Premio Letterario Osilo, XIV Edizione intitolata a Giovanni Zirolia Professionista del Diritto, Sez. Premio “Antonio Gramsci” a Franco Mannoni per “Il campo degli asfodeli”, a cura di Attilio Mastino
Non so per quale misteriosa ragione il socialista Franco Mannoni – correndo qualche rischio – abbia scelto un ex democristiano per presentare questo libro delizioso, Il Campo degli asfodeli, edito a Cagliari da Arkadia. Il tema gli era stato suggerito a Santa Teresa di Gallura da Manlio Brigaglia durante una delle tante loro chiacchierate estive al Caffè dello Sport. L’introduzione è stata affidata ad un più competente giovane studioso, Gianluca Scroccu, ricercatore di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia, Beni culturali e Territorio dell’Università degli Studi di Cagliari, che mette in evidenza come questo non sia un saggio ma un libro di narrativa, un po’ come il romanzo Se ascolti il vento, con tante storie che raccontano di aspirazioni lontane, desideri fecondi, progetti positivi, molti non realizzati. Ho letto in una serata tutto d’un fiato queste belle pagine, incrociando i miei ricordi di un tempo lontano, ritrovando tante persone conosciute, soprattutto riscoprendo tanti retroscena, tante difficoltà, tante resistenze al cambiamento che hanno caratterizzato gli anni immediatamente a cavallo di quel meraviglioso 1968 pieno di speranze, di desideri, di curiosità; anno, il 1968, che è anche nel ricordo un momento magico della vita, un momento liminare di un’avventura straordinaria, ricca di emozioni e di storie; questo è il mondo rimpianto davvero, quando tutto sembrava possibile. In realtà questo libro inizia in un mattino di primavera di tre anni prima, al bivio che dal castello di Macomer e da San Pantaleo porta verso Nuoro, quando una cinquecento bianca partita dalla Gallura si spinge con difficoltà sulla statale verso la piana del Tirso al piede del Marghine, tra i fiori di asfodelo. L’autore svolge il gomitolo dei suoi ricordi fino a fermarsi nel 1965, con un linguaggio lirico commosso, inusuale per un politico di razza freddo e misurato: <<mi fermai in una piazzuola, presso un campo di asfodeli, dalla quale si dominava in profondità il paesaggio, verso la piana. Oltre la cunetta gli asfodeli si infittivano, pallidi ed eretti, per lungo tratto. Svettavano l’uno prossimo all’altro, risultato del miracolo compiuto da una natura che si rinnova e riproduce in uno strato sottile di terra disteso sulle dure trachiti. Il giallo delle ferule illuminava il pallore degli asfodeli. Segni che la primavera aveva il suo corso. Però, verso il Gennargentu, in alto, resisteva il segno di un inverno non ancora concluso>>. Il linguaggio alto è testimoniato dalla citazione dotta, che rimanda a Cenere di Grazia Deledda: <<Nella campagna intorno moriva la selvaggia primavera sarda: si sfogliavano i fiori dell’asfodelo e i grappoli d’oro della ginestra>>.E poi la salita di Su Berrinau, con i tornati che arrivano fino alla fabbrica ceramica dei Gallisai, luoghi noti perché qui si erano ripetuti agguati e rapine, un mondo al tramonto negli ultimi anni della presidenza dell’Associazione industriali di Pietro Guiso Gallisai, figlio del celebre barone delle industrie nuoresi. Ho ritrovato in queste pagine anche l’emozione di chi, straniero arrivato dal mare, viene catapultato in Barbagia per svolgervi un ruolo politico o amministrativo, scoprendosi apparentemente inadeguato in un mondo sconosciuto e chiuso che poi imparerà ad amare, proprio come è accaduto a me quanto ho iniziato col batticuore a fare l’assessore all’ambiente in Provincia: accettato inizialmente con difficoltà, perché i nuovi ingressi determinavano un’alterazione dei tradizionali rapporti di forza tra persone, tra gruppi sociali, tra partiti, dentro i partiti. Eppure sbaglieremmo se interpretassimo come chiuso e reazionario il mondo politico nuorese e, anche se l’autore non n’ammetterebbe mai, le grandi battaglie per la modernizzazione della Sardegna da lui combattute sono state davvero decisive per l’intera Sardegna e prossime a quelle portate avanti in quegli anni proprio dai suoi avversari e amici, Giovanni Del Rio e Nino Carrus tra i fanfaniani, Ariuccio Carta e Angelo Roych per Forze Nuove, Giannetto Visentini per i Democratici di Sinistra, per arrivare al fonnese Giovanni Nonne per i Socialisti. A quest’ultimo mi lega un’amicizia lontana, sviluppatasi all’interno dell’ISPROM di cui è stato a lungo Presidente, poi nella sua villa al Poetto con la barca tirata in secco nel giardino, a Stintino, infine a Malta venti anni fa da Salvino Busuttil, alla scoperta di Caravaggio, presso l’oratorio barocco di San Giovanni Battista dei Cavalieri a La Valletta: con l’emozione di fronte a quella rappresentazione, quasi una scena teatrale, della Decollazione del Battista che davanti al carcere si sottopone di buon grado alla volontà del boia. Una scena tanto simile ma tanto diversa dalla decapitazione del generale Oloferne per mano di Giuditta, davanti a una vecchia copiata pari pari da Leonardo. Dunque il rapporto, la competizione, il sodalizio con Giovanni Nonne, nell’ambito dello stesso territorio, dello stesso piccolo partito, della stessa piccola corrente di sinistra, tra Lombardi e Signorile, schiacciato dai giganti a destra e a sinistra, minacciato di essere relegato in un ruolo secondario. Ma l’A. ha sempre avuto la convinzione, fallace, che il PSI – il partito più antico del nostro paese – in particolare il PSI nuorese sarebbe arrivato a divenire la misura di tutte le cose, il centro del mondo, il calderone nel quale tutte le strategie di sviluppo della Sardegna dovevano essere misurate, progettate, digerite, messe in pratica, dovevano confluire. Così evidentemente non è stato. L’arrivo a Nuoro coincide con l’ingresso in quello strano palazzo del Provveditorato agli studi, costruito come tanti altri nello stile burocratico fascista di impronta razionalista, prima che l’Ufficio scolastico provinciale si spostasse nel nuovo edificio costruito dalla Provincia in Via Veneto, che solo di recente si è scoperto infestato dall’amianto. Il paesaggio urbano, la città disegnata dal Regime dopo la nascita della Provincia nel 1927 con il palazzo delle Poste in granito e trachite, con la torre dell’orologio, il porticato e le bellissime antefisse classiche; fino ai padiglioni dell’artiglieria, che abbiamo riscoperto di recente con la mostra sulle scenografie di Dario Fo promossa da Peppino Pirisi dell’ISRE, più di recente con la mostra di Wolfgang