Sas ultima canzones e Cantigos de amargura, testamento poetico e politico di Antioco Casula (Montanaru)
“Le opere di un autore possono essere intese appieno solo tramite un esame della sua formazione umana e culturale, che tenga conto di tutti i dati, anche psicologici della sua personalità. Senza la vita dell’autore nella sua collocazione anche storica non esisterebbero neppure gli affetti e le fantasie del poeta, non l’opera artistica, non la rifrazione del sentimento nell’opera poetica.” (Natalino Sapegno – Emilio Cecchi, Letteratura italiana, vol. VII, Garzanti, Milano, 1979.)
Per chi affronta l’opera di Antioco Casula (Montanaru) prescindendo da quella che è stata la sua vita, pensando che contino solo le sue opere, commette un peccato di presunzione che lo può condurre a qualsiasi sviluppo, ma non certo a comprendere la vera portata dell’opera.
Pochi, come Antioco Casula, hanno legato strettamente e inscindibilmente la loro vita alla loro opera, tanto da costituirne un tutt’uno.
Anche se Montanaru ha tentato di tenere separate le due cose, la sua vita ha pesantemente influenzato le sue poesie. La stessa figlia, Elena Casula, scriveva nel 1977, in una prefazione alla ristampa delle opere del padre per conto dell’editore Gianni Trois di Cagliari, che le ultime poesie, soprattutto, stampate dopo la sua scomparsa erano “strettamente legate a motivi autobiografici: lutti familiari, esperienza del carcere, minaccia del confino, battaglie politiche e letterarie”.
Vi sono, anche, creazioni poetiche apparentemente slegate dal resto della sua produzione, ma hanno certo avuto un peso nella vita del poeta e nelle sue opere tanto da condizionarne il percorso.
In questa direzione va la poesia dedicata a Costanza Puggioni, conosciuta nel 1918 e di cui si era follemente innamorato. Solo recentemente la famiglia della Puggioni ha rivelato il sentimento di Montanaru per la bella maestrina di Nuoro. La poesia non è datata, anche se è presumibile potrebbe essere stata scritta subito dopo il 1918, quando la conobbe a Desulo. Null’altro si sa, e credo null’altro ci sia da sapere, perché la giovanissima maestra scelse un più giovane collega, Mauro Delussu; i malpensanti potrebbero obiettare che poco le andava di avere a che fare con un uomo di ormai quaranta anni (e in quegli anni pesavano per davvero), vedovo con figli da accudire. Poteva certo compiacere quella giovane maestra l’attenzione di un poeta da molti celebrato, ma certamente avrà pensato che la sua vita di maestra di estrema periferia fosse un prezzo sufficiente da pagare alla vita, senza aggiungere altre tribolazioni. Questa storia, rimasta per lunghi anni sconosciuta, è riemersa per merito di Lucia Bechere, che ha pubblicato la poesia scritta dall’innamorato poeta desulese. Certo non sono versi distaccati. A Costanzia / Narami itte mi domandas / o Costanzia gentile e bella? Cheres unu cantu / un’innu aladu riccu de incantu / che boche de rusignolu in lontananzia? / O forzis cheres mutos de amore / o unu gridu potente de isperanzia? / Troppu est su chi domandas o Costanzia, / ca tottu mi hat siccadu su dolore. / Ma tottu a tie non potto negare / tottu a tie donosa o risulana, / chi de grazia pura ses funtana / e tantos coros faches turbare. / A sa sarda ti naro: Bona sorte! / E isposa felice e bona mamma / e de s’amore sa sacra fiamma / ti sustenzata serena, sana e forte / in cada passu tuo de sa vida. / E siata sa domo tua invidiada / comente domo de un’antica fada / de isperanzia e de bene fiorida.(Lucia Bechere, https://www.ortobene.net/montanaru-un-amore-non-corrisposto/)
Si può non parlare di questo episodio che sicuramente ha avuto un peso nella vita di Montanaru, come di tutte le altre vicende liete e meno liete che ne hanno segnato gli anni? È evidente che non si può in alcun modo scindere ciò che ciascuno è stato da ciò che ha creato, perché ciò che ha prodotto il suo genio poetico è figlio legittimo di un percorso di vita.
