Il senso della scuola
Un ‘bip’mi segnala l’arrivo di un messaggio sullo smartphone. Sbuffo. Credo che sia l’ennesimo spot pubblicitario e do uno sguardo distratto al display. Scopro invece che è di un mio caro amico e antico compagno di scuola, Giancarlo, che mi ha mandato una foto. Clicco per aprire e con sorpresa mi trovo davanti una foto di ragazzini sui banchi di scuola. Fatico a riconoscermi bambino e in calzoni corti, così come il mio caro compagno. Siamo nella prima metà degli anni ‘60 e sediamo sui banchi della scuola media. Sorriso di circostanza, ma anche d’orgoglio, perché per arrivare a sederci lì abbiamo dovuto superare il primo esame difficile della nostra vita: quello d’ammissione. Quella foto mi ispira una riflessione sul senso che la scuola ha avuto in tutta la mia vita. Lì, senza bullismo, solo con qualche sfottò da parte dei ragazzi più grandi che studiavano poco, si è costruito il mio amore per imparare. La svolta la diede un’insegnante napoletana, di lettere, di cui non dimenticherò mai nome e immagine: Bettina Bruno, dal fisico imponente, che, senza declamazioni, applicò il celebre motto gramsciano “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”. Non lo fece solo utilizzando libri di testo, ma anche giornali, come ‘L’Espresso’ che allora veniva pubblicato nel formato lenzuolo, e stimolando le nostre capacità critiche e riflessive. Poi il secondo esame, quello di terza media, passaggio obbligato per diventare ‘più grandi’. E quindi le superiori, frequentando le quali imparai l’importanza di saper gestire le relazioni con tante altre persone. Scuola di vita, così come l’esame di maturità nel quale dovetti mostrare le mie capacità senza poter contare sull’ ‘alone’ di simpatia costruito con i miei soliti insegnanti. Infine l’università, con l’impegno, la passione, la partecipazione, l’amore per le letterature e le loro storie. Lungo tutto il percorso il legame scuola-famiglia finalizzato ad un’azione concordata mirata alla progressiva maturazione di quel ragazzo che oltre a fare i conti con il profitto nello studio, doveva imparare a vivere autonomamente. Un interscambio costante e proficuo, senza mai prevaricazioni di una parte (la scuola o la famiglia) sull’altra. Quel che imparai da studente cercai di utilizzarlo una volta che passai dietro la cattedra: prima come supplente di Italiano all’Istituto Martini di Cagliari, poi come supplente di francese allo scientifico Michelangelo sempre di Cagliari, quindi, dopo l’abilitazione all’insegnamento della Lingua Inglese, alla Media n. 1 di Iglesias. Infine, dopo un anno al G.M.Angioy di Carbonia, per ragioniere e geometri, ad insegnar Francese, il passaggio come ‘Titolare di Assegno di Studio’ (con retribuzione dimezzata) nell’Istituto di Francese della Facoltà di Magistero. Questo ‘cursus honorum’ cominciò ad essere affiancato, da metà degli anni ‘70 e per un paio di decenni successivi, dal ruolo di padre che andava ai colloqui per informarsi sull’andamento scolastico dei tre figli. L’esperienza più difficile, perché condizionata dalla carica affettiva che però non doveva affossare la razionalità e il rispetto per i docenti. Ora che sono distante da tutti i diversi rapporti diretti con il mondo della scuola, ad esso, a cui attribuisco un ruolo fondamentale per la costruzione del presente e del futuro della nostra Repubblica Democratica, voglio dedicare queste riflessioni finali. La prima riguarda l’incapacità dello Stato di intervenire per rilanciare la funzione della scuola, così come l’ha svolta a partire dal secondo dopoguerra. Anche la digitalizzazione o l’istruzione a distanza, perché ridurle a strumenti dell’emergenza per combattere i contagi da pandemia e non, invece, utilizzare la tecnologia adeguandola ai bisogni reali dei territori, degli ambienti, delle economie? E nei rapporti scuola-famiglia, perché non avviare una rieducazione dei genitori al rispetto degli insegnanti, per restituire alla scuola quel valore assoluto che ha avuto per una generazione come la mia? E, infine, gli insegnanti. Perché continuare ad umiliarli con l’incertezza derivata dalla precarietà, invece di ricostruire il sistema di controllo delle professionalità e l’inquadramento certo nei ruoli? Io ho sempre pensato che gli insegnanti, da sempre sottopagati rispetto al fondamentale ruolo sociale ricoperto, hanno compensato il disagio gratificandosi con l’importanza della funzione svolta. Ma se neppure questa viene più riconosciuta, con quale spirito potranno mai entrare nelle aule per sottoporsi a quel confronto sempre più articolato e complesso con le giovani generazioni?.
Ottavio Olita