Umanità.
Raccolgo l’invito dell’amica Giovanna Elies a scrivere due righe da pubblicare nella pagina Facebook dell’Associazione Salotto Letterario di Osilo, nella speranza che queste mie scarne riflessioni siano gradite ai lettori. Vorrei partire con una metafora. Proviamo a immaginare una persona che passeggia in una stanza chiusa ma ben illuminata, dove si orienta facilmente e sa come muoversi e cosa fare. Cosa succederebbe se, di punto in bianco, la privassimo, attraverso un interruttore, di ogni fonte luce?L’umanità sta attraversando un periodo di profonda incertezza. Un microrganismo acellulare altamente aggressivo ha premuto quel bottone, mettendo in ginocchio la popolazione mondiale e continua, imperterrito, a mietere vittime. Per arginare il fenomeno e tutelare gli individui più deboli, numerosi Paesi, fra i quali l’Italia, sono ricorsi a misure drastiche ma necessarie. I virus, però, non obbediscono ai decreti, né si può impedire loro di varcare clandestinamente i nostri confini. Possono essere imprevedibili e colpire chiunque, con esiti differenti da un soggetto all’altro. Nessuno è inattaccabile; nessuno è immortale.Vorrei però anche, una volta tanto, non essere completamente negativo, pensando ora a una persona brancolante in una stanza buia, incapace di interpretarla senza l’aiuto della vista. Questa, se accendessimo la luce all’improvviso, dopo un comprensibile smarrimento iniziale si guarderebbe intorno, meditando sulle azioni da compiere in funzione dei propri obiettivi. Quel pulsante schiacciato dal virus, anziché spegnere delle già fioche speranze, potrebbe aver attivato in noi esseri umani un processo di autoriflessione, consentendoci così di riscoprire l’essenza della vita? Di colpo, i valori in cui una buona parte degli uomini ha sempre creduto sono stati messi in discussione, quantomeno nella loro gerarchia. Molti principi sono stati sovvertiti, l’arrivismo è stato temporaneamente accantonato per lasciare spazio alla meditazione ma, soprattutto, ci è stata data l’opportunità di fermarci a godere dei beni irrinunciabili della nostra esistenza, come la famiglia e la salute, che i ritmi frenetici dell’inquieto vivere ci hanno portato a trascurare in nome dei numerosi idoli ai quali continuiamo a sottometterci quotidianamente. Oggi siamo chiamati a essere persone di buonsenso, standocene chiusi in casa. Tuttavia, non si tratta di una soluzione indolore. Le piccole realtà artigianali e commerciali, spesso boccheggianti anche nei periodi di vacche grasse, sono entrate in sofferenza. Il tessuto economico rischia di strapparsi irreparabilmente e, senza i dovuti accorgimenti, tale situazione potrebbe determinare degli effetti ben più gravi di quelli primari del Coronavirus, contro il quale non bisogna comunque abbassare la guardia. Purtroppo in tanti non ce l’hanno fatta e c’è chi ancora lotta, nei letti d’ospedale, contro questa microscopica e feroce entità. Queste persone meritano tutto il nostro rispetto. D’altra parte, nel corso della sua evoluzione, l’uomo si è trovato ad affrontare e superare, con sacrificio, emergenze analoghe o addirittura più gravi, uscendone rafforzato. Ciò, unitamente a una fiducia nelle capacità dei ricercatori, alimenta le nostre speranze di vittoria.Qual è il ruolo che può giocare la poesia in questa partita confusionaria? Leggere la vita, in tutta la sua drammaticità, con gli occhi del poeta, può esserci di aiuto nel sostenere sfide importanti come questa. Tramite la poesia e la condivisione del pensiero poetico, la mente dell’uomo si sfoga e oltrepassa limiti invalicabili. Attualmente, la poesia in Sardegna sta attraversando un periodo di profondo rinnovamento. Nonostante buona parte della produzione poetica isolana sia abbarbicata a modelli non più funzionali ai bisogni della nostra società (come la poesia arcadica) e si assista a una stasi stilistica, non mancano gli esempi di rinnovamento, sia nelle forme più tradizionali (poesie cantabili in metrica e rima) sia in quelle in versi liberi, attraverso le quali si toccano vette elevate grazie ad artisti di eccezionale sensibilità. Uno di questi è