E può una vita vissuta prima in campagna, perché studente svogliato e poco interessato allo studio, poi carabiniere in quel di Tula, poi ancora responsabile dell’ufficio postale di Desulo e infine maestro elementare, dopo avere ripreso gli studi, essere letta scindendola dal suo percorso poetico? Ha conosciuto, lui ex carabiniere, l’onta dell’arresto e la minaccia perenne del confino, che ne hanno sicuramente condizionato il resto della sua esistenza, considerando l’arresto un’offesa alla sua vita adamantina: “No est pro nudda si mi so pesado / cun s’ischina deretta che ispidu, / ma est ca su dovere hapo cumpridu / e mi so de martiriu ferradu. / Cantu felices passende happo idu / cun bestires de rasu seberadu / e deo superbu e mal’ affortunadu / dae rustigos pannos fi’estidu. / E sempre cun fieressa e cun ardore / so andadu in sa vida indipendente / a passu lestru e s’ischina eretta. / No nd’hapo invidiadu ‘signore, / mai hapo servidu unu potente / pro cussu sa cussenzia hapo netta.”
La risposta può essere solo un no secco e deciso. Ha ragione Natalino Sapegno: dobbiamo capire come ha vissuto e per capirlo niente è più utile delle pubblicazioni postume. Quelle poesie che pensava sarebbero state le ultime, come scrive in quella che doveva essere l’introduzione del già completo Sas ultimas canzones: “Saranno veramente queste le mie ultime canzoni? Così io penso e ragiono mentre scrivo queste righe ed ho compiuto sessantacinque anni. (…) freddamente ragiono e misuro che l’età della poesia è già trascorsa. E dico bene in una mia canzone: A dogni fruttu s’istagione sua / gai est de te, gentile poesia, / chi passada sind’est s’edade tua / e como piùs de prima ti cheria…
E se ancora farò dei versi non potrò né uguagliare e tanto meno superare l’opera già compiuta.”
Probabilmente andrebbero rianalizzate con occhio nuovo le poesie pubblicate postume (Sas ultimas canzones, Cantigos de Armagura), dove emerge un poeta che vede la Sardegna cambiare, ma non per la reazione che si aspettava da parte dei sardi, e una società che segue percorsi che lui ritiene corruttori del tempo (felice?) che fu, e non perde occasione per rimpiangerlo. Emblematica in questo senso è la poesia A una pizzinna, dove affronta quasi con fastidio il desiderio legittimo e tutto femminile di ingentilire e migliorare l’aspetto fisico da parte delle giovani donne. “Nara, pizzinna bella, nara, nara, / prite ti pinghes che un’arlecchinu, / sas laras friscas, s’ogiu genuinu / et sas lineas pura de sa cara? (…) semplice bive tue e naturale / cun cuddas santas grazia de Deu / chi est s’unicu ch’ischit modellare.”
Con queste parole, oggi, si potrebbe diventare vittime del mondo femminista o, peggio, del temutissimo, dal mondo maschile, MeToo, sempre pronte a fiocinare chi non la pensa come loro. A volerla dire tutta, senza sposare posizioni estremiste, non si può negare che il respiro sociale di quella poesia è corto e affannato, e mostra una visione troppo ristretta. Non si possono difendere i diritti di un popolo, e lui lo faceva molto bene, e trascurare o criticare la metà dei suoi componenti con motivazioni prive di fondamento e di credibilità. E quell’incalzare del primo verso ( Nara… nara, nara) con chiaro accento provocatorio e liquidatorio insieme che da solo potrebbe valere l’inferno da parte delle donne più sensibili.
L’inizio della sua produzione poetica è scoppiettante, pieno di gioia di vivere e di speranze. Da A tie, Barbagia mia! inizia un percorso che fino al 1978 si pensava chiuso con la pubblicazione di Boghes de Barbagia, Cantigos d’Ennargentu, Sos cantos de sa solitudine, Sa lantia, finché non apparvero nel 1978, a cura di Fernado Pilia e Giovannino Porcu per le edizioni 3T di Cagliari, le poesie postume raccolte in Sas ultimas canzones e Cantigos de amargura. Leggere le ultime poesie apre un mondo imprevedibile e, per qualche verso, ci rimanda un poeta più umano, disincantato, conscio che i vati non godono di vita eterna a causa della volubilità degli uomini. Sono poesie velate di nostalgia e rimpianto per ciò che è stato e non può più accadere, e per l’oblio che sembra avvolgere lui e la sua opera da parte di gente irriconoscente. Purtroppo a Montanaru sembra sfuggire il fatto che il tempo usa un setaccio a trama fittissima attraverso il quale non passano le idee di respiro corto.
