Un pezzo di Grecia in Sardegna.
di Salvatore Meloni
Era un freddo gennaio quello del 1676. Una nave francese, partita novantasette giorni prima dal porto greco di Vitilo, nel Peloponneso, arrivava a Genova con un carico di disperati. Erano partiti in settecento ma tanti erano rimasti a terra perché il veliero che doveva rientrare nella patria del Re Sole non aveva più posti disponibili. E tanti, troppi, in ragione di stenti e malattie, lasciarono la vita in quella interminabile traversata. Un viaggio duro, al limite della sopportazione, reso lungo e difficile per evitare pirati e navi spagnole. Morirono quasi 150 persone. In compenso, nella calca asfissiante e puzzolente di bordo, nacquero sedici nuove vite.
Qualche anno prima i turchi presero Creta e, seppur non completamente, erano già riusciti a soggiogare la Grecia. Nella montuosa penisola di Mani, pur non avendo il pieno possesso dell’area, i soldati del Sultano seppero sfruttare le diatribe tra i potentati locali. In particolare tra il clan dei Kosmas – che si legarono ai turchi – e quelli degli Itriani e degli Stephanopoulos. Gli Itriani menavano vanto di una presunta discendenza dai Medici fiorentini, mentre gli Stephanopolos erano gli eredi dell’antica famiglia anatolica dei Comneni che diede a Costantinopoli ben sei imperatori. Una dinastia che dopo la fuga seguita al saccheggio crociato della capitale nel 1204, fondòTrebisonda. Persa anche questa meravigliosa città per mano ottomana a metà del Quattrocento, la stirpe fu costretta all’esilio in Tracia e quasi sterminata. Fino a ritrovarsi anni dopo, con pochi superstiti, proprio nella penisola di Mani.
Sia gli Itriani che gli Stephanopoulos, ormai succubi delle prepotenze dei Kosmas,cercavano soluzioni per lasciare una terra divenuta ostile. Furono proprio i discendenti dei Comneni a stipulare un accordo con la Repubblica di Genova per trovare un posto dove vivere in pace. Quel luogo aveva i contorni frastagliati e aspri di un’isola ricca di mare e neve. Abbastanza grande e spopolata da potersi permettere nuovi ospiti. Abitata da gente forte e fiera ma dominata dalla ricca e potente città ligure. Che decise di dare protezione ai greci in cambio di fedeltà, voglia di lavorare per rendere produttive le terre assegnate e il non facile sacrificio di abbandonare la fede ortodossa per abbracciare il cattolicesimo.
Nella primavera del 1676 queste anime erranti sbarcarono nel golfo di Sagone, a nord di Ajaccio, e vennero sistemate in cinque villaggi della regione di Paomia sotto l’autorità di un delegato genovese e del supporto dei capi-clan che componevano il numeroso gruppo.
Tuttavia, in quella terra selvaggia, i greci non trovarono la pace anelata alla partenza. Trovarono invece diffidenza, sospetto, ostilità. Le popolazioni locali videro queste genti arrivate da lontano come un corpo estraneo: per lingua, cultura, religione. E soprattutto come usurpatori di pascoli e risorse. Un po’ come i corsi avevano da tempo considerato i genovesi. Colonizzatori prepotenti e avidi.
Nel 1729 la ribellione contro Genova divenne corposa e organizzata. I coloni greci si trovarono ascritti al versante di chi, anni prima, aveva garantito loro protezione. Questa appartenenza al campo genovese, indotta per necessità o convinzione, fece degli ellenici un facile bersaglio dei rivoluzionari. Riparati nella roccaforte di Ajaccio nel 1731 – con molti uomini costretti ad arruolarsi nelle milizie della Repubblica pur di avere una qualche forma di sostentamento – la vita per i greci si fece ancora più complicata. È in questo quadro che cominciò a maturare l’idea di una fuga nella vicina Sardegna, passata pochi anni prima nelle mani dei Savoia. Tra propositi isolati di fughe verso le coste sarde o verso Minorca e trattative segrete da parte di alcune autorevoli figure della comunità fin dal 1732, si giunse, nel 1749, ad un vero e proprio accordo con le autorità sabaude per un tentativo di colonizzazione in terra sarda. Con i genovesi – nemici dei Savoia – pronti a mettersi di traverso rispetto al proposito. Addirittura si prefigurava la possibilità di un trasferimento massiccio di coloni greci direttamente dal Peloponneso ma la cosa non si concretizzò anche per il timore, da parte sabauda, di una contrarietà del Papa ad un ingresso corposo di cristiano-ortodossi in lande sotto il sigillo cattolico.