Suschitzky sulla campagna antimalarica; il vecchio ospedale San Francesco, la casa della madre e del fanciullo, o gli istituti scolastici, le Scuole Elementari Podda, il Liceo Classico Asproni, l’Istituto Magistrale dove avevano studiato Massimo Pittau e mia madre coinvolta in uno scandalo legato alla visita di Mussolini nel 1935, con questo bandito Antonio Pintori di Bitti, difeso dall’avv. Mannironi che percorreva in catene il tratto tra la rotonda e il tribunale presso il Duomo. Quando vent’anni fa presiedetti una commissione di maturità riscoprii, sulle scale, che restavano i versi di Sebastiano Satta pieni di retorica dannunziana, dai Canti Barbaricini in lode di Francesco Ciusa: Se l’aurora arderà su’ tuoi graniti, tu lo dovrai, Sardegna, ai nuovi figli.Perché Nuoro, va detto, negli anni 60 e 70 intimoriva chi arrivava dall’esterno: ne fa fede il leggero tremore che colse il giovane Mannoni quando, abbandonato l’insegnamento e accettato un ruolo amministrativo, varcò la soglia di un Provveditorato agli studi dove avrebbe dimenticato la dolcezza del vivere “messicano” ad Alghero o a Santa Teresa, dove il tempo si misurava in altro modo, senza quella rilassatezza solare che ancora oggi si prova tornando ad Alghero, soprattutto durante la primavera catalana: un passaggio, una porta da varcare, una frontiera verso una Sardegna differente, una Barbagia quasi sconosciuta, difficile da accettare, nota per i fatti delittuosi, per i sequestri, per le uccisioni, come in quegli stessi mesi racconta il film L’ultimo pugno di terra di Fiorenzo Serra, con il corpo del pastore ucciso nelle campagne, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta.Non si potrebbe immaginare un ambiente più lontano dall’idea di Sardegna che Mannoni si era costruito, a 25 anni, a Cagliari, in Gallura, ad Alghero: la sede di Nuoro presso il Provveditorato era decisamente quella meno ambita in Italia, ma il giovane non aveva – così si giustifica – santi democristiani in paradiso, perché l’anno prima si era imprudentemente rivelato socialista candidandosi a Santa Teresa e in Provincia di Sassari.Il mondo nuovo si manifesta già all’ingresso di questo interminabile corridoio del Provveditorato, arredato con mobili di scarto, con questa iniziale spiacevole impressione di stantio, polveroso, vecchio e dozzinale: un luogo presidiato autorevolmente dall’usciere Cosseddu, mutilato in guerra; e gli altri strani personaggi che pian piano riemergono dalla memoria, il maestro Asole che comandava o faceva finta con lo stile di un piccolo capo di scuola fascista, tratteggiato con due pennellate per questi pantaloni con cintura prossima alle ascelle, tenuti da due ingombranti bretelle e attraversati da una cravatta che penzolava fino all’altezza della patta; come non ricordare quel modestissimo consigliere regionale lanciato in politica da una DC ancora prepotente che vedevo arrivare al mare di Bosa per fare bagni di sabbia contro i reumatismi che affliggevano i montanari ? Ragazzo, lo guardavo con sufficienza per questo costume ascellare tipicamente barbaricino. O l’archivista Giosué Arba, acrobatico signore dei fascicoli; gli altri personaggi della galleria dei burocrati, come il maestro Zelindo Buttu, un vecchio scapolo, un uomo senza donne, navigatore solitario in un oceano di pregiudizi, di preghiere declamate ad alta voce, di piccole cattiverie praticate: aggiunge l’A. se non avessi avuto conoscenza diretta, oggi potrei pensare di aver conosciuto una caricatura. E poi il professore di filosofia longa manus in Provveditorato di un notabile locale democristiano. Infine il consigliere di prima classe, un meridionale tendente all’autoritario, con il suo scrivano dotato di mezze maniche nere. Un ambiente conservatore e burocratico, incapace di capire i problemi veri. Del resto meridionale era allora tutta la classe dirigente nuorese, il segretario del prefetto, il funzionario napoletano, il siciliano, gli altri personaggi con questa inflessione marcatamente meridionale, infarcita di locuzioni fra il burocratico e il notarile, che dovevano diventare i coinquilini della pensione gestita in centro da una signora che indossava una sorta di costume ibrido, con la lunga gonna plissettata, lo scialle e il pullover di lana di foggia civile; impegnati ad amministrare temporaneamente un territorio altrui, sempre in attesa di un prossimo trasferimento che non arrivava mai. Al giovane i coinquilini continentali sembravano lontanissimi dai suoi gusti e dalle sue opinioni, in più gli apparivano animati da atteggiamenti spocchiosi, autoritari e polizieschi nei confronti della realtà nuorese, di cui parlavano senza alcuna conoscenza. Il provveditore dott. Coro faceva eccezione, ammirato dal suo vice, un sardo che aveva studiato a Torino, democratico, antifascista, umanista, letterato dalla memoria di ferro, che era in grado di recitare a memoria migliaia di versi, capace di assumere decisioni coraggiose e tempestive; le sue dimissioni aprirono le porte al vice provveditore, ma furono congelate da notabili democristiani che avevano santi in paradiso come presso il Ministro Riccardo Misasi. Era però il provveditorato che non gli piaceva, perché era un ambiente chiuso, poco invitante: <<in quel posto circolava un’aria di vecchiume, di conformismo, di ossequiosa osservanza per i dirigenti e per le autorità>>. Dunque la delusione del primo impatto, ma anche l’emozione provata nel salire sul misterioso Ortobene e attraversare il bosco, l’amore sognato e immaginato prima e totalizzante poi per Teresa, un amore d’altri tempi, costruito di sentimenti, di intese e di passione, sia pure con il disagio per la distanza, la gioia per l’incontro, il sapore indimenticabile di un benessere lontano e di una pienezza di vita che richiama una gioventù colorata e preziosa. Il giovane Mannoni, che ora si giudica piuttosto svelto mentalmente e operativamente, era capace di uscire da quell’ambiente chiuso, di proiettarsi sul territorio, stringere una rete di rapporti con presidi e autorità scolastiche, insegnanti, studenti. Vicario del provveditore, Mannoni aveva una visione d’insieme della scuola nuorese più ampia di chiunque altro, soprattutto aveva un rapporto diretto con professori e maestri elementari, mentre disprezzava i provveditori che si succedevano arrivati da fuori, coi loro ispettori ingordi, i proconsoli sardi e il loro comportamento non poco discutibile. In queste pagine c’è davvero uno sguardo fresco e nuovo sulla scuola nuorese negli anni 60 quando si