Le neuroscienze e la narrativa
Ho sempre avuto paura di immergermi in un testo scientifico sulle neuroscienze. Non tanto e non solo perché ne so molto poco, ma soprattutto per la paura che fosse capace di dimostrarmi, senza margini di dubbio, che la mia creatività di scrittore, giornalista, osservatore del mondo derivasse soltanto, meccanicamente, dai miliardi di funzioni svolte dal mio cervello e non dalla mia persona nel suo complesso, immersa nell’ambiente circostante, nella propria corporeità, nella sua capacità di astrazione. Mi sono deciso a vincere la paura perché il mio amico ed ex collega alla ‘Nuova Sardegna’ Roberto Paracchini ha voluto farmi dono del suo ultimo libro, dal titolo semplicissimo – ‘Parole’, edito da Aracne Editrice nella collana ‘Filosofia della scienza’ diretta da Silvano Tagliagambe –, ma dall’intenso spessore contenutistico. Ho cominciato a leggerlo con rispetto e timore, poi, pian piano, mi sono sentito sempre più coinvolgere perché la sua analisi si è concentrata soprattutto sui problemi legati alla narrazione, alle storie, ai racconti, A quel punto ho pensato che proprio per questo ha voluto farmene dono. Sì, perché spaziando in modo molto approfondito fra centinaia di autori, senza mai diventare noioso, il libro dà una spinta generosa e confortante a chi vuole mettersi alle prese con la pagina bianca, o – se preferite – con una tela o un progetto narrativo per immagini. Il cervello diventa il depositario della storia plurimillenaria dell’uomo, delle sue esperienze, delle sue emozioni, delle sue immaginazioni dal quale attingere secondo le sensibilità, le libertà individuali. Le modalità di questa acquisizione sono mirabilmente descritte dallo scienziato di origine portoghese Antonio Damasio, secondo il quale ‘il cervello umano lavora come un’orchestra’ senza un vero e proprio centro di comando, ma ‘la (cui) partitura viene inventata via via’. Un po’ come una frase del poeta portoghese Fernando Pessoa: “Io non so quali strumenti, violini e arpe, timpani e tamburi, suonino e risuonino dentro di me. Io mi conosco cole come una sinfonia” (pag. 117). E l’interscambio fra noi – entità complessa – e il nostro cervello, può avvenire anche nella direzione opposta, come scrive Daniel Dennett: “Gli scrittori professionisti, come i truffatori, creano le storie con astuzia e con una deliberata attenzione per i dettagli. A parte loro, siamo tutti dilettanti molto dotati, che producono racconti con grande abilità, ma (nel complesso) inconsapevolmente, un po’ come il ragno produce la sua tela. E’ natura, non arte. La questione non è tanto che noi, usando il cervello, produciamo le nostre storie, quanto che il nostro cervello, usando le storie, produce noi” (pag. 96). In qual modo noi procediamo nella creazione nella narrazione delle storie, Paracchini ce lo illustra nel bel capitolo dedicato ad estetica ed etica, così come a lungo si sofferma sulle forme della comunicazione e dei linguaggi, sulle lunghe epoche di formazione e trasformazione delle relazioni, su quel che può accadere in futuro con l’approfondimento delle ricerche sulle enormi ulteriori potenzialità del cervello ancora inesplorate. Tanto che, alla fine, ci si può abbandonare ad una fantastica immaginazione: l’uomo che ha saputo inventare, dopo millenni di elaborazioni, scrittura e lettura, saprà trovare una forma di comunicazione che vada oltre la parola, che metta in contatto tra loro direttamente i cervelli, capaci di eliminare le tradizioni che a volte possono tradire piuttosto che tradurre? Sarà questa ‘la bellezza che salverà il mondo’, per citare anche qui Dostoevskij?
Ottavio Olita