La Sardegna, come la Corsica, era un’isola altrettanto povera di genti, con larghi spazi disabitati, seppur fruiti nel pascolo transumante o in povere forme di agricoltura.Un luogo che poteva diventare una nuova terra promessa.I Savoia – bisognosi di braccia per rendere produttivo un possedimento non ricchissimo – qualche anno prima erano riusciti nell’intento di popolare l’isola di San Pietro con gli esuli tabarchini.
A seguito di un preciso accordo con il re Carlo Emanuele III, nell’ottobredel 1750, settantadue anime provenienti dalla Corsica sbarcarono nel porto fluviale di Bosa, cittadina dominata dal castello dei Malaspina e aperta al mare da una vasta ferita incisa dal fiume Temo. Uomini, donne, bambini, alcuni molto avanti negli anni. Misero piede nella banchina afflitti e malconci ma speranzosi di trovare finalmente sostentamento, tranquillità e pace. Pare fossero capeggiati da Dimas Stefanopoli, figura autorevole anche in ragione del suo status di guida religiosa. Quasi subito, questa comunità che nel giro di qualche settimana crebbe fino a 38 famiglie per l’apporto di nuovi arrivi, fu destinata a popolare un’area non lontano dalla città. Terre che lasciavano alle spalle la costa per guardare all’interno: verso i salti di Padria, verso l’imponente tavolato del monte Minerva, con lo sguardo al territorio di Villanova Monteleone.
Fu proprio da questo centro che arrivò il cavalier Don Antonio Todde, colui che ebbe l’incarico governativo di assegnare i lotti ai nuovi coloni e che in seguito divenne il titolare di un feudo che avrebbe compreso proprio quella zona. L’area era sistemata a ridosso di un luogo dominato dalla chiesa seicentescadi San Cristoforo, edificata nel 1606 su commissione del vescovo di Bosa Gavino Manca Cedrelles. Un edificio adibito al culto e privo del campanile che nel nome richiamava Bisanzio più che Roma. In linea con tutta una serie di vecchi villaggi abbandonati che nella zona avevano nomi e connotati bizantini. In fondo, il richiamo a Cristoforo aveva per i greci un vago sapore di casa. Nacque lì il primo nucleo abitato, con tre vie parallele che si dipanavano proprio dalla chiesa “foranea” dei bosani. La Villa San Cristoforo nacque ufficialmente il 10 giugno 1751 sotto la protezione reale. Qualche decennio dopo avrebbe acquisito la definitiva denominazione di Montresta.
Già da tempo quel territorio fu individuato come scelta possibile proprio perché disabitato, ricco d’acqua, con terreni potenzialmente fertili seppur da bonificare ma anche regno selvaggio della delinquenza banditesca. Colonizzarlo avrebbe introdotto una qualche forma di controllo del fenomeno.
Ma soprattutto, la gran parte dei terreni da assegnare erano privi di valide carte di possesso, nonostante la nobiltà bosana considerasse quei luoghi come cosa propria in ragione di un diritto consuetudinario cristallizzato da secoli. E la cessione, imposta dall’alto, condusse a controversie giudiziarie, tensioni plateali e vere e proprie sommosse organizzate. I coloni stavano in mezzo, incolpevoli vittime di queste diatribe.
Fin dall’inizio, dunque, la situazione non fu facile. La presenza della malaria causò numerose vittime; ilotti assegnati erano incolti e non sempre i prestiti concessi dal Regio Fisco erano sufficienti a garantire le opere di bonifica, la coltivazione e la costruzione delle case. La comunità dipendeva spesso dalle razioni governative nonostante alcuni privilegi legati tuttavia alla soggezione al sovrano e alla fede cattolica. Diversi furono i dispetti, le intimidazioni, i danneggiamenti di banditi al soldo dei ricchi e influenti signori bosani.E spesso l’atteggiamento degli stessi coloni non era esattamente pacifico. A questo si aggiunse anche il malcontento iniziale in seno alla comunità per i criteri di assegnazione ritenuti ingiusti e poco equilibrati tra le diverse famiglie. Tuttavia, alla fine, l’attribuzione delle terre fu resa effettiva il 20 ottobre del 1751.