avvertiva, a onta dell’aspetto decadente e trasandato dell’ufficio, un notevole fermento, dovuto principalmente all’afflusso di personale scolastico, agli insegnanti in attesa di sede, al fenomeno di marcata espansione scolastica, alla strana e pervasiva presenza dei sindacalisti che sorprendentemente affiancavano i circa 60 funzionari in servizio, in una singolare cogestione delle politiche del personale: <<il sindacato era ovunque, nella programmazione delle istituzioni scolastiche, nella formazione delle graduatorie degli insegnanti e dei bidelli, nell’assegnazione delle sedi>>). Si cercava la pace sociale e insieme la condivisone del potere burocratico. Del resto Arturo Parisi e Gianni Francioni, ricordando in questi giorni Manlio Brigaglia, hanno osservato come in quegli anni in Sardegna, credo più ancora in provincia di Nuoro, ci fosse una solida rete di Licei, in particolare di Licei Classici che costituivano l’ossatura della struttura sociale e preparavano la nuova classe dirigente; per usare le parole di Mannoni la scuola nuorese era in una fase di espansione. Si attivava per la prima volta una rete completa in una provincia povera e attraversata da problemi di miseria, che generavano gravi tensioni; penso al Liceo Asproni di Nuoro, ma anche a Macomer, a Bosa, a Lanusei, con le presidi Roberta Calamida Maninchedda e Vincenza Scampuddu Mastino che mi rimangono impresse nella memoria con gratitudine e che riuscivano con difficoltà a fare i conti con le problematiche della nuova scuola di massa in espansione; proprio allora iniziavano a comparire le prime contestazioni e i primi scioperi studenteschi ispirati da giovani professori pervasi da spiriti libertari, anticapitalisti e ribellisti, voglio citare almeno la figura del giovane Sfara, un rivoluzionario sui generis che avevo lodato su L’Unione Sarda per lo sciopero degli studenti ginnasiali di Bosa, poi processato ida un tribunale di istituto per turpiloquio, per iniziativa del segretario DC, e trasferito a Lanusei. Lo conobbi vent’anni dopo ed era diventato un tranquillo borghese di provincia, che mi sorprese e riuscì anche a scusarsi per alcuni eccessi. I maestri e i professori liceali di quegli anni, occupati prima ancora della laurea, credo rappresentassero davvero il meglio della classe dirigente sarda, facevano politica, amministravano comuni e province, erano in prima linea sui grandi temi dello sviluppo della Sardegna; un’osmosi tra scuola e politica che non può essere semplicemente contiguità o compromesso. Quanta amarezza c’è in queste pagine, mi pare, nel constatare come gli insegnanti a causa delle politiche successive siano stati poi violentemente proiettati indietro nella scala sociale, malpagati, in genere costretti a ritirarsi dalla politica, collocarsi in seconda linea, mentre altri gruppi sociali più vivaci progressivamente si facevano avanti, magari con interessi personali e precisi obiettivi da portare avanti. Gli studenti universitari entravano con turbolenza nella Scuola, sostenuti dal presalario e desiderosi di trovare subito una professione. I concorsi a cattedre romani, le prese di servizio decise quasi all’asta dalla Preside Mannchedda, a me carissima. Nel libro c’è un elenco di insegnanti e presidi, da Nuoro a Oliena, a Siniscola, a Torpé, a Bitti, a Orune, a Gavoi, a Seulo, a Laconi, ad Arzana, a Baunei, a Dorgali, a Bosa, a Macomer, a Isili, a Ulassai, a Tortolì, con un numero incredibile di sindaci socialisti. Nuoro era una cittadina di provincia tutta ripiegata su se stessa, dove circolavano ancora animali, cavalli, asini, ma penso al grifone di cui si innamorò bambino Domenico Ruiu, commosso per questo avvoltoio prigioniero e furente che veniva condotto per le strade della città come un trofeo o un drago mostruoso che emetteva suoni o lamenti e rimandava a un mondo fatto di mistero e di vita vera. Il Corso di Nuoro era ancora frequentato da pastori in gambali con la bisaccia sulle spalle, da donne con lo scialle sul capo. La campagna e la città. Le case erano buie e ricordo – ragazzo – lo studio dell’avv. Antonio Gardu, commilitone di mio padre in guerra, pochi mesi prima del rapimento di sua moglie Assunta Calamida, la prima donna sequestrata in Sardegna per 16 giorni e 17 interminabili notti: mi avevano colpito questi tappeti, questi mobili scuri, pesanti, tristissimi, la scrivania, le sedie, le cassapanche incise e decorate alla maniera nuorese, un’arte che mi richiamava un Melkiorre Melis ancora più sardo e scontroso. Oggi penso si trattasse di vere e proprie piccole opere d’arte che ero incapace di apprezzare. Alle pareti anche dello studio di Gonario Pinna i quadri di Antonio Ballero, morto nel 1932, Mario Delitala di Orani (1990), Antonio Mura di Aritzo (1972), Carmelo Floris di Olzai (1960), giganti dell’arte sarda. In questo ambiente soffocato dalla cappa della criminalità, arriva, con molti dubbi e incertezze, un giovane aperto, intelligente, curioso, pieno di desideri, un democratico che sapeva come attraverso la scuola sarebbe stato possibile trasformare la Barbagia, facendo leva sulle tante cose da amare che aveva osservato in una società che Giuseppe Fiori aveva descritto come La società del malessere, afflitta dalla povertà e dall’analfabetismo. Dunque tante letture straordinarie: il libro La scuola nemica di Albino Bernardini di Siniscola, scritto nella borgata di Pietralata alle porte di Roma, da cui lo sceneggiato televisivo Diario di un maestro del 1972, diretto da Vittorio De Seta. Ancora Le bacchette di Lula, del 1969: ma perché mai «mai la gente si preoccupa di presentare i bambini a tinte così fosche?» è l’interrogativo che si poneva al suo arrivo a Lula, villaggio che all’epoca s’inscriveva nella Sardegna più arcaica e profonda, in un posto come il Mont’Albo di una bellezza da lasciare senza fiato. Lo sguardo del maestro – come anche nell’attività condotta nelle borgate neglette delle città italiane – è lucidissimo e dolente, intriso di pietas verso un’infanzia negata dalle inconsapevoli e gravi anaffettività degli adulti… «C’è un’unità assoluta tra “esperienza scolastica” e “esperienza umana” in questo memoriale imprudente e bellissimo», scrive Gianni Rodari nella presentazione al libro. Ma sarà lo stesso Bernardini, molti anni più tardi, a scoprire di avere aperto con il suo insegnamento fecondo squarci di speranza. Per Bernardini una scuola avulsa dal contesto in cui opera, viene meno a uno dei suoi compiti prioritari. L’apprendimento di ogni ragazzo, avvenuto per esperienza direttamente