In A un’amiga evidenzia l’impossibilità di fermare il tempo e, come chi non ha progetti e prospettiva, fa vedere il passato attraverso una benevola lente rosa: “A pustis de medas annos t’hapo idu, / (…) Tottu paret vanu / E vivis che unu istranzu in bidd’anzena. / Gai mirende sa tua figura / Piango e bramo su tempus passadu.” Certo, per un voyant, come si era palesato nelle opere precedenti, è un cambio di registro di non poco conto: guarda al domani con lo sguardo rivolto al passato. E le cose non sembrano migliorare in Vanu disizu: “Ma it’est custu maccu disizare / una cosa pro sempere fuida? / Cust’est signu de pagu cunsideru / Ca tantu, coro, non podet torrare / su ch’has perdidu in custa breve vida / e vanu est su disizu ei s’isperu.”
Con la breve poesia, solo otto versi, da fondo a tutta la sua desolazione. Diventa consapevole della poca credibilità delle sue parole fra la sua gente. Potrebbe sembrare un gioco poetico, ma ad analizzare i versi traspare una sincera disillusione per le speranze riposte negli altri e diffuse con le poesie precedenti Sas ultimas canzones; e lo dice in modo chiaro in Rimas trascuradas: “A tie chi cantas rusticas istorias, / a tie nessunu iscultat, Montanaru, / su mindiu est cun sos umiles avaru: a sos potentes issu dat sas glorias / sa ricchesa, sa gioia ei s’amore. / A nois ite dada? S’abbandonu / ei s’olvidu”.
Ma tenta anche una reazione all’ineluttabilità, al suo ripetere continuo: “Tottu est vanu.” Ci prova con la poesia A unu ezzu poeta, dove, probabilmente pensando a sé stesso, saluta il poeta con versi speranzosi: “su cantu tuo sos coros alluet / e restat bia s’alta fama tua. / Benin e passan sas prosperidades, / d’unu e s’ateru cambiat sa sorte / però sa rima tua dulche e forte / bandat sonora in tottus sas edades”.
Nelle ultime poesie si concentra quel ripiegare brusco su sé stesso, nel tentativo di stringere fino allo spasimo un’esperienza e un passato, ove la parola diviene quasi la carne del linguaggio che nel corso delle sue opere dei primi anni rappresenterà un impegno totale ed eroico.
Anche se analizzare l’inizio della produzione poetica di un autore e la conclusione del suo percorso poetico, che può essere letta come una scorciatoia buona solo per saltare il meglio della produzione artistica, potrebbe anche essere considerato un modo di analisi poetica non rituale. Potremmo leggere le prospettive, le speranze, gli auspici sociali e politici dell’autore e, saltando con un ardito volo l’intero percorso, cercare di capire quali sono le conclusioni dell’intero percorso creativo e della sua capacità di incidere nella realtà che lo vede protagonista. Si potrebbe obiettare, forse giustamente, che non avendo certezze cronologiche sulla scrittura di poesie pubblicata sotto il titolo Cantigos de amargura, non si può arbitrariamente decidere quale opera chiuda il percorso artistico, quale è stato il resoconto di una vita spesa nell’indicare la via maestra verso la libertà e l’emancipazione dalla servitù nei confronti dello straniero, sia che venga da lontano sia che abbia i suoi natali in Terramagna. E poiché i Cantigos sono stati editi con il consenso e la supervisione, attestata da una prefazione nell’edizione 3T delle opere complete di Montanaru per opera di Elena Casula, figlia del poeta, la sistemazione in chiusura della poesia più amara e dal sapore di consuntivo politico, morale e poetico, dà credibilità alla parola fine di una vita da inascoltato voyant stanco di accendere speranze. Sembra di sentire, fatte le debite proporzioni e la diversa risonanza mondiale, le ultime parole di Arthur Rimbaud: “Je ne sais plus parler”. Forse Antioco Casula sapeva ancora parlare alla sua gente, ma aveva paura di non essere stato compreso.