Le dolorose scudisciate di un beffardo destino sembravano accanirsi ancora contro questa umanità in cerca di vita. La fuga dalla Corsica era stata spinta da un’integrazione mai avvenuta con le popolazioni locali. Ora la situazione tornava a ripetersi. E senza che le autorità incistate a Bosa facessero molto per garantire i diritti dei coloni. Anzi, spesso coprivano abusi e prepotenze a loro danno. Anche l’attenzione della Chiesa fu fredda verso un corpo ritenuto estraneo e considerato poco affidabile in fatto di fede. Il vescovo di Bosa Raimondo Quesada degnò di una visita la colonia il 12 aprile 1751, dopo sei mesi dall’arrivo delle 38 famiglie a Villa San Cristoforo.
Due anni dopo vi fu un fallito tentativo di portare nuovi coloni da Ajaccio ma non mancarono comunque ulteriori arrivi. C’era anche chi tentava di fuggire perché insoddisfatto e in troppi non rispettavano pienamente il patto sul quale si reggevano gli accordi tra l’amministrazione regia e i greci. Tutto questo portòprogressivamente Villa San Cristoforo a vivere momenti difficili.
Fu proprio in ragione di queste criticità che maturò l’idea di erigere un marchesato da affidare ad un feudatario affidabile. Il 4 dicembre del 1762 Don Antonio Todde colse l’opportunità e acquistò per 35.000 lire sarde il salto di Montresta, la Villa San Cristoforo e il salto della Minerva. Il 6 febbraio dell’anno dopo egli divenne il Marchese del nuovo feudo.
Fu lo stesso Todde a incentivare l’arrivo di nuovi coloni sardi nel borgo che non decollava per numero di abitanti né per sviluppo. Furono gli anni nei quali aumentarono anche le diatribe tra i nobili bosani e il marchese, visto come soggetto più debole rispetto all’amministrazione regia. Non solo controversie legali ma anche vere e proprie bardane a danno della comunità di Montresta e delle proprietà del Todde, come quella del luglio 1764 che ebbe anche rumorosi strascichi giudiziari.
La comunità greca, anche in ragione di queste continue intimidazioni, cominciò ad assottigliarsi. Le guide religiose greco-corse lasciarono il paese e nel 1768 vi fu una massiccia fuga di circa sessanta coloni che si diressero verso l’Asinara dove vi fu un ulteriore tentativo delle autorità sabaude di realizzare un insediamento sull’isola con coloni italiani. Ma il proposito fallì miseramente anche per l’arrivo non concordato dei greci in fuga da Montresta. Alla fine, questa comunità senza pace tornò in Corsicacontribuendo alla fondazione del villaggio di Cargese, nato qualche anno dopo con l’isola della bellezza in mano francese. Una cittadina che accolse la gran parte dei coloni montrestini che, di fatto, tornarono nella terra che li costrinse a fuggire qualche anno prima.
Nel 1772 a Montresta rimanevano soltanto una settantina di abitanti: 12 famiglie grechee 13 sarde. Il Cavalier Todde capì di aver fatto un pessimo investimento. Il 2 ottobre del 1773 il feudo di Montresta e il borgo tornarono nuovamente nelle mani dello stato e poi, il 27 febbraio del 1776, sotto la proprietà di Bosa dietro il pagamento di 30.000 lire sarde. La sudditanza verso Bosa non fu indolore. Tuttavia un accordo sottoscritto tra le parti salvaguardò, in qualche modo, i pochi diritti di Montresta e le molte pretese dei bosani.
La colonia si salvò dall’estinzione per l’arrivo di nuovi abitanti sardi che giunsero in maniera significativa per tutto l’Ottocento.Divenuto successivamente comune autonomo, Montresta arrivò a toccare la vetta di quasi 1.500 abitanti nella prima metà del Novecento. Colpita da un progressivo spopolamento come molti comuni della Sardegna, oggi questo suggestivo borgo con radici elleniche sopravvive con meno di 500 anime. Soltanto una famiglia, nel cognome, ricorda i fondatori: quella dei Passerò, versione italiana dell’antico Psaros. Ma tanti altri montrestini conservano, almeno in parte, quel sangue che scorreva nelle vene di quell’umanità dispersa partita dalla Grecia a metà del Seicento in cerca di fortuna e pace.
Bibiografia essenziale:
Andrea Piga – Montresta la greca, i fondatori – Edes Editrice – 2022
Stefano Pira – Nostos, Montresta e i greci (..) – AM&D Edizioni – 2012
Giulio Piroddi – La colonia dei greci a Montresta (…) – Ed. Gallizzi – 1967