vissuta e sperimentato emozionalmente, si realizza dentro un ben preciso contesto ambientale e si regge, come ogni percorso educativo, sull’imparare a conoscere, a fare ma soprattutto ad essere; ossia sulla capacità di acquisire gli strumenti della comprensione di tale contesto così da essere capaci di agire creativamente nell’ambiente circostante e poter in tal modo costruire una propria identità culturale e umana, partendo – come avrebbe osservato in quegli anni a Lula e Bono Antonino Mura Ena (poi nel volume voluto da Nicola Tanda nel 1999) da quella «oralità primaria» che rappresenta lo specifico della Barbagia ma che richiama profondamente – ha osservato Dino Manca – il mondo dell’antichità, che era stato il mondo dell’oralità, dell’orecchio e della marcata organizzazione uditiva dell’esperienza. E ancora Maria Giacobbe col suo Diario di una mestrina (1957), una lucida cronaca della quotidianità di un’insegnante elementare che, nata e cresciuta in una “buona famiglia” nuorese, è divenuta maestra quasi per darsi uno scopo e un’identità: “In seconda liceo mi ammalai e con sollievo lasciai la scuola. Due anni di noia e di malinconia. Mi dispiaceva esser “figlia di famiglia” e tentai di impiegarmi. Ma per una ragazza “della mia condizione sociale” non era facile cosa trovare lavoro. Non un lavoro manuale nella fabbrica di ceramica che andava sorgendo e che mi attirava molto: sarebbe stato indecoroso. Non un impiego perché non avevo titoli di studio validi ad ottenermene uno pari come importanza alla dignità del mio clan… Ma che cosa dunque? Di ritornare a scuola, al liceo, quando già le mie compagne erano all’università, non me la sentivo. Fra le ostilità dei familiari che giudicavano ciò un volontario declassarmi, diedi l’abilitazione magistrale e decisi di fare la maestra”…Perché il Nuorese era ancora il regno dell’analfabetismo, dell’isolamento, della frontiera, anche se tra il 1964 e il 1973 gli alunni delle scuole superiori della Provincia di Nuoro passano da 2500 a quasi 10.000, dunque si quadruplicano.Ho trovato straordinarie le pagine di questo libro che descrivono la criminalità barbaricina, il malessere sociale, le centinaia di omicidi, le taglie sui ricercati, i sequestri (11 nel 1966, altrettanti nel 1967, 12 nel 1968), i conflitti a fuoco con la morte di tanti poliziotti e banditi, come Atienza, dopo la visita del Presidente Saragat e il celebre discorso sulla balentia che tanto aveva impressionato noi che vivevamo sulla costa: la “balentia” doveva essere usata per opporsi ai delinquenti e per vincere l’omertà e l’indifferenza; anch’io ricordo che qualcuno proponeva l’uso del napalm per stanare i delinquenti e c’era chi, colpito per il sequestro della Gardu, avrebbe giustificato un incendio che azzerasse tutto il Nuorese: l’ansia del quotidiano, l’odore ferino del mondo del crimine, la possibilità per chi come Mannoni viveva a Nuoro con la famiglia di essere prima o poi coinvolti. Infine nel 1968 l’arresto – finalmente – di Graziano Mesina, bandito applaudito ed esaltato da alcuni studenti; ma già Peppino Fiori e Angelo Demurtas avevano fatto prevalere un giudizio che oggi sottoscriviamo, Mesina era solo un modesto balordo di paese e di campagna. Eppure Mannoni sa distinguere e manifesta interesse per la società nuorese, partecipando da subito anche a quei veri e propri riti iniziatici dello spuntino a Marreri, ingaglioffandosi in una vera e propria abbuffata, una mensa comune, forse una pratica inconsapevole per esorcizzare il dramma e ripristinare la normalità stravolta dalla violenza quotidiana.I momenti più belli nella memoria sono però quelli con Teresa e gli amici al mare, sulle dune di Capo Comino, come con Aldo e Chiara: la bellezza della costa calcarea, l’incanto del mare smeraldo, la dolcezza delle dune di sabbia bianchissima fra le quali si annidano boschetti di ginepro, il lentischio come il rosmarino e, soprattutto, l’elicriso, il cui profumo invadeva l’aria. Guardandosi indietro sembrano scomparire gli anni trascorsi che hanno conosciuto anche i sequestri di persona, perché <<ci si dimenticava, a un’ora da Nuoro e dalle Barbagie, dei banditi e dei manifesti-taglia con le fotografie dei latitanti affissi ai muri. Il bagno aveva un effetto liberatorio, purificatore>>.Oppure, nelle lunghe serate dell’inverno nuorese, al cinema, nei cineclub, con la voglia di musica da ascoltare e da ballare: non ho la competenza per valutare i gusti musicali di questi giovinastri che continuavano a sentirsi un po’ a disagio, fuori posto, mentre leggevano La Noia di Moravia (1960), i racconti “Le Cosmicomiche” (1965) di Italo Calvino, Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov. La nascita improvvisa ma non inattesa tra il 1967 e il 1968 di due figli maschi, Carlo e Mauro, la felicità di una vita nuova vissuta mentre a Nuoro esplodeva davvero una gigantesca questione sociale, provocata anche dalla prepotenza e dall’incapacità di tanti funzionari. Qui continuava ad essere enorme l’influenza di personaggi del calibro di Sebastiano Satta (al quale in quegli anni si dedicò la piazza Plebiscito progettata da Costantino Nivola), Grazia Deledda, Francesco Cambosu (morto nel 1962), lo scultore Francesco Ciusa (morto 1949), l’antifascista Angela Maccioni (presidente della Biblioteca Satta fino al 1958). Infine suo marito l’antropologo autodidatta Lillino Marchi (morto nel 1981), il giurista Salvatore Satta (Il giorno del giudizio sarebbe stato pubblicato postumo solo nel 1977). Mannoni osserva commosso: <<mi è rimasta nella memoria la sorprendente contraddizione tra la profondità e drammaticità dei problemi, la difficoltà del popolo barbaricino a liberarsi dalla cappa di piombo in cui è stato tenuto per secoli, dall’abbandono, dall’emarginazione, dall’oppressione procurati dai poteri statali incapaci di superare la cortina di ignoranza che preclude la conoscenza dei fenomeni sociali. E la contemporanea altrettanto sorprendente capacità di uomini generati da questa terra di sollevarsi e liberarsi da pregiudizi e da vincoli imposti per produrre alti livelli di narrazione e rappresentazione dell’anima e della cultura dei sardi>>.Ma l’orizzonte si allarga quando si entra in politica, partendo da una conferenza di Antonio Giolitti all’Eliseo di Nuoro; Mannoni ne conosceva il pensiero già a Sassari, studente di Giurisprudenza, quando aveva letto il libro Riforme e Rivoluzione: lo avrebbe seguito nell’avventura del PSU e della corrente “impegno socialista”, emozionato dal nuovo libro Un