Una donna
In una delle rare occasioni in cui, in questi anni recenti, sono tornato al Paese, avevo in programma di fare visita a Ottavia.
La visita si presentava come espressione del doveroso riguardo verso una persona assai avanti negli anni, probabilmente in stato di fragilità psico fisica. Sotto altro aspetto, era come adempiere a un mandato alla cui esecuzione mi sentivo obbligato, come se mi fosse stato esplicitamente conferito da mia madre.
L’anziana donna allora era prossima alla soglia dei cent’anni che, nel frattempo, ha superato.
Nubile, vive ancor oggi da sola in una grande antica casa, con un ampio giardino alle spalle, alle pendici del Monte. Qui era cresciuta la loro estesa famiglia, quattro maschi e quattro femmine più i nonni, qualche bisnonno e zii diversi. Una tribù, direi, articolata, ma al suo interno molto coesa. Delle quattro sorelle Ottavia era la penultima.
Divenne maestra della scuola elementare ancor prima che la seconda guerra mondiale si allargasse su tutto il continente. Oggi che tutta la ramificata famiglia si è dispersa, avendo ciascuno la propria strada da percorrere e da concludere, si è trovata sola nell’antica casa nel paese, che diventa sempre meno popolato. Non è stata però, la sua, una scelta subita, essendo stata, al contrario, frutto di una precisa determinazione: fermarsi in paese, tenere aperta la sua bella casa dalla facciata abbracciata da un‘edera gigantesca, rappresentare la sua famiglia, occupare uno spazio di relazioni con la gente. Qui vive sola da qualche decennio, seguita da una coadiuvante per diverse ore al giorno.
Trascorre il tempo per lo più su una poltrona che ha fatto collocare nei pressi della finestra che affaccia su un ampio rettilineo della strada principale. Attraverso di essa può spingere lo sguardo su un lungo tratto della via e vedere chi vi transita.
Cammina poco e a fatica, ma questo non le vieta di percorrere quotidianamente le numerose antiche stanze di quella casa di cui è l’unica abitante e custode ad un tempo, e di vigilare così sulla tenuta dell’abitazione in perfetto ordine e decoro.
Tutti sanno che ama molto ricevere e chiacchierare, come anche partecipare alle vicende sociali del paese, alle quali magari non presenzia, ma ne è informata e le vive, non lesinando valutazioni e consigli.
Chi passa per via la intravvede appena, ma comunque ne avverte la presenza, sa che è lì, dietro la persiana, incastonata nella distesa verde dell’edera che tappezza l’intera facciata, fra i giornali e il televisore acceso.
Per effettuare quella visita sentivo un vincolo sentimentale, che assolvevo però volentieri. L’avevo conosciuta tanti anni prima e incontrata poche volte. Pensavo perciò che non avrei avuto molte cose da dirle.
Era stata amica di mia madre e fra la loro famiglia e la nostra era corso, per decenni, un flusso di relazioni affettuose e solidali.
Ottavia non ebbe difficoltà a riconoscermi o, almeno, intuì subito chi io fossi, sicuramente informata della mia presenza in paese e dell’evento che mi aveva coinvolto.
Entrò subito in conversazione, parlandomi dei miei genitori e delle cose che li avevano collegati, a suo tempo, alla sua famiglia. Riferiva con agilità e precisione fatti che risalivano al tempo della guerra e agli anni seguenti. Più che il richiamo a argomenti ai quali anche io, ancora bambino, avevo preso parte, mi sorpresero il tono della voce, privo delle esitazioni tipiche dei vecchi, e la inflessioni dialettali che marcavano il suo discorrere.
La voce era limpida, sia pure piuttosto profonda, fluido il parlare.
Fummo interrotti dallo squillare del portatile. Le feci cenno di rispondere e così, involontariamente, potei seguire la sua conversazione dialettale con una interlocutrice che lei chiamava comare.
Ne ricavai quasi un saggio di conversazione nella limpida e precisa parlata del Meilogu che mi si rappresentò nobile, elevata. Una parlata che non ho mai praticato e posseduto, mentre non mi è difficile passare dal campidanese al gallurese, con qualche digressione algherese e, addirittura, barbaricina. E tuttavia mi suona familiare e, allo stesso tempo, propria di un’aristocrazia dell’espressione linguistica.
In chi la pratica, questa parlata si snoda con suoni, lemmi, accenti che mostrano una radice profonda nel tempo. Appare una lingua affinata che si articola in espressioni collaudate, sicure, levigata dall’uso secolare come sanno essere gli oggetti delle nostre case antiche, smussati e lucidati dall’uso e conformati alla mano che li adopera.
Questo mi suggeriva, in quella serata di settembre che volgeva al crepuscolo, il breve discorrere di Ottavia con la sua comare. Mi sembrava di cogliere, dagli spezzoni del loro discorso, confidenza e rispetto.
Perché Ottavia era pur sempre la “maestra” e nei nostri paese sa mastra è vestita di forte prestigio sociale, come deve essere per colei, o colui, che amministra il sapere.
Interloquivano nella loro parlata chiara, armoniosa, ricca di inflessioni e di suoni, intellegibile anche da chi non saprebbe riprodurla. Latina, come si dice in sardo.
Chiusa la telefonata, ci sollecita a parlare di noi, ma si finisce per parlare di lei, del paese.
Si sofferma sull’oggi, non sulle memorie: il passato nutre il presente e apre al futuro. Il tempo che deve venire non sembra riservarle né angoscia né sorprese, ma attese.
Ne parla poco e con distacco dando l’impressione di accettarsi nella sua finitezza, con l’aria di esser grata per ciò che ha avuto e per tanto tempo.
Nella sua vecchiaia da single irredimibile, si conduce con lucida consapevolezza della prossimità del limite. Che non tenta di esorcizzare.
Sembra portatrice di una sapienza che ha la meglio sull’ansia di sopravvivere che agita i giorni dei nostri coetanei.
Con questa mia meraviglia ci siamo salutati, al termine di un incontro nato casuale e che ha aperto una finestra su una vita e su un mondo di cui la maestra Ottavia reca testimonianza.
Francesco Mannoni