L’ultima poesia edita, di soli otto versi (e la cosa va tenuta nel giusto conto visto che la poesia di apertura e di speranza, A tie Barbagia mia, è di 58 versi) ha il sapore del testamento poetico e politico di Montanaru, un testamento amaro, dopo una vita di speranze che ritiene in quel momento mal riposte. La brevità di Solitariu vivo ci dà la misura dello sconforto dell’uomo che usa il poeta per esternare la sua rabbia contro un mondo sardo e barbaricino, a lui tanto caro, che lo ha lasciato solo; non è soltanto delusione per ciò che avrebbe dovuto avere e non ha avuto, è rabbia inconsolabile nei confronti di una società alla quale ha dato tutto e sulla quale riponeva ogni speranza per il futuro, senza ricevere nulla in cambio, neppure la stima.
“Solitariu vivo in Gennargentu / che un’abile subra sos rochiles, / airadu cun falsos e cun viles / nemigos d’ogni bonu sentimentu. / Chi pius d’una orta a tradimentu / m’hana puntu cun leppas e istiles, / ma eo cussu grustu ‘e tidiles, / che muscas in sa manu hapo mantentu.”
Le parole sono macigni, pietre sul cuore di tutti quelli ai quali è rivolta l’ultima invettiva. E la rabbia emerge furiosa dopo un ultimo e disperato tentativo di scuotere le coscienze con Odiu. In nota alla poesia scrive lo stesso Montanaru: “In molti miei canti chiamo con voce accorata i sardi alla raccolta e li ammonisco ad amarsi, ad unirsi per essere forti e pronti alla loro riscossa economica e morale. Tanti nostri mali furono e sono il velenoso frutto dei nostri dissidi, della diffidenza reciproca.” (Montanaru, Poesias, vol. 3, 3T, 1978, p. 233)
I motivi della sua rabbia sono spiegati perfettamente nella poesia Odiu: “Non timas né disperes: cussa die / chi meritas, Sardigna, arrivat certu. / Ispetta cun su mannu cor’apertu / ca santu s’auguriu est a tie. / In cussa die, isula istimada, / de su poeta tou non t’olvides; / est giustu chi sa gioia la divides / cub chie ti l’hat semper augurada / chi t’ha cantadu e sempre t’ha’ sighidu / cun d’un’affettu costante e potente / comente sighit sa frisca currente, / sutta su sole, s’0mine sididu. / Ancora deo bos giamo, Sardos (in maiuscolo nel testo a comunicare il massimo dell’affetto per il suo popolo.) mios! / Benide tott’impare a m’incontrare / unidos, comment’andana a su mare / sas abbas friscas de sos sardos rios.”
Nel giorno della libertà e della vera indipendenza dal giogo dello straniero sfruttatore e dei sardi loro lacchè “de su poeta non t’olviles”, supplica Montanaru. E il passaggio della poesia più significativo che, chiudendo l’opera di Antioco Casula, materializza la sfiducia nel domani e l’oblio delle speranze; si ha la sensazione che il poeta deponga le armi brandite in una fiera vita dalla parte dei sardi oppressi e si lasci ghermire senza più forze dal servilismo dei sardi.