socialismo possibile, concentrandosi sulla possibilità di integrare socialismo e libertà, programmazione economica e giustizia sociale (proprio a Gianluca Scroccu dobbiamo l’analisi La sinistra credibile. Antonio Giolitti tra socialismo, riformismo ed europeismo (1964-2010), Carocci, 2016). A Nuoro questa fu l’occasione di un incontro con i padri nobili, Gonario Pinna più che un uomo di partito un intellettuale di statura europea; l’italianista Giuseppe Catte, genero di Gonario che era stato capo della segreteria di un comunista, Velio Spano, poi assessore regionale all’agricoltura; Giannetto Soddu, Pasquale Funedda, tutti capaci di esercitare una grande influenza nel campo della cultura e della politica, in accordo con Bustianu Dessanay, passato ai socialisti dopo i fatti d’Ungheria e il congresso del PCUS del 1956; l’apporto di alcuni intellettuali come Peppino Fiori, Gaetano Arfé, Giuseppe Melis Bassu all’interno del circolo “Avanti”, un punto di riferimento dell’opinione democratica e della cultura nuorese, sui temi della giustizia, del ruolo dei socialisti, dell’informazione in Sardegna. Il dibattito intorno a “La Nuova città” di Cesare Pirisi, il peso che continuavano ad avere alcune figure della resistenza al fascismo, il costituente Pietrino Mastino (morto nel 1969), Salvatore Mannironi (morto nel 1971), la figura dei 41 eroi della resistenza, tra i quali Antonio Mereu caduto nel 1944, fratello del mio maestro il sindaco di Bosa Paolo Mereu. La militanza in un partito, il PSI, che era microscopico se rapportato a quella macchina da guerra che era la DC, che da un punto di vista elettorale pesava dieci volte tanto. In una sola pagina Mannoni riesce a condensare un quadro di novità che alla vigilia del 68 investe anche il Nuorese: il boom economico, l’emigrazione in una prospettiva più ottimista, gli elementi di una modernità fatta di proposte di consumo, lo sviluppo industriale nelle raffinerie di Porto Torres e Macchiareddu, la Saras, persino Villacidro e Arbatax, la Costa Smeralda e i collaboratori del principe azzurro tra i quali l’indipendentista Antonio Simon Mossa, il Museo del costume a Nuoro voluto proprio da Simon Mossa, la Rinascita guidata dalla giunta di Giovanni Del Rio dopo la Relazione Medici, la chimica che era sostenuta in regime di sostanziale monopolio politico dai giovani turchi sassaresi ma che piaceva anche ai dirigenti del PCI, la polarizzazione urbana su Cagliari, la stampa asservita ai Rovelli e ai Moratti, perfino le squadre sportive come il Brill controllate dai nuovi padroni; sull’alto piatto della bilancia l’emarginazione delle zone interne, la disperazione di alcune classi sociali, con Nuoro che cresceva a danno di tutti i paesi del contorno, lo sviluppo della programmazione anche attraverso l’inizialmente fragile Centro regionale per la programmazione. Il divario tra le diverse Sardegne diventava il cavallo di battaglia della classe dirigente democratica del Nuorese, contraria in genere all’occupazione poliziesca del territorio con i baschi blu, alla nascita del Parco del Gennargentu quale strumento di controllo della montagna, il ruolo attivissimo di tanti Circoli della Barbagia che facevano emergere una forte contestazione anticapitalistica e anticolonialista, anche l’inadeguatezza dei partiti compresi il PSI il PSU e il PSIUP, che discutevano della riforma dello stato o della scuola ma non mettevano becco sull’ottuso strapotere dei prefetti in provincia e sulle condizioni di arretratezza in cui versava la scuola nuorese, al tempo del diritto allo studio. Per Mannoni il malessere si nutriva di insicurezza, miseria, disoccupazione, vuoto di prospettive. Fu Dessanay ad agitare in consiglio regionale il vessillo dell’anticolonialismo, apprezzando l’emergere in Baronia, una delle nostre regioni più povere, la forte partecipazione dei giovani intellettuali alle lotte popolari. Anche lui l’avrei visto all’opera all’ISPROM fino al 1986 e oggi lo rimpiango. Ma furono Giovanni Del Rio, Ariuccio Carta, Paolo Dettori e Francesco Cossiga nell’incontro col Presidente Moro e col Ministro dell’interno Taviani a respingere nell’autunno caldo del 68 l’invio di più forze dell’ordine ed a pretendere invece <<la trasformazione delle zone agropastorali e la presenza nelle zone centrali dell’isola di vasti insediamenti industriali>>. I giovani turchi prendevano la casacca dei Morotei e i giamburrasca nuoresi di Forze Nuove assumevano una sorta di egemonia nel processo di sviluppo, non senza gravissime contraddizioni, ma con uno strepitoso successo elettorale, favorito dal passaggio di Taviani al Ministero per il Mezzogiorno: nel marzo 69 davanti alla cattedrale di San Nicola a Ottana in un incontro promosso da Cossiga, Carta, Ligios e Rojch Ottana assumeva le caratteristiche di area industriale di interesse nazionale, mentre i socialisti osservavano con distacco ma emozionati questa sorta di rivoluzione che nei decenni successivi avrebbe conosciuto un drammatico fallimento. Eppure il consenso allora era stato unanime e nel 1973 la DC otteneva un successo che sfiorava il 50% dei voti; il PSI si divideva e Mannoni ammette alcuni errori, la Mozione locale unitaria, lo stesso congresso nazionale di Genova, le delusioni del voto polarizzato. Nonostante le promesse, ci fu chi tentò fino all’ultimo di applicare la legge della forza, con l’invio nel 1969 sulla piana di Pratobello della divisione corazzata Trieste, in vista dell’attivazione di un poligono di tiro a due passi da Orgosolo e da Fonni. La risposta popolare fu massiccia. A distanza di 50 anni quella ferita brucia ancora, come ha dimostrato due settimane fa la manifestazione di protesta e di festa. Già da anni era in corso l’addestramento dei Gladiatori ad Alghero, mentre a Nuoro dal 1977 si costruiva il supercarcere di Badu ‘e Carros, una vera università del crimine e della violenza, un gravissimo errore della politica sarda come ha osservato in tempi non sospetti Salvatore Mannuzzu. A Maddalena nasceva la base per sommergibili nucleari. Giovanni Lilliu parlava di fallimento dell’autonomia e di Rinascita abortita, con Antonio Pigliaru (morto nel 1969), del tutto inascoltato; Mannoni ricorda le severe critiche di Marcello Lelli, sociologo dell’industrializzazione, con Renzo Laconi, Umberto Cardia, Giuseppe Catte e Bustianu Dessanay: ci furono molte riserve e molti dubbi, ma non una vera e propria opposizione perché anche nel PCI prevalse l’anima nettamente industrialista, con un pensiero unico imperante.Eppure proprio di questi anni