Massimiliano Fois di Alghero, e il suo “Breviario per notturni campestri” ne è una felice e intensa testimonianza. Nel contempo, sono diversi i giovani, alcuni molto promettenti, che scrivono in limba e si preparano a raccogliere l’importante eredità di alcuni solidi pilastri del nostro tempo. Fra questi si distinguono i ragazzi di Florinas seguiti dall’encomiabile Vanna Ledda, come Zineb Ibnorida, premiata a Osilo con una menzione speciale, al pari del veterano gallurese Angelo Contini, che ha sviluppato il tradizionale tema dello stazzo con una lirica musicale. Concludo questo mio intervento riportando un sonetto del poeta oranese Giuseppe Zichi, noto Tzichittu. L’autore, emigrato in Francia, invita un suo compaesano a raggiungerlo descrivendo la vita nel Paese transalpino come un idillio in cui anche le pene sono sopportabili. Attraverso l’autoironia e delle simpatiche staffilate onomatopeiche indirizzate ai francesi, invita il lettore a una profonda meditazione sulla propria condizione umana e sociale, nonché sull’effettiva realizzabilità delle proprie aspirazioni. Non si può fare ironia sulla morte o sulla salute delle persone, ma questo particolare spirito poetico, seppur sconfinante nell’autocommiserazione, ha aiutato tziu Zichittu e tanti emigrati sardi a sconfiggere solitudine e disagio sociale.Peppe, se vuoi che le pene ti siano lievi (quindi non aspettarti una vita in discesa, ché sempre di pene si tratta), non come quelle patite in Sardegna, vieni in Francia e mettiti a sedere nella metro e rilassati (i problemi, in questo modo, si risolvono da soli… E poi, quantomeno qui ti riempi le tasche di mersì, sivuplè, alò alò… Vieni qui dove c’è il sole e lascia in Sardegna chi è tonto, perché, ammettendo che qui possa patire la fame, c’è così tanto lusso da considerarla trascurabile o, quantomeno, è fame parigina… (più raffinata di quella sarda)
Peppe, si cheres lépias sas penas,
beni a Parigi e sedi in su metrò;
sa barchitta, su cherbu o sas cadenas
in sa piatta a fronte a su bistrò.
Musicas, cantos, intendes sirenas,
trumbas, trumbittas, pirilipipò,
e sas buzacas tin de ghiras cenas
de mersì, sivuplè, alò alò.
Jumpa, Peppeddu, a s’ala soliana
e dassa in Mighelesi a chie est tontu
cochend’ ‘urru e bocande cottichina.
Ammitinde ch’ inoche patas gana,
b’at pro su lussu de non nd’ ‘acher contu:
s’ateru no, est gana parigina! Antonio Brundu
ANCHE UN NERO HA UNA MADRE
Guardare alla vita di un emigrante è come scorrere un libro di avventure, è come ripercorrere una strada tortuosa e in salita, è come entrare dentro l’animo ribollente di un lottatore, è come osservarne i pensieri più profondi; è come vedere un albero che, costretto e chiuso da alti muri, cerca la luce, l’aria libera e cresce puntando verso l’alto, verso il cielo. Ma più ancora la vita di un emigrante è come un viaggio; che sia lungo o breve non importa, ma un viaggio, che ha una partenza, una fatica dell’andare e una meta da raggiungere. All’inizio non c’è un’idea ben precisa del percorso da fare, da affrontare, non ci si rende conto completamente della realtà, prevale una proiezione nel futuro attraverso il sogno, la forza dell’essere che si affaccia a una nuova vita con l’immaginazione e non si ha paura. Mentre si va avanti il passo può farsi spedito, ma non sempre è così, anzi spesso è caratterizzato dal passo impegnativo, pesante, e da tante difficoltà. Allora bisogna fermarsi un po’, prendere fiato, sostare cercando di scorgere un punto di ristoro, avere cioè la possibilità di trovare un posto di lavoro per recuperare la spinta e la dignità per andare e guardare avanti. Ma quando c’è il rifiuto, quando nessuno vede e sente i lamenti e le difficoltà di chi è in cammino, che cosa rimane? Cadere nel precipizio? Se così fosse, sarebbe necessario avere le ali per risollevarsi, per allontanarsi da chi magari propone la felicità del buio. Le ali, un paio di ali per volare via: le ali della memoria, del ricordo di una madre che ti chiama, di un padre che ti incoraggia, della penombra di una chiesa, della giustizia dei poveri. Pier Giuseppe Careddu
Non so chi l’ha scritto, ma è bellissimo.