Montanaru fascista
“I denigratori e i malevoli accusano Montanaru di essere stato fascista. A parte che uno scrittore o un poeta deve essere valutato per le sue qualità letterarie ed estetiche e non la sua appartenenza politica: altrimenti dovremmo – ma è solo un esempio – sottovalutare Pirandello che aderì e si iscrisse al fascismo e proprio nel momento (19 settembre 1924) in cui il regime iniziava a mostrare il suo volto più odioso (con l’assassinio di Matteotti). E non mi consta che nessuno dei critici di Montanaru si scagli contro Pirandello. A parte questa osservazione dunque occorre chiarire fino in fondo il “fascismo” di Antioco Casula. È vero nei primi anni del fascismo vi aderì.” (Francesco Casula)
Se è vero che non bisogna valutare un “artista” con il metro dell’appartenenza politica, vanno messe in conto anche le scelte politiche, soprattutto quando liberticide e antidemocratiche, soprattutto in un uomo che aspirava a un futuro di libertà e di autonomia per la sua Isola. E soprattutto quando altri intellettuali hanno avuto il senso di responsabilità democratica per dire no al fascismo e alle sue idee. Per tutti vale la lettera di rifiuto del giuramento al regime fascista di Piero Martinetti, filosofo, storico della filosofia e accademico italiano: “…Ho sempre diretta la mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere. Così ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora col giuramento che mi è richiesto io verrei a smentire queste mie convinzioni ed a smentire con esse tutta la mia vita; l’E.V. riconoscerà che questo non è possibile. Con questo non intendo affatto declinare qualunque eventuale conseguenza della mia decisione…”
Rileggere il saluto di Montanaru, podestà di Desulo, al maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, in visita nel piccolo centro della Barbagia il 21 maggio del 1937, per cogliere la differenza e la diversa dignità con la quale si approccia al potere, rappresentato dal fascismo, rispetto alle parole di Piero Martinetti ci dà la misura della diversa dignità, e colpisce che un uomo così acceso nel difendere la libertà di una lingua e del suo popolo, lo sia così poco contro il governo centralista romano, contro un governo che è esattamente il contrario di quello che lui auspica.
“Glorioso Duca,
L’eroico Generale Achille Martelli, Medaglia d’oro, che regge le sorti della nostra Provincia, con l’ardore di un neofita e la fede di un apostolo, ha voluto accompagnarvi quassù, fra queste chiostra di belle montagne, ove ancora si conservano, assieme alla bellezza del costume, quelle fiere tradizioni di ospitalità e di amicizia che sono vanto e distinzioni di sarda Gente.
(…) o Grande Pietro Badoglio! Ripetere ad ogni strofa, in un canto di Epopea, il vostro nome che risuona nei nostri cuori come il fragore di un ciclopico maglio che batta sulla ferrea incude o lo squillo di bronzea campana, che chiami a raccolta popoli ed eserciti per spingerli nelle loro avanzate fatali. (…)” Così cadde la munitissima Amba Aradam, e lo spaventoso Tambien fu purgato dalla barbarie abissina. Sulle rive del lago Ascianghi si concluse la vostra fulminea e napoleonica manovra. Tafari vi aveva concentrato la sua famosa guardia imperiale che Voi disperdeste come uno stormo di passerotti sotto l’impeto vittorioso delle aquile romane. Quale sarà il poeta che un giorno canterà la Vostra marcia leggendaria?”
Mi corre l’obbligo di rilevare quanto stonino queste parole contro un altro popolo che già viveva la propria storia e non aveva bisogno di stranieri che si offrissero come portatori di civiltà, soprattutto in chi come Montanaru urlava al cielo, quando si trattava di difendere la propria terra, “Ite ses, veru sardu o sardu cane? / Una pobera bestia e famida / chi pro sustenner misera sa vida / un ossu t’han frundidu e pagu pane. / E yue mudu has rosigadu s’ossu / pensende a s’ra de mosser sa zente / giompid’inoghe d’onzi continente / pro ti ponner sa dura rughe a dossu. / e tue l’has trazzada cussa rughe / de ilighe pesante e non ses morta, / o Saedigna. Che Lazzaru risorta / ispettas cudda tua di’e lughe.” Inutile negarlo, sembrano parole scritte da persone completamente diverse, e non solo perché il discorso è scritto in prosa e le parole sarde sono parte di una poesia; viene quasi da pensare che chi le ha scritte sia affetto da qualche forma di schizofrenia. E il resto del saluto cade come una mannaia sul lettore per la prosa demagogica, populista, servile e, mi sia concesso, da trombone eccelso. (…) Ad un tratto, nel silenzio, tuonò la ben nota voce: il Maresciallo Badoglio mi telegrafa…Un clamore immenso si levò dai nostri petti e gli occhi si bagnarono di lacrime.
E Voi Duca foste benedetto assieme al Duce in un momento di passione sovrana. Dall’Ara di Vesta il fuoco mai spento, illuminò di nuovo i colli fatali sorti per l’impero. E pensammo al Conquistatore dell’Impero, a Voi lontano ma così vicino ai nostri cuori riconoscenti. E desiderammo con struggente amore di conoscerVi, di cercarVi in pellegrinaggio devoto, come mai gli antichi Greci andarono a Delfo. (…) I nostri Vecchi potranno dire come l’antico Simeone: Ora possiamo chiudere gli occhi in pace perché si è offerto a noi questo memorabile giorno!