è Il golpe di Ottana di Giovanni Columbu, che evidenziava drammaticamente le contraddizioni del progetto di industrializzazione: a suo parere esso obbediva al disegno di sottomettere la cultura della Barbagia ad una falsa modernizzazione neocapitalista: <<la penetrazione industriale nella Sardegna centrale si configura come strumento di dominio consapevolmente adottato al fine di distruggere le preesistenti forme di aggregazione sociale e politica quale condizione basilare nel quadro del processo di colonizzazione del territorio della Sardegna centrale>>. In parallelo il Circolo di Orgosolo contestò in radice il tentativo neocolonizzatore, includendo nella condanna anche il Parco del Gennargentu e il poligono per le esercitazioni militari di Pratobello. Infine combatterono apertamente contro l’industria Chimica Antonello Satta e Giuliano Cabitza alias Eliseo Spiga di Città e Campagna. Né va dimenticato il libro di Fanco Cagnetta sui Banditi ad Orgosolo (1975). Non posso però tacere che venti anni dopo, alla fine della mia esperienza in Provincia, il Parco Nazionale del Gennargentu profondamente rimeditato e progettato da un’équipe di altissimi studiosi poteva sembrare, dopo il fallimento dell’industrializzazione, “una straordinaria occasione da non perdere”. Questo fu almeno il titolo che trovammo per il convegno di Desulo: della strana compagnia dei promotori facevano parte oltre a me anche Pasquale Zucca, Achille Crisponi e Antonio Sassu.Non mancano in queste pagine anche riferimenti agli anni successivi, che mi sembra di dover sintetizzare al massimo: l’incendio dell’Ortobene del 26 agosto 1971, partito da Oliena: io stesso ho percorso in cinquecento i tornanti che portavano sulla vetta dell’Ortobene, una terribile landa infernale coperta di cenere, con la casa rupestre del pastore, scavata sul gran masso che si affacciava verso il bosco con gli alberi scheletriti; Manoni più tardi sarebbe stato assessore regionale all’ambiente nella giunta Ghinami, qui avrebbe conosciuto l’impegno dei forestali, gente come Paolo Favilli e Antonello Mele, impegnati nella ricostituzione dei boschi dell’Ortobene, anche se quella contro il fuoco gli parve una guerra difficilissima che non poteva essere vinta.Ci sono in queste pagine alcune figure significative, come quel Giovanni Nonne di Fonni che gli apparve ambizioso, gran parlatore, organizzatore di consenso, predestinato alla politica; fu lui, dalla minoranza vincente, a indicare l’amico-avversario Mannoni per la segreteria della Federazione (al posto di Vigilio Asoni), ottenendo in cambio nel 1975 la presidenza della provincia di Nuoro, punto di partenza di una carriera davvero sfolgorante. Nel frattempo, documenti alla mano, Mannoni può dimostrare gli interventi della Federazione per denunciare la fragilità dell’industria, il mancato rispetto delle promesse da parte dell’ENI, la distanza tra il numero degli operai che sarebbero dovuti essere assunti (7000) e quelli che di fatto lo furono (2000), nei giorni della crisi petrolifera. Ma sorprende la frenesia del fare che improvvisamente si verificava a sinistra, anche in occasione della battaglia per l’abrogazione della legge Fortuna che aveva introdotto il divorzio, col rischio di fortissime tensioni sociali: ricompare l’amica di sempre, quella Chiara capace di vedere lontano, di battersi per i diritti, di rivelare le tracce di una realtà nascosta e preoccupante; la sua storia attraversa tutto il libro, fino alla scelta della ribellione contro la rassegnazione di tutti. Forse Mannoni si rimprovera di non averla capita fino in fondo. Tra le compagne emergono Simonetta Murru, primo sindaco donna di Nuoro tra il 1991 e il 1992 e Vannina Mulas, prima consigliere regionale donna nel 1989. La legge 268 del 1974 che rifinanziava la Rinascita con mille miliardi, poi ridotti a 600: in quei giorni Del Rio presentava i risultati raggiunti dalla sua terza giunta, indicando i pericoli di degenerazione burocratica e clientelare della struttura centralistica della Regione Sarda e proponendo un processo continuo di democratizzazione delle strutture rappresentative e delle varie e multiformi espressioni della società civile e del popolo sardo. Il bilancio si chiudeva alla vigilia dell’approvazione voluta da Mariano Rumor nel suo V governo sul Rifinanziamento del piano straordinario per la rinascita economica e sociale della Sardegna e riforma dell’assetto agropastorale in Sardegna, con il discorso dell’11 aprile 1974 che rivendica – scriveva Carrus – la conquista più importante della legislatura, non solo per la Giunta ma per l’intera classe politica regionale. Non per nulla Rumor fu in quei giorni in Sardegna, dove lo ricordo a Badd’e Salighes arrivare in elicottero tra migliaia di simpatizzanti. I risulti non furono pari alle attese e forse esagerava Brigaglia a dire che la Sardegna usciva finalmente dal suo lungo Medioevo, mentre criticamente Simonetta Sanna avrebbe osservato che si verificò una resa acritica agli aspetti deteriori di una modernità a rischio. Del resto già Antonio Pigliaru su Ichnusa e Renzo Laconi avevano paventato l’ipoteca dell’industrializzazione petrolchimica sullo sviluppo dell’isola. Sottoscrivo tutte le osservazioni fatte da Mannoni sugli errori della politica nuorese, ma non concordo sul giudizio negativo a proposito del “compromesso storico” di Berlinguer, momento fondamentale di incontro tra culture diverse nel nostro paese, tutte meritevoli di ri-conoscersi e di mettersi a confronto. Ancor meno concordo sul giudizio relativo alla programmazione regionale a partire dal 1974, con la nascita voluta dalla legge 33 di Paolo Dettori dei comprensori, criticatissimi da Mannoni perché essi erano unitari, nel senso che erano governati insieme da maggioranza e opposizione. Un po’ come le comunità montane nate l’anno dopo (legge 45 del settembre 1976) per volontà di Pietrino Soddu, Presidente che si era tenuta la delega della programmazione: per Mannoni entrambi organismi pletorici, addirittura fantasmi, frutto di quella “intesa Autonomistica” precaria che aveva quella che Mannoni ritiene un’anomalia accettata come endemica, quella del consociativismo, perché il PCI stava e non stava nel governo della Regione, con un’evidente ambiguità. L’A. precisa che si tratta di una sua opinione, dunque ho le mani libere per dire esattamente il contrario: quando mi candidai per la prima delle 6 legislature alle quali ho partecipato, 4 a Bosa e 2 a Nuoro, c’erano sindaci di comuni contigui che non si rivolgevano la