stagione di raccolta delle olive; l’entusiasmo riprese le redini della mia vita, non ero solo l’agricoltore che giungeva al termine del suo primo ciclo produttivo, mi accorsi che ero parte corale di un processo naturale, l’imprinting ricevuto dalla tradizione familiare aveva dato i suoi risultati. Durante la raccolta piovve a dirotto; mio padre, come tutti i suoi compari ebbe difficoltà nelle operazioni di raccolta: il terreno si imbibiva e le reti per la raccolta si infangavano; quella mattina dopo l’ennesimo diluvio era soleggiata, posai le reti sul prato del mio frutteto ed iniziai a raccogliere le olive con l’abbacchiatore; le reti sul prato trinciato non si sporcavano, e mia Madre tutta ogogliosa uscì fuori dalla masseria, e divertita ingiunse a mio Padre: “Rocco, sfaticato che non sei aldr, visto che nell’appezzamento tuo nan s’ pot trasì che jè tutto infangato…datti nà mossa e vai ad aiutà a Vitucc!!” Vidi arrivare mio padre borbottando al cospetto del tanto avversato prato; mi sorrise e mi sgridò bonario: si vvist per colpa tua e del tuo prato che brutta figura aggiu fatt con mammt?”
Alfredo Crispo