I nostri Balilla cresceranno fieri del Crisma che Voi avete dato col vostro largo e paterno sorriso. Tutto questo Popolo eternerà con la memoria e con le Opere il premio che gli avete serbato. E questo Popolo che ha dato alla grande Guerra settantaquattro morti e riversa ogni anno nelle scuole settecento fanciulli, può con fiducia guardare all’avvenire!
Tanta Balda Giovinezza prepara sulla grandezza d’oggi un più grande domani. E da queste gole, se l’ora giunga, scenderanno con la furia dei torrenti montani i nostri manipoli, per andare lieti a morire e farsi massacrare purché salga sempre in alto rispettata, temuta ed ingrandita, la PATRIA IMMORTALE!
Per il piacere della lettura, si può trovare l’impagabile discorso di benvenuto a Pietro Badoglio in https://forum.termometropolitico.it/388492-sardegna-del-littorio-il-discorso-di-montanaru-pietro-badoglio.html.
Si può ancora separare, dopo avere letto le contradditorie parole del poeta desulese, la sua opera poetica dai suoi comportamenti sociali e politici? Ritengo che resterà sempre uno dei punti dolenti dell’analisi artistica il rapporto fra creazione e modelli di comportamento. Alla luce del poco che esiste sulla biografia, sarebbe essenziale che altri, ben più attrezzati, si dedichino all’analisi e delle opere, e della vita del poeta del Gennargentu.
Non si può non cogliere, in alcuni suoi giudizi su altri poeti, un eccesso di stima per la propria produzione poetica, come il poco gentile apprezzamento del lavoro di Sebastiano Satta. Parlando dei ‘mutos’ dice, candidamente e con poco senso della misura, in una lettera a Figari: “Ne ho letto alcuni di Sebastiano Satta e non sono gran che migliori [dei miei]. La povera poesia di Bustianu risente degli anni e della sventura.” Giovanni Piroddi, che riporta il giudizio di Montanaru nella prefazione all’opera di Montanaru Sas ultimas canzones/Cantigos de amargura, commenta così quell’ingiusta e feroce opinione: “Giudizio che mi sembra non condivisibile. Credo che i mutos di Satta abbiano una maggiore pregnanza poetica, frutto di vera elaborazione artistica. Quelli di Montanaru, invece, replicano troppo da vicino i testi popolari, e l’uso della stessa lingua dei mutos tradizionali non consente al poeta il distanziamento necessario perché il lavoro espressivo pervenga a un’adeguata densità di significati. I suoi componimenti sono meno efficaci, proprio perché non lasciano intravedere significative novità rispetto ai testi folclorici, ricalcandone troppo i caratteri.”
Casula è convinto del suo valore poetico tanto da proporre la propria immortalità artistica qua e là nelle sue opere, e spesso si rivolge ai sardi con la preghiera di annoverarlo fra i poeti da ricordare: “Isula istimada, de su poeta tou non t’olvides.”
E come i grandi chiude la sua infervorata vita poetica con amarezza e delusione con la poesia Solitariu vivo: “Solitariu vivo in Gennargentu / che un’abile subra sos rocchiles, / airadu cun falsos e cun viles / nemigos d’ogni bonu sentimentu, / chi pius d’una orta a tradimentu / m’hana puntu cun leppas e istiles, ma eo cussu grustu ‘e tidiles, / che muscas in sa manu hapo mantentu.” Possiamo concludere che mischiando senza grande scientificità la sua vita e le sue opere ne viene fuori un quadro abbastanza complesso, che difficilmente potrà, e forse dovrà, essere armonizzato. Leggendo biografia e opere lo abbiamo visto divenire patriota e bandito, libertario e fascista, conservatore e rivoluzionario, misoneista e innovatore. Tesi e controtesi nelle quali, pur apparentemente contrastanti, si riconosce un comune punto d’incontro: la sua Isola e la sua lingua. “De amores non canto, no, perdeu! / Ca ido cun atter’ogios sa vida; / canto si poto rabbia e isfida / pro sas tristesas tuas, logu meu.”