Maria Carta
Nella seconda metà del secolo scorso, il Paese del bel canto forse per la spinta sessantottesca, forse per il risvegliarsi di orgogliosi e sani regionalismi (quelli che non hanno mai propugnato la superiorità ma la diversità), va a riscoprire la tradizione della musica folk; Napoli con la sua tradizione classica e popolare naturalmente è la capofila di questo fenomeno… ciò è dovuto sicuramente al fatto che brani e liriche dei suoi compositori, da Salvatore di Giacomo a Libero Bovio, ad E. A. Mario per fare qualche esempio sono stati sempre apprezzati con le loro produzioni anche oltre oceano fin dagli inizi del ‘900; la musica napoletana insomma gradualmente e senza fratture si è sempre lasciata andare con continuità dal classico al popolare; non dobbiamo dimenticare che anche negli Stati Uniti la canzone napoletana è considerata la madre della canzone moderna.
Tanto per citare la tradizione classica del grande Conservatorio di San Pietro a Majella, non tutti sanno che un Wolfang Amadeus Mozart giovanissimo volle essere accompagnato nella capitale partenopea dai genitori, per conoscere i grandi musicisti napoletani del momento.
Ma torniamo ai tempi nostri…
A Napoli la Nuova Compagnia di Canto popolare (NCCP), proprio negli anni ’70 va a riscoprire ed approfondire temi popolari e li rende pubblici con meravigliose rappresentazioni, grazie alla ricerca di artisti e musicologi della caratura di Roberto De Simone, Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò, Beppe e Concetta Barra.
Il segno ed il frutto positivo di quella ricerca è ancora tangibile, al punto che alcuni brani riesumati dalla NCCP sono diventati simbolo di resistenza del popolo all’oppressione di dominatori… un esempio è la Carmagnola, il canto dei Sanfedisti al servizio del Cardinale Ruffo di Calabria, quando il Regno di Napoli venne invaso dai napoleonici.
La dimostrazione di come la musica popolare italiana si sia basata su solide e serie ricerche ci viene fornita da un altro grande studioso napoletano, l’antropologo Ernesto de Martino che fu docente di Storia delle religioni all’Università di Cagliari , e già negli anni ’50 aveva condotto ricerche “sul campo”, esplorando temi e tradizioni popolari religiose del meridione d’Italia in particolare di Basilicata e Puglia.
Mentre in Basilicata concentra le sue ricerche su relitti di rituali funebri di età precristiana (Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria), in Puglia de Martino va ad approfondire il tema del tarantismo e dei tarantolati (La terra del rimorso, contributo a una storia religiosa del Sud) e la diffusa convinzione che il morso di un ragno provocasse convulsioni e tremori curabili tramite esorcismi con l’uso della musica; emergono in realtà i dolori e le sofferenze accumulati per secoli dal mondo contadino, emergono le credenze popolari, i riti e gli esorcismi caratterizzati da rituali musicali antichissimi; uno dei positivi risultati che per l’ambito musicale certamente conta, è la riesumazione di balli antichissimi come la tarantella pugliese e la pizzica; quest’ultima ha negli ultimi decenni ottenuto consensi al punto che ormai col suo passo frenetico e saltellante ha superato i confini prima regionali e poi nazionali.
Si parla e si discute spesso in questi ultimi tempi della costruzione di un ponte che dovrebbe unire la Sicilia al continente, ma se c’è un mare che non ha bisogno di ponti, quello è proprio il Mediterraneo; liquido amniotico degli embrioni che hanno dato vita alla nostra variegata civiltà, il Mediterraneo nel corso dei millenni ha consentito la trasmissione e condivisione di messaggi culturali anche a distanza di centinaia di miglia; un esempio?
Ho appena accennato al morso del ragno tarantola in Puglia ed al rito esorcistico eseguito con tamburello e violino, ebbene in Sardegna esiste un rituale magico analogo, quello conseguente al morso del ragno malmignatta o vedova nera; in questo caso lo strumento musicale utilizzato per l’esorcismo sono le launeddas, lo strumento musicale più famoso dell’isola e presente in essa fin dalla preistoria. Strumento aerofono in grado di generare polifonia grazie alle tre canne “basciu”, “mancosa manna” e “mancosedda”, insieme ad altri strumenti ad ancia dell’Isola viene ancora oggi utilizzato in un repertorio di esecuzioni e rappresentazioni vastissimo; la Sardegna infatti più di ogni altra regione italiana ha saputo preservare il proprio repertorio musicale e non solo; leggendo “Lingua e musica in Sardegna” di Giulio Pala ci rendiamo conto che l’etnomusicologia nell’Isola ha la possibilità di lavorare con meticolosità e senza supposizioni o dubbi semplicemente perché la Sardegna ha salvato tutto ciò che c’era da salvare… e difendere… e proteggere.
Ma per far ottenere il consenso dei media, quello privo di accenni etnomusicologici, quello che si ferma di fronte alla descrizione scientifica delle differenze di canto da quartiere a quartiere, da paese a paese, da provincia a provincia e nello stesso tempo far aprire una finestra internazionale su un mondo di bellezza sino ad allora poco conosciuto, Madre natura sempre in quel fecondo tardo dopoguerra inviò in Sardegna la rappresentazione esteriore ed interiore della Grazia Ichnusea, una creatura che fu in grado di mandare l’ascoltatore in sella ad un arcobaleno come ci narra Giovanna Elies: Maria Carta.
Maria, diventerà oltre che una Grande poliedrica Artista anche docente di antropologia culturale all’Università di Bologna; e riesce Lei stessa a tracciare un’analisi piena del proprio percorso artistico legato alla tradizione sarda (libro biografico autobiografico Maria Carta di Emanuele Garau): immersa nella realtà contadina fin dalla nascita ripercorre il vissuto della fatica legata ai cicli della natura e degli agricoltori; e non a caso la Poetessa Giovanna Elies riesce giustamente ad impreziosirla immersa da lecci, sugherete, da cisto, da ginepri e da altre essenze mediterranee; nulla Le viene nascosto della realtà, e nei suoi ricordi riemergono spesso la morte, il lutto vissuto in tenera età, la paura.
I primi ed involontari esercizi di canto in chiesa, sono comuni a quelli delle tante Donne del Sud, quelle che riuscivano magicamente ad usare la stessa tonalità senza che venisse fornita loro la nota di base (sperimentato personalmente in una ricerca su un canto religioso della Basilicata); e poi il contatto con la musica tradizionale pura, quella che è sempre stata presente in ogni angolo di Sardegna.
Come nel caso degli artisti napoletani, Maria non si ferma all’esperienza autodidatta ma si iscrive al Centro studi di musica popolare dell’Accademia Santa Cecilia ed inizia uno studio etnografico sugli antichi canti di Sardegna (Maria Lidia Contu, la voce di Sardegna).
Non è casuale che il suo primo album si chiami Paradiso in Re; Maria riprende la tradizione del “cantu a chiterra” che si fonda sulla forma metrico-musicale del “Cantu in Re”.
Questo canto monodico accompagnato dalla chitarra con le sue varianti è tipico della Gallura, e di tutte le aree del Nord della Sardegna, dove Maria nacque e trascorse l’infanzia.
Non bisogna tuttavia dimenticare l’ approccio alla musica sacra ed al canto Gregoriano impreziositi dalla sua personalissima e straordinaria voce.
Il resto è Storia, è conosciuto il forte impegno politico di Maria e la sua attenzione per i problemi delle classi più indifese ed infine il successo internazionale che la renderà immortale a dispetto di una malattia che spegnerà la sua voce ad appena 60 anni di età.
Alfredo Crispo