parola, consigli comunali completamente spaccati, impegnati a discutere dei fatti di Ungheria o della Nato. Le due leggi sulla programmazione, che avevano il merito di agganciare lo sviluppo al territorio, alle regioni storiche della Sardegna, che cercavano di rallentare il processo naturale dello spopolamento delle zone interne, ora mettevano in giunta insieme comunisti, socialisti, democristiani, laici e cattolici, a discutere finalmente del futuro delle loro città, dei loro paesi, delle loro montagne. Allo tesso modo in questo campo l’ISPROM nato nel 1972 per impulso di Pietrino Soddu e Pierangelo Catalano riusciva a mettere insieme le diverse anime della politica sarda, facendo riconoscere gli uni con gli altri. È evidente la ragione per la quale tale larga intesa era osteggiata dai socialisti a livello regionale come nazionale: basta pensare all’incontro a Nuoro e a Su Cologone con Bettino Craxi vicesegretario del PSI che con lucidità avversava quel compromesso storico in forza del quale si reggeva al momento un ennesimo governo Andreotti. Le elezioni del 1975 se portarono Nonne alla presidenza della provincia di Nuoro, segnarono un successo socialista, che fu accompagnato purtroppo dalla morte di Peppino Catte a Nurallao, sul campo, nel corso di un dibattito con la cooperativa dei pastori di Nurri: Mannoni ne ricorda la capacità politica e la forte componente etica. Nonne lasciò perciò la Presidenza a Mario Cheri per diventare Assessore regionale all’agricoltura e alla riforma agropastorale al posto di Catte nella IV giunta Del Rio. Discutendo a posteriori la retorica della politica, il tema del successo del sardismo diffuso e il concetto, relativamente superficiale, della costante resistenziale concepito da Giovanni Lilliu, recuperato dal PCI nel solco del pensiero gramsciano, di Camillo Bellieni, Emilio Lussu, Mario Melis, Mannoni sa bene che la realtà era ben più complessa e non poteva essere ingabbiata in una formula: di conseguenza pur non negando di aver in passato praticato le argomentazioni legate alla lotta per le zone interne, le vede ora come necessità di recupero di una sorta di esclusione non solo e non tanto dallo sviluppo industriale, ma dal circuito della modernità del lavoro, dei servizi civili, della formazione scolastica. Nella convinzione che le condizioni di arretratezza del territorio esigevano comunque uno sforzo enorme di rivendicazione e di lotta. Marco Tangheroni ci aveva invitato a superare la storia economica praticata dalle Annales, per rendere conto della complessità della storia; una storia che metta l’uomo al centro del dibattito, che superi interpretazioni schematiche e superficiali, dominate dalle forze materialistiche così come proposto dalla storiografia marxista, che tende a concentrarsi su una sola causa, mentre la storia è frutto di più cause concomitanti e diverse. Perché – questo è il fulminante aforisma di Gómez Dávila – «quello che non è complicato è falso». Gli storici ormai obsoleti e stanchi sono costantemente oggetto di ironia e di polemica, perché rischiano di trasformare la storia in una disputa teologica, dimenticando l’oggetto stesso della ricerca, proponendo generalizzazioni che appaiono agli studiosi di un’ingenuità che intenerisce, come a proposito dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, i concetti di crisi della borghesia, il tema meccanicistico del determinismo e della necessità causale. Del resto Gómez Dávila aveva osservato che un lessico di dieci parole è sufficiente al marxismo per spiegare la storia, che è globale. Per un paradosso però Mannoni concorda con Lilliu sul fatto che il linguaggio politico è ormai usurato, che in questo clima un poco triste di un regionalismo fallito, di una politica culturale ancora insufficiente all’interno dell’autonomia sarda, c’è da superare una retorica stanca e conservatrice se si vuole combattere l’emarginazione e il degrado fisico, sociale e culturale di un territorio. Il PSI si è irrobustito grazie alle lotte operaie, in questo defaticante passaggio da un modello arcaico a quello industriale, in questa alleanza tra tanti protagonisti di una lunga stagione di lotte, Gianni Nieddu, Piero Contu, Beppe Angioi, Saverio Ara, Pietro Vitzizzai, Costantino Tidu, Antonio Delussu, Antonio Giuseppe Fadda Graziano Verachi, personaggi di un’epopea alta e decadente: con la chiusura di stabilimenti, il declino del tessile, della metalmeccanica, nell’abbigliamento, la chiusura di tante scuole. Duro mi sembra il giudizio sul vescovo di Nuoro Giovanni Melis: <<alla Metallurgica del Tirso la Pasqua del 1978 la trascorsero in fabbrica. Agli operai occupanti si unì il vescovo di Nuoro Monsignor Melis, figura forte e coerente, ma assente nei momenti di lotta e di dolore che segnarono l’agenda del suo ministero nella Diocesi di Nuoro>>. Il giudizio è ingiusto e tutti ricordiamo l’impegno del Cappellano Don Salvatore Bussu nel 1983 contro le dure condizioni di detenzione di Badu ‘e Carros, penitenziario-polveriera dove erano concentrati tanti big del terrorismo nei complicati anni di piombo. E tutti ricordiamo la polemica di Mons. Melis con il Procuratore cagliaritano Giuseppe Villasanta che aveva mostrato un eccessivo <<zelo inquisitorio>> (sono parole del vescovo) contro il cappellano di Badu ‘e Carros. Del resto l’episcopato di Mons. Pietro Meloni non sarebbe stato più tranquillo, come testimonia l’uccisione del parroco di Orgosolo don Graziano Muntoni, impegnato contro il racket. Esattamente un anno fa chiudeva per sempre Ottana Polimeri. Per Mannoni l’8 agosto 2017 è il momento in cui si è celebrato il funerale dell’industria nella Sardegna centrale: come non pensare a tante altre realtà industriali della Sardegna come a Porto Torres, con i danni inferti all’ambiente in una delle zone più delicate del Mediterraneo; oggi quei cimiteri industriali raccontano storie di iniziative velleitarie, di speculazioni piratesche, di infrastrutture inutili, di opere mai realizzate; soprattutto della velleitarismo di chi sperava negli effetti diffusivi sul piano del reddito, dell’occupazione e dei consumi, nell’attrazione di capitali dall’estero, della capacità di assorbimento degli investimenti. Storie di persone, di imprenditori mordi e fuggi, di sindacalisti coraggiosi. Storie di uno sfruttamento selvaggio. Storie di migliaia di lavoratori che hanno creduto nel sogno petrolchimico e che ora portano nei ricordi e talvolta anche nel fisico i segni di quegli anni di illusioni. Di fronte a queste macerie può prevalere