Ci siamo addormentati in un mondo, e ci siamo svegliati in un altro.
Improvvisamente Disney è fuori dalla magia, Parigi non è più romantica, New York non si alza più in piedi, il muro cinese non è più una fortezza, e la Mecca è vuota. Abbracci e baci diventano improvvisamente armi, e non visitare genitori e amici diventa un atto d’amore. Improvvisamente ti rendi conto che il potere, la bellezza e il denaro non hanno valore e non riescono a prenderti l’ossigeno per cui stai combattendo. Il mondo continua la sua vita ed è bellissimo. Mette solo gli esseri umani in gabbie. Penso che ci stia inviando un messaggio: “Non sei necessario. L’aria, la terra, l’acqua e il cielo senza di te stanno bene. Quando tornate, ricordate che siete miei ospiti. Non i miei padroni”. Anonimo, trasmesso e riportato da Luciano Ottelli
L’ultima corsa in tempo di coronavirus
Il ticchettio dei miei passi veloci sull’asfalto è l’unico rumore in questo pianoro che si allunga svogliato tra oliveti, terreni incolti e ogni tanto un giardino perfettamente pettinato. Discontinuità vegetale oltre il crinale dei grossi muretti a secco, discontinuità di pensiero. Oppure annullarli tutti, i pensieri, perché intanto so già che questo è l’ultimo allenamento. E oggi conta solo la corsa. Avanti così, le gambe girano bene, e il senso della corsetta è tutto nel suono sincopato delle mie scarpette sul fondo rattoppato di questa stradina stretta e deserta. Deserta lo è sempre, ma ora dilaga solitudine. Nessuno intorno, ciak ciak, ciak ciak, le suole cantano una canzone solitaria d’addio. Adesso la strada prende a salire in un ampio curvone per aprirsi su un’altra valle. Avanti, sorrido da solo. Percepisco i battiti del mio cuore accelerati come il motore di un aeroplano che si arrampica sull’aria. Risuonano nel petto appesantiti da questa picchiata ripida verso l’alto. Sparisce il sorriso scacciato via dall’affanno. Ma da domani rimpiangerò anche l’affanno. Adesso c’è, e per l’ultima volta facciamo un pezzo di strada insieme. Quando sei in salita è fondamentale insistere, sempre. Anche quando ogni passo è come spostare avanti uno di quei grossi massi dei muretti a secco che, da soli, mi fanno compagnia. Via così, domani avrò dimenticato il peso e mi resterà solo la nostalgia. Saluto il solito grosso cane nero col pelo arruffato e gli occhi rosso scuro da padrone indiscusso. Mi corre parallelo, all’interno del suo recinto, abbaiando in un rumoroso allarme che vibra per tutta la valle. La natura esprime il suo chiasso e il suo silenzio profondo nello stesso scenario incantato. Un albero solitario, già fiorito, si pavoneggia di rosa come un punto esclamativo alla fine di una frase d’amore. Le fronde, il vento e la strada sono amore, e domani sarà nostalgia. Ma da domani a casa, blindati per paura. Quando finisce la salita la sensazione è di sollievo. Sollievo da tutto, e non pensare che da domani tutti fermi per paura; la paura mi scoraggia. Potrei andare più forte, ma arrivano altri pensieri e temo i chilometri che mi mancano prima di rientrare. Rientrare a casa e non uscirne più. Non ha senso tirare, oggi. Forse oggi non ha senso niente, e mantengo la mia corsa sull’allegro ma non troppo. La corsa è come la musica: devi trovare quel ritmo che ti dà gioia. Ecco, l’Inno alla gioia, scandisce benissimo il ritmo e le sensazioni: «Tra la la la la la la, tra la la la la la…», la canticchio proprio. Si dice che nelle corse lunghe il ritmo ideale è quello che ti permette di canticchiare. Tutte balle, non credo ai dogmi, poi il fiato mi serve per correre. E quella di oggi la voglio ricordare, perché quella di oggi è l’ultima corsa non so per quanto tempo. Finirà. Finirà questa corsa e finirà la quarantena per la pandemia. Da domani non si potrà più correre, ma poi finirà. Arrivederci strada, arrivederci albero solitario fiorito, arrivederci brutta salita, e arrivederci cane con gli occhi impetuosi. Arrivederci, ci ritroveremo presto dentro la stessa emozione. Pier Bruno Cosso