lo sconforto, interrogarsi sulle responsabilità di tutti, ma per Mannoni si deve guardare avanti, costruire un’economia industriale competitiva a livello internazionale, consapevoli che occorre tener conto delle complessità del mercato internazionale e del rispetto dell’ambiente. Per affrontare le criticità occorre avviare una riconversione industriale che si basi sui punti di forza che pure esistono, prima tra tutti la cultura industriale costruita dalle generazioni precedenti. Deve essere chiaro che il tema delle Bonifiche lungo la valle del Tirso è anche una grande questione etica, un dovere civile: occorre sfruttare il patrimonio di conoscenze e di errori accumulati negli anni per avviare il risanamento e la riconversione industriale. Credo che gli anni del successo al Midas di Bettino Craxi siano troppo noti per essere qui richiamati; in contemporanea emergeva in Sardegna una classe dirigente in piena sintonia coi vertici nazionali. Tra tutti voglio citare almeno l’avv. Giannino Guiso difensore dei brigatisti, osteggiato dal deputato socialista Cesare Pirisi ma drammaticamente ferito in un attentato in una sera di dicembre 1981 a Nuoro, con un’arma che proveniva da un deposito clandestino delle BR nel Nuorese, forse un depistaggio. In Regione si celebrò nel 1978 il trentennale dell’autonomia; dall’anno successivo si succedono, con l’ingresso in consiglio regionale di Mannoni, eletto con oltre 5000 preferenze nel collegio di Nuoro, le presidenze del socialdemocratico Alessandro Ghinami con Mannoni alla difesa dell’ambiente, poi con la VIII legislatura la presidenza del socialista Francesco Rais dal 1980, poi Angelino Rojch dal 1982 con Mannoni alla programmazione, bilancio, assetto del territorio, infine Mario Melis dal 1984; con la seconda giunta Melis nel 1985 Mannoni tornava alla Programmazione; seguiva Mario Floris nel 1989 e Antonello Cabras dal 1991. Ho visto che in queste settimane Maurizio Cocco ha commentato la vicenda con il bel libro La svolta a sinistra e la crisi dell’autonomia, Politica e istituzioni in Sardegna (1979-1989), uscito per la Franco Angeli, dove un ampio spazio è dato agli interventi di Franco Mannoni, interessato a cogliere le dinamiche della globalizzazione con un rilancio dell’isola nella sua posizione di centralità rispetto al Mediterraneo (dai Quaderni Bolotanesi, X), perché già nel 1985 si trattava di inquadrare l’autonomia nell’ottica europea e globale e quindi di un’Europa regionalista, ma attraverso un vasto movimento politico di massa e popolare, anche attraverso la revisione dello statuto che non è mai stata realizzata concretamente. Ma è la Giunta Rais nell’VIII legislatura che sconvolge gli equilibri con la svolta a sinistra e l’inedita alleanza del Psi col Pci, Psd’Az, Psdi e l’appoggio dei radicali: <<Se infatti per Mannoni la nuova giunta con i radicali “fa un tratto di strada insieme, [nella speranza] che non ci buttino in cunetta”, per Soddu è un’operazione disgustosa, così come per il dc Eusebio Baghino, per il quale è roba da buoncostume della politica>>. Presidente del Consiglio era Armandino Corona, prossimo Gran Maestro della Massoneria. È la fine dell’intesa autonomistica e l’avvio di un fervido periodo di impegno: << altri giudicheranno quanto ci siamo avvicinati agli obiettivi e quanto li abbiamo mancati>>. A me personalmente sembra che in consiglio regionale si siano confrontate personalità di alto livello, Mannoni è uno di questi, ma anche modestissimi personaggi di provincia, che l’etichetta di uomini di sinistra non recupera affatto. Anzi, tra i dc, Angelo Rojch gli sembra un politico a tutto tondo, nato nella politica e in essa immerso come un pesce nell’acqua. <<Dotato di una vasta rete di rapporti a tutti i livelli, ricco di fantasia e immaginazione, instancabile fino alla frenesia. Era difficile stargli appresso, impossibile inseguirlo nella rutilante gestione della presidenza. Passava dal tavolo sindacale agli incontri riservati con alti prelati e notabili>>. E come dimenticare Antonello Soro o tra i comunisti Luigi Cogodi ? Tra i Sardisti Mario Melis, irruento, passionale, ombroso, capace di travolgenti entusiasmi come di scoramenti, aperto al nuovo, convinto custode della tradizione culturale e politica sardista, ma capace di proiettarsi con convinzione nella modernità dell’Europa. Nel frattempo tantissimi avvenimenti pure sconvolgenti come gli assassini a Mamoiada del socialista l’amico Agostino Golosio (2 dicembre 1979) e del fratello Ottavio, rimasti impuniti: un dolore grande e la consapevolezza che la Rinascita rimane un’utopia che alimenta rancori e diffidenze. Qui c’è la chiave di tutta la storia, perché Mannoni si convince che le condizioni dello sviluppo non sono le iniezioni di risorse finanziarie ma la riforma delle istituzioni, la scuola, il miglioramento della formazione, la ricerca scientifica e l’innovazione; le nuove opportunità per i giovani. La nascita dei corsi di laurea a Nuoro a partire dal 1990 risponde proprio a questa domanda, come il Consorzio bibliotecario Satta, l’Ente Musicale a Nuoro, l’AILUN, gli Editori Ilisso e Maestrale, l’ISRE, il MAN. Più in generale l’innovazione istituzionale e programmatica, le nuove politiche del lavoro, gli ambiziosi programmi di infrastrutturazione che hanno lasciato segni visibili, il Consorzio 21-Sardegna ricerche o il CRS4 o il progettato nodo informatico del Nuorese, infine Tiscali e Renato Soru. Ne ricaviamo complessivamente l’impressione di una battaglia lunga e coerente: la politica non ha ragione di esistere se non come impegno intorno a idee e interessi, mediazione di conflitti, ricerca di risposte ai bisogni, strumento di conquiste collettive e individuali.Ma forse il bilancio finale rimane quello del volume Disincanto e speranza, dieci anni fa, come ho rivisto nell’intervista RAI di Romano Cannas, che richiamava uno sforzo di obiettività da parte di tutti, il richiamo alle responsabilità, partendo dalla lezione di Antonio Pigliaru: si deve prendere atto del disastro della programmazione regionale, forse a causa del fattore umano, dei ritardi che proprio la scuola avrebbe dovuto correggere, dello squilibrio tra intraprese eccessive e un’arretratezza arcaica che non è stata sconfitta da una classe politica che ha ereditato la malattia del localismo in un’isola incapace di diventare “soggetto autonomo e non oggetto” e che non è mai uscita – per usare le parole di Pietrino Soddu – dall’isolamento, dall’infelicità, dalla sensazione di essere oppressa